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Un viaggio intimo in cinque tappe nel Paese del Sol Levante, tra grattacieli, foreste di case basse e sperduti templi millenari. Secondo episodio

Lascio Tokyo, seduto sul sedile rosso dello Shinkansen, diretto alla prefettura di Fukui, dove in un piccolo paesino sperduto tra le montagne si trova il tempio Eiheiji. Ho scelto la fila destra del treno perché mi hanno detto che, andando verso sud, da questo lato si vede il monte Fuji. Tengo gli occhi incollati al finestrino, ma è estate, e una foschia copre ogni cosa in lontananza. Quando i grattacieli finiscono, le case continuano, come se in questo paese non fosse rimasto neanche un metro di terra selvaggia. Ci sono tralicci, tetti bassi, risaie e rotaie di treni che vanno in ogni direzione. Del monte Fuji riesco a vederne solo una parte; è una montagna larga, come non ne ho mai viste, tagliata a metà dal cielo. Ai suoi piedi, le costruzioni si ammassano, assistono, come spettatori seduti in platea con la testa rivolta verso il palco, allo spettacolo di quell’enorme roccia che è lì da sempre.

I giapponesi hanno la capacità di ammirare qualcosa di immobile con la stessa tensione e lo stesso trasporto di quando si guarda la scena clou di un film. Saper ascoltare la storia che racconta il momento presente: zen. Ormai ci siamo abituati a questa parola, la usiamo per descrivere qualcosa che ci trasmette pace e calma, ma che cosa significa davvero? La parola «zen» non nasce in Giappone, ma in Cina, come ch’an, e identifica una branca del buddhismo incentrata su una tecnica di meditazione chiamata zazen o meditazione del vuoto. Lo zen è una via che conduce alla realizzazione di sé e del mondo che ci circonda. I buddhisti giapponesi chiamano il raggiungimento di questa condizione satori, che letteralmente significa illuminazione.

Scendo alla stazione di Maibara e ho pochissimi minuti per cambiare treno e prendere il regionale per Fukui. Sono diretto in un piccolo paesino tra le montagne, dove c’è un tempio zen che ha quasi mille anni. Il regionale è più modesto rispetto allo Shinkansen e devo restare in piedi perché i posti a sedere sono tutti occupati.

Arrivato a Fukui, prendo un pullman e comincio a salire per una strada a tornanti. Anche qui, le case non si fermano mai: di continuo spuntano piccoli paesini. Hanno i tetti di paglia come le case di montagna in Austria o nella Baviera del sud, la vegetazione cambia, gli alberi con le foglie chiare diventano conifere con aghi fitti e scuri. Il capolinea del bus rimane all’ingresso di un paese costruito lungo la strada. In fondo, poco distante dalle ultime case e nascosto in mezzo ad alberi altissimi, si intravede il tempio. Domina su tutto. Dall’altro lato della strada c’è una pasticceria e, accanto, un ristorante. L’autista del bus me li indica e mi spiega che dovrò comprare lì il biglietto per il ritorno. Sono lontano dagli alti grattacieli di Tokyo, dal caos della metropoli e dal mondo moderno. Ho la sensazione di essere tornato indietro nel tempo, di essere sospeso in una bolla che potrebbe scoppiare da un momento all’altro. Vorrei fermarmi a mangiare qualcosa, ma non ho calcolato bene gli orari e tra mezz’ora devo essere al tempio. Almeno questi sono gli accordi presi via mail prima di partire. Ho dovuto fare richiesta con due mesi di anticipo per poter passare un solo giorno assieme ai monaci e per partecipare alle loro sessioni di meditazione. Sul modulo per compilare la richiesta bisognava indicare la motivazione. Ho scritto due righe sul fatto che fossi affascinato dal loro stile di vita, credendo di essere stato poco convincente e che rifiutassero la mia richiesta.

Mi incammino verso il tempio Eiheiji. Ero già stato in questo posto nel 2017 con mio padre. Era il mio primo viaggio in Giappone. Mio padre è buddhista, è una di quelle persone che davvero si siedono in meditazione tutti i giorni. Io non sono mai riuscito a mantenere una vera costanza e spesso, quando ci provo, mi innervosisco. Ma c’è qualcosa nella cultura e nello stile di vita dei monaci zen che mi attira profondamente, forse è proprio il fatto che sono l’opposto di me, come mio padre.

