Periferie

Permettetemi di cominciare da lontano. Nella prima metà del III secolo a.C, un astronomo greco, Aristarco di Samo, formulò un’ipotesi a tal punto assurda da meritarsi – benché in verità non gli fu mai comminata – una condanna a morte per empietà. Questa teoria sconclusionata, perversa, rigettata con ferocia da Platone, Aristotele e in seguito Tolomeo, e che oggi sappiamo essere qualcosa di più di una teoria, è l’eliocentrismo: il sole al centro dell’universo e i pianeti, tra cui la terra, che gli orbitano attorno. Non stupisce – e non è un caso – che i più grandi pensatori dell’antichità ritenessero il povero Aristarco un idiota, o quantomeno ritenessero idiote le sue congetture. Non c’erano prove a sostegno di quel che diceva, mancavano strumenti scientifici e cognitivi adeguati, e come se non bastasse era sufficiente alzare lo sguardo al cielo per confutare le strampalate idee dell’astronomo: durante il giorno infatti il sole si muove, sorge a est e tramonta a ovest, di notte sono invece la luna e le stelle a percorrere ampie traiettorie circolari, e mentre tutto questo accade noi siamo fermi, immobili, qui sulla terra; vi torna? Certo che no, sappiamo che si tratta di un inganno dato dalla nostra prospettiva, ma ciò che ci sembra scontato e indubitabile nel 2023, non ci sarebbe sembrato per nulla scontato, e neppure lontanamente indubitabile, tremila anni fa. In barba all’evidenza che i suoi occhi gli suggerivano, Aristarco ebbe una delle più grandi intuizioni nella storia dell’umanità. Fortuna, ispirazione, uno straordinario slancio immaginifico? Genio?

La sua dottrina, comunque, fu essenziale per Niccolò Copernico quando, ottocento anni dopo, diede il via alla cosiddetta rivoluzione astronomica, descrivendo il sistema solare per come lo conosciamo oggi. Più tardi, la teoria copernicana e l’eliocentrismo di Aristarco di Samo vennero ripresi da uno scienziato e da un frate-filosofo scomodo e rivoluzionario, vissuti loro malgrado sotto il tallone dell’Inquisizione romana. Sto parlando, naturalmente, di Galileo Galilei e Giordano Bruno, il primo condannato all’abiura del suo Dialogo, il secondo arso vivo in Campo de’ Fiori.

Non sono un teologo, non sono un esperto di storia della scienza, per di più ritengo che giudicare l’atto di abiura di Galileo, o l’esecuzione di Bruno, senza considerare l’epoca in cui questi fatti, tra l’altro molto complessi, si sono svolti, incasellandoli meccanicamente nel mosaico di orrori compiuti dalla Chiesa, sarebbe un esercizio grossolano e anche un po’ sciocco. In ogni caso, non siamo qui per fare un processo alla Storia, come si suol dire, ma per scoprire se esiste un altro punto di vista da cui osservare questi eventi lontani. E chiederci se un punto di vista alternativo, oggi, possa aiutarci a capire un po’ meglio il presente.

La scomunica, l’abiura, passi quello, ma l’omicidio: con che fegato, e in virtù di quale principio, un uomo, un popolo, ne condanna un altro, colpevole di pensarla diversamente, per così dire, a morire tra le fiamme? In effetti, le accuse che pendevano sul capo di Giordano Bruno erano parecchie; trentuno, per la precisione: stregoneria, sovversione, lussuria, pervicacia, negazione della vergine Maria e della trinità, più una lunga serie di reati morali e d’opinione. Semplifichiamo eccessivamente e consideriamone una soltanto, di accusa, immaginando che da questa siano dipese tutte le altre, vale a dire l’elogio della teoria copernicana (si tratta di un’approssimazione un po’ forzata, me ne rendo conto, ma in fondo non siamo così lontani dalla realtà). Giordano Bruno credeva in un universo infinito, al centro del quale si sarebbe trovato il sole, generato da un Dio immanente e trascendente e popolato non solo dalla terra e dall’uomo, ma da infiniti mondi; e poiché queste sue teorie erano incompatibili con la dottrina della Chiesa, che le reputava eretiche, dopo essersi rifiutato di abiurare è stato bruciato vivo in una piazza. Se la ricerca della verità e la difesa incondizionata delle proprie idee hanno spinto Giordano Bruno, la vittima, ad accettare persino l’eventualità della morte, viene da chiedersi quale oscuro sentimento si celi invece dietro le mosse del carnefice.

In prima battuta si direbbe che solo un moto di follia possa spiegare tanta crudeltà. D’altra parte, però, sappiamo quanto frequenti fossero le morti sul rogo in Europa tra la fine del medioevo e l’età moderna: è quindi il caso di parlare di isteria di massa? Oppure la follia in questa storia non c’entra proprio niente, e l’essere umano era semplicemente più bruto, se non addirittura meno evoluto, di quanto non lo sia oggi? Prendendo per buona la prima ipotesi, potremmo domandarci: cosa ha scatenato allora questa peste invisibile e violenta che ha portato decine di migliaia di donne e uomini a essere accusati di eresia, sodomia e perfino stregoneria?