Prefettura di Fukui, Tempio Eiheiji 1
Prefettura di Fukui, tempio Eiheiji. Ingresso

Due grandi pilastri, con incisi degli ideogrammi, segnano l’inizio del complesso templare. Percorro la via d’ingresso che passa attraverso il bosco. La statua di un rospo sospesa in mezzo a uno stagno cattura la mia attenzione. Mi fermo a guardarla, mi trasmette un senso di austerità. Le varie aree del tempio, con i tetti cinesi, si estendono fino a perdita d’occhio. Arrivo davanti all’entrata. Sopra un’enorme porta di legno ci sono due lembi di stoffa viola con un fiore bianco dipinto. È lo stemma della famiglia di Eihei Dogen, il monaco che nel 1192 fondò il Sōtō Zen e questo tempio. Tra tutte le correnti dello zen, quella del Sōtō è la più radicale, poiché esalta il momento presente come unica verità possibile e professa il distacco da ogni aspetto della vita materiale.

Sul ciglio, un monaco vestito completamente di nero mi sta aspettando. Ha un foglio in mano con scritto il mio nome, faccio sì con la testa e lui mi porta in una sala piena di armadietti. Infilo delle ciabatte di plastica e lo seguo in quella che dev’essere la sala d’accoglienza. Ricorda la hall di un vecchio hotel. Sulla destra c’è una piccola area ufficio con computer, pile di documenti e tanti monaci con la testa rasata che digitano rumorosamente sulle tastiere. In fondo c’è un piccolo negozio che vende libri. In mezzo, invece, delle poltrone marroni di pelle senza nessuno seduto. Il fumo dell’incenso aleggia come la nebbia estiva che si alza dai campi.

Il monaco di prima mi fa sedere davanti a un desk, vicino alla zona ufficio. Mi fanno compilare dei fogli con i miei dati e poi aspetto. Poco dopo arriva un altro monaco, porta degli occhialetti tondi che gli ingrandiscono le pupille, facendolo sembrare il disegno di un manga. Si chiama Taisen e parla italiano. Gli chiedo dove ha imparato la mia lingua. Lui sorride e mi spiega, mentre andiamo verso la foresteria, che prima di essere monaco è stato un cantante di lirica e ha studiato in Italia. Vorrei chiedergli di più sulla sua storia, mi ha incuriosito, ma non mi lascia parlare. Saliamo al piano di sopra e andiamo nella stanza dove dormirò. È molto semplice: tatami a terra, finestre in carta di riso, un tavolino con sopra un thermos per il tè e una fila di futon arrotolati a terra. C’è anche un altro ragazzo, un olandese di nome Paul. Il monaco si congeda dicendo che ripasserà a breve per farci fare una visita guidata. 

Nel tempio c’è chi cura l’orto, chi pota le piante del giardino e chi è addetto alla cucina. Quest’ultimo è l’incarico più difficile perché i monaci si devono svegliare un’ora prima di tutti gli altri, ovvero alle tre del mattino. Passiamo per un corridoio molto luminoso che collega due strutture del complesso. Il pavimento in legno è lucido come uno specchio e non credo di aver mai visto un luogo così pulito. Taisen si ferma e precisa che c’è solo una mansione che spetta a tutti indistintamente: la pulizia. La fanno più volte al giorno e con una cura maniacale. Taisen dice che è un ottimo esercizio fisico. Mettono uno straccio a terra, ci poggiano sopra le mani e iniziano a correre avanti e indietro sul pavimento. 

Prefettura di Fukui, tempio Eiheiji. Taisen

Ha iniziato a piovere e lo stillicidio delle gocce d’acqua sul tetto in legno ci accompagna come una colonna sonora. Da fuori, l’odore della terra bagnata si mescola a quello dell’incenso che pervade ogni stanza. Usciamo all’aperto ma restiamo sotto a una tettoia. Ci fermiamo davanti a due pilastri di legno che reggono un tetto, anch’esso di legno. Taisen racconta che quello è il vero ingresso, ma che da lì possono passare solo i monaci. Non ci sono transenne o catene, nulla vieta ai normali turisti di calpestare quello spazio eppure, da quando il tempio è nato, quindi quasi mille anni fa, nessuno lo ha mai fatto. È compito dei monaci difendere quello spazio vuoto. Racconta che, quando gli aspiranti monaci vengono a chiedere di poter essere accolti al tempio Eiheiji, i monaci anziani li lasciano fuori da quella porta per ore e ore. In alto, appena sotto al tetto, ci sono delle tavole dove sono incisi i principi di un buon monaco: benevolenza, compassione, sobrietà, pazienza e perseveranza. Eppure, i giovani non riescono a leggere a causa del cappello a punta che portano. Infine, quando li lasciano oltrepassare la porta, diventano ufficialmente parte di quella che per i buddhisti è la shanga, la comunità che abita il tempio. Nel buddhismo, la shanga viene chiamata anche il terzo gioiello. I primi due sono il dharma, la via, e il Buddha, l’essere illuminato.

Proseguiamo la nostra visita e Taisen ci mostra le varie sale di meditazione, ognuna adibita a uno scopo preciso. Camminare nel tempio Eiheiji, ci spiega, non è qualcosa di diverso dalle attività di pratica e meditazione. Infatti, i monaci devono mantenere una specifica posizione delle braccia e delle mani. La mano destra che abbraccia il pollice sinistro e quella sinistra che contiene il pugno destro. Quando si passa davanti alla statua di un Buddha o di un bodhisattva (un essere che ha sviluppato il desiderio di diventare un Buddha allo scopo di aiutare altruisticamente tutti gli altri a raggiungere l’illuminazione o la liberazione dalla sofferenza e dal ciclo delle rinascite: pur avendo la capacità di raggiungere il nirvana, il bodhisattva sceglie di rimanere nel ciclo delle rinascite per assistere gli altri sulla via dell’illuminazione), bisogna inchinarsi.

Giungiamo infine nella sala dove parteciperemo alla prima sessione di meditazione. È un luogo che rimane nella penombra. Delle sedute di legno circondano tutto il perimetro. Ci fanno sedere lì sopra e Taisen mi spiega come utilizzare un piccolo cuscino rotondo, chiamato zafu, che serve per mantenere la corretta postura. Con un rintocco di campana inizia zazen. La posizione da tenere durante la meditazione si chiama shikantaza. Bisogna stare rivolti verso un muro, con la schiena dritta, il mento basso, le gambe incrociate, gli occhi socchiusi, e il respiro deve seguire pause a polmoni pieni e a polmoni vuoti. Le mani sono la cosa più importante, poste sotto alla pancia in mezzo alle gambe. La mano destra contiene la sinistra, i pollici si toccano. Poi suona una volta la campana e Taisen annuncia: «Zazen!». 

Prefettura di Fukui, tempio Eiheiji. Sala di meditazione

Le ginocchia cominciano subito a farmi male. Così mi muovo per cercare una posizione più confortevole, ma non la trovo. Inizio a contare i secondi, cerco di intuire quanto tempo manca alla fine della sessione. Il respiro diventa irregolare e la mia testa si riempie di pensieri. Delle gocce di sudore mi bagnano la fronte. Mi sento nel panico, vorrei alzarmi e andare via, fumare una sigaretta, ho sete. All’improvviso, sento una mano sulla spalla destra. È Taisen. Mi sposta il capo in avanti e dice: «Stai fermo». Un colpo netto, preceduto da un fischio nell’aria, si abbatte tra il collo e la spalla. Ogni pensiero svanisce.

L’oggetto con cui Taisen mi ha colpito si chiama keisaku, è un sottile bastone di legno che i monaci usano per ‘aiutare’ i praticanti che si distraggono o che non riescono a stare seduti. È un atto violento, che non ti aspetti. Tuttavia, serve a riportare la concentrazione sul momento presente. Il punto che viene colpito non fa eccessivamente male, sicuramente meno del dolore che provi alle gambe quando stai seduto per tanto tempo.

Dopo averlo ricevuto, riesco effettivamente a trovare un equilibrio; è stato come un fulmine che ha completamente svuotato la mia mente. Non so dire se è qualcosa di giusto o sbagliato, posso dire però che funziona. Secondo una visione zen, le azioni vanno compiute senza scopo né profitto. Eppure, noto una contraddizione. Tutto quello che i monaci fanno, da quando si svegliano a quando vanno a dormire, è diretto a uno scopo ben preciso: restare presenti. Forse allora è sull’assenza di un profitto che il loro modo di vivere si concentra. Fare ogni cosa al meglio delle proprie possibilità, spinti dal semplice desiderio di farla, di avvicinarsi il più possibile alla perfezione. Lo zen è una via molto dura, dolorosa e per pochi, e questo è quello che Taisen mi spiega appena finita la sessione.

Arriva l’ora di cena. Nella mia testa, il pasto sarebbe stato un momento di pausa, avrei fatto delle domande a Taisen, chiacchierato con Paul, mi sarei rilassato dopo l’ora lunghissima di meditazione. Invece no. I monaci sono seduti a un tavolo lungo e stretto, ci stanno aspettando. Ci accomodiamo in mezzo a loro e Taisen rimane in piedi. Lui non mangia con noi. Spiega che ci guiderà nel pasto. «In che senso?», penso. Altri monaci ci portano un vassoio con tante ciotole disposte in maniera ordinata. Poi tutti si mettono a recitare un sutra (una preghiera buddhista). In coro, sembrano indemoniati. I loro occhi, che spuntano come fiamme nei volti scavati, fanno quasi paura. Iniziamo a mangiare. La cena è vegetariana e le regole sono chiare: tutti devono mangiare contemporaneamente, ogni movimento è calibrato al millimetro e il tè nella tazza non va bevuto tutto. Bisogna lasciarne un po’, perché alla fine serve a lavare le bacchette con cui si è mangiato. Solo allora si può considerare terminata la cena.

Torniamo in stanza. Io e Paul non ci scambiamo neanche una parola. Stendiamo i futon e infiliamo il piumone dentro al lenzuolo. Poi usciamo dalla stanza e torniamo assieme a Taisen nella sala di pratica, ci sediamo e stiamo in zazen per altri quarantacinque minuti. Quando suona la campana e sciolgo le gambe, mi sento vuoto. 

Dalla finestra della stanza rivedo la statua del rospo. Lo scultore ha fermato l’animale nel momento che precede il salto. È come stare seduti e sentire il desiderio di alzarsi. Però non puoi, così continui a costringere il tuo corpo a stare fermo, cercando di non pensare. Ma come le zampe del rospo sono fatte per saltare, la mente è fatta per pensare. Mantenerla vuota è impossibile, e non puoi fare a mano di continuare a osservare le idee, i ricordi e le paure che ti passano davanti. Sembrano barche su un fiume. Mi stendo a letto e cerco di dormire. 

Prefettura di Fukui, tempio Eiheiji. Statua di un rospo

La sveglia arriva alle 3:50 del mattino. È ancora una volta il rintocco di una campana a scandire il tempo, un tempo che qui sembra immobile. Per prima cosa ci sediamo in zazen. Mi sembra ancora di dormire. La fatica che ho provato nella prima sessione è diminuita, come se fossi entrato in un ritmo diverso. L’incenso brucia in mezzo alla sala, disperdendo un fumo bianco, e la prima luce del mattino comincia a filtrare dalle finestre in carta di riso; lo capisco perché cambiano colore, da blu scuro ad azzurro. Giro il collo per distendere i muscoli e mi accorgo che accanto a me, seduto in zazen, c’è Taisen. Il kimono nero elimina quasi del tutto la forma del suo corpo, spuntano solo le mani e la testa. È completamente immobile, sembra morto. Un pezzo di roccia in mezzo a un torrente, la statua di quel rospo in mezzo allo stagno, dà l’impressione che nulla al mondo potrebbe fargli perdere la concentrazione. Mi ritorna in mente il monte Fuji, lo spettacolo immobile. Non riesco ancora a capire la natura di questa eleganza, eppure mi travolge. Un uomo seduto che non fa nulla. Rimarrei a guardarlo per ore. 

Questa volta il suono della campana segna la fine della mia visita al tempio. È ora di fare lo zaino e ripartire. Ho ancora tantissime domande; vorrei chiedere a Taisen com’è successo che un cantante lirico abbia deciso di rinchiudersi in un monastero, come si fa a vivere così lontani dal mondo: ma ho la sensazione che non sarei in grado di comprendere le sue risposte. Posso immaginare, fare supposizioni, ma quando la vita di qualcuno è a tal punto lontana dalla nostra, non ci resta che assistere in silenzio, come davanti alla fotografia di un luogo che non esiste più. Mi lascio il tempio Eiheiji alle spalle, il cielo è ancora grigio, e le statue dei Buddha in pietra, coperte di muschio, si perdono nella foschia del mattino. Forse un giorno ritornerò: per ora il mio viaggio continua, sono diretto a Kyoto.


Testi e foto di Umberto Ferrero