Ridotto all’osso, l’affaire Giordano Bruno può essere sintetizzato in questo modo: al pensiero dominante dell’epoca non piaceva l’idea del frate secondo cui la terra e l’uomo fossero dislocati nelle periferie del Creato. Così l’ha fatto fuori. Ancora una volta, verrebbe da pensare che soltanto un pazzo sia capace di una simile barbarie. Ma poi ci ricordiamo dell’abiura di Galileo, ci ricordiamo di Giovanna d’Arco, Cecco d’Ascoli e Girolamo Savonarola, tutti morti sul rogo, della caccia alle streghe, e insomma cominciamo a vederla per quello che è: una carneficina sistematica. Superstizioni, dottrine alternative e scienza venivano sfruttate non solo della Chiesa, ma anche e soprattutto da magistrati, sovrani, talvolta semplici cittadini che invocavano il potere religioso per sedare le rivolte contadine, ad esempio, oppure per trovare un capro espiatorio in un mondo assediato da guerre e carestie. Ma ancora non abbiamo sciolto il nodo fondamentale della questione: ovvero se esiste un sentimento universale, qualcosa che ha a che fare più con la natura umana che con le ragioni politiche e sociali, all’origine dell’omicidio di Giordano Bruno.

Periferie_Editorialedicembre
Editoriale N°23 – Periferie

Quello che di certo sappiamo è che ogni nostro tentativo di dispiegare le verità del mondo viene continuamente e inevitabilmente influenzato dall’esperienza sensoriale e da un antichissimo retaggio culturale. A proposito dell’esperienza sensoriale, chiamiamo reale tutto ciò che è palpabile, percepibile: se qualcosa non lo vedo, questo qualcosa probabilmente non esiste. È una faccenda molto legata al linguaggio. Diciamo che un bicchiere senz’acqua è un bicchiere vuoto, eppure è pieno d’aria. Ma anche svuotato di tutta l’aria e posto nella zona più remota e buia del cosmo, la fisica ci dice che all’interno del bicchiere avviene comunque qualcosa: milioni e milioni di particelle nascono e muoiono ogni istante. Questo fenomeno ha un nome complicato, fluttuazione quantistica, e non si vede: ciò nonostante, esiste. È reale.

Non così facile da visualizzare è invece la questione del retaggio culturale. Limitiamoci a dire che una parte sostanziosa del nostro modo di vedere il mondo non è intrinseca dell’essere umano, ma l’abbiamo ereditata da chi ci ha preceduto. È presente in ciascuno di noi, però si nasconde, come le fluttuazioni quantistiche è difficile da scorgere, e sul piano dialettico tende a manifestarsi in modo molto astratto – il che la rende praticamente invisibile agli occhi di coloro che attribuiscono importanza solo alle cose concrete, liquidando come intellettualoide e privo di valore tutto ciò che è astratto. Il patriarcato è un retaggio culturale, una certa idea di famiglia, la nostra incapacità di accettare la morte come parte della vita. Ma anche l’antica credenza secondo cui la realtà profonda è concentrata nel cuore delle cose, al centro, è retaggio culturale. A ben pensarci, la realtà profonda di una città non è nel suo centro storico, ma nelle sue periferie. Benché non compaia sulle cartoline, una generica via di un quartiere periferico di Manhattan è molto più New York di quanto non lo sia Central Park, o Times Square, o la Statua della Libertà. Così la realtà profonda di Roma, oggi, non è rappresentata né dal Colosseo né dal Circo Massimo. Solo indagando le periferie, le periferie del sapere, le periferie del linguaggio, delle arti, le periferie della società, possiamo sperare di capire – e, se qualcosa non ci piace, magari anche correggere – il mondo.

Più o meno a questa stessa conclusione erano arrivati Aristarco, Copernico, Galilei e Bruno: Dio ha creato l’uomo a sua immagine e somiglianza, d’accordo, ciò nonostante ha posto il sole al centro dell’universo, non la terra (oggi sappiamo che nemmeno il sole è al centro dell’universo, ma che si trova nelle periferie di una galassia, la Via Lattea, la quale è solo una delle centinaia di miliardi di altre galassie sparse qua e là, e che un centro dell’universo nemmeno esiste). Decentrare, però, può anche significare – ai tempi di Giordano Bruno ha certamente significato – indebolimento, minore importanza. E in un’epoca dominata dall’ignoto, infiacchita da fame e pestilenze, abbandonare l’esperienza dei propri sensi e ammettere che la centralità della nostra esistenza è solo un miraggio non può che spalancare le porte alla paura. ♦︎


Illustrazione di Susanna Galfrè

Gabriele Olivo
Direttore editoriale. Sono nato a Torino nel 1997. Laureato in ingegneria aerospaziale, scrivo di scienza, attualità e letteratura per alcune riviste online. Ho frequentato il master in tecniche della narrazione alla Scuola Holden. Coltivo interessi disparati.

You may also like

6 Comments

  1. […] e di un ‘progresso’ che, molto spesso, non guarda in faccia a nessuno dimenticando periferie sia fisiche che ‘esistenziali’. Una storia che potremmo anche leggere sui nostri […]

  2. […] era troppo piccola. Ricordo che io non sapevo cosa fosse Mirafiori e lui mi ha spiegato che è un quartiere di Torino a sud della città. La mattina dopo andando a scuola ho chiesto a Clara, la mia babysitter, in che zona abitassimo […]

  3. […] Prendono i miei battiti mettendoli al loro passo e regolano il mio respiro. Mi portano alle periferie ormai deserte dei miei ricordi e incominciano a raccontarmi il Natale della mia infanzia, vissuto […]

  4. […] i pettegolezzi. Indugia, invece, sul suo interesse (quasi una vera e propria ossessione) verso le periferie. Sono già passati undici anni dalla travagliata pubblicazione per l’editore Garzanti del suo […]

  5. […] dei pangoccioli artigianali di via Magazzini Generali. Ma ciò che più mi ha colpito sono le periferie. Una, in particolare, mi ha ammaliato. Nei suoi circa quarant’anni anni di vita, il […]

  6. […] con i suoi limiti e non rassegnarsi a loro, ma provare a trasumanare, cioè a travalicare le periferie dell’insufficiente umano con la facoltà più affascinante, appagante – seppur a primo impatto […]

Leave a reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *