Tra la venerazione più sottomessa e il rancore più profondo. Il film gotico e a tratti camp di Emerald Fennell esplora il lato perturbante del privilegio attraverso il racconto di un’ossessione, erotica e non
Estate 2007. Il 14 luglio le librerie inglesi aspettano la mezzanotte: l’ultimo volume della saga di J.K. Rowling sta per essere pubblicato. Tutti vogliono quel libro. Tutti lo desiderano. Non è un caso, quindi, che il simbolo pop di una generazione sia posto tra le mani di Felix Catton (Jacob Elordi) in una scena diventata presto virale sui social. La cinepresa si muove velocemente: prima una ripresa in soggettiva in cui, attraverso lo sguardo di Oliver Quick (Barry Keoghan), il pubblico scruta insieme a lui l’oggetto del suo desiderio: il giovane rampollo della famiglia Catton seduto su una sdraio, mentre lecca un ghiacciolo, e legge. Ma la camera si stacca subito, lasciando lo spettatore, un po’ come Oliver, insoddisfatto. È trascorso il tempo di un fotogramma, il pubblico avrebbe desiderato vedere di più. Al contrario, ciò che segue è il ritorno al primo piano su Oliver che continua, inappagato, a scandagliare l’oggetto del suo interesse. Oliver Quick desidera Felix Catton. E lo spettatore, per puro desiderio mimetico, non può far altro che desiderarlo a sua volta, perché anch’esso è stato irretito dalla smania di Oliver. Sta tutto in questo scambio di sguardi: la consacrazione di quel fotogramma a simbolo per sineddoche dell’intero film è dovuta proprio al desiderio triangolare, tra soggetto (il pubblico), modello (Oliver Quick) e oggetto desiderato (Felix Catton). Qual è la differenza tra essere e desiderio di essere? Se è vero che, come scriveva il filosofo francese René Girard, «il desiderio non è altro che imitazione», allora gli studi girardiani sono facilmente applicabili all’arco di trasformazione del personaggio Oliver Quick, interpretato da un incredibile Barry Keoghan, in Saltburn. Nell’ultimo film scritto e diretto da Emerald Fennell si assiste al dispiegamento di un’esigenza unicamente umana: la necessità viscerale che ci spinge a cercare un’icona da venerare e le tragiche conseguenze di una sfrenata devozione. Dopo l’esordio nel 2020 con Una donna promettente, per cui si è aggiudicata l’Oscar alla migliore sceneggiatura originale, la Fennell torna dietro la macchina da presa per raccontare una storia immersa nella cultura pop, intrisa di eros e thanatos, critica di classe e desideri proibiti.
Io sono solo, mentre loro sono tutti
Oliver Quick ha ottenuto una borsa di studio per la Oxford University, ha origini modeste e non ha amici. Tutto cambia quando entra nelle grazie di uno dei più facoltosi e popolari studenti dell’università, il ricco e bellissimo Felix Catton. Oliver e Felix sono due ragazzi molto diversi: da un lato un outcast, dall’altro un insider, da un lato qualcuno che è mosso dal desiderio e dall’altro qualcuno che è reso oggetto del desiderio. Sono queste le premesse sociali di un’amicizia che nasce con quella che sembra essere un’innata spontaneità: Oliver aiuta Felix quando la ruota della sua bici si buca improvvisamente, Felix soccorre Oliver quando non ha soldi per offrire il secondo giro di drink al pub.
Le feste, l’agio, la spensieratezza, il potere che attorniano la figura di Felix ammaliano Oliver. Che qualcosa stia cambiando in lui, è chiaro: «Sembri diverso», gli viene detto quando abbandona la tipica e antiquata uniforme della scuola per adottare un outfit più rilassato e simile a quelli di Felix e della sua congrega. Felix ha la capacità di far gravitare attorno a sé tutto ciò che desidera. Eppure, ecco il paradosso: tutti desiderano Felix ma Felix non desidera veramente nessuno. Tira a sé, usa e poi abbandona le ragazze, che si disperano invano per lui. «Pensi che sarà geloso?» chiede una ragazza a Oliver, dimostrandogli di essere con lui solo per tentare di suscitare le attenzioni dell’altro. Attorno ad Oliver e al suo clan aleggia un’aura segreta che fa sentire gli altri esclusi dal retaggio divino: forse la matrice che spinge Oliver a desiderare di essere altro da sé nasce proprio da questo senso di inadeguatezza e dalla necessità di nasconderlo. Ecco perché la solitudine di Oliver assomiglia a quella dell’eroe dostoevskiano: «Io sono solo, mentre loro sono tutti».
Ma non bisogna farsi ingannare da tutto ciò che appare. L’arrivo di Oliver, durante le vacanze estive, nel maniero di Saltburn, di proprietà della famiglia Catton da generazioni, sancisce l’inizio di un lento disvelamento delle apparenze. La conoscenza dei coniugi Catton e la sorella di Felix, Venetia, cambiano il punto di vista di Oliver. «Molte persone si perdono a Saltburn», ribadisce, in una scena, il maggiordomo. Ma chi si perde? Chi ritrova se stesso?
I loved him, but was I in love with him?
È così che nasce un’ossessione. L’arrivo a Saltburn non fa che esasperare il desiderio di Oliver di diventare un Catton. Ma per volersi fondere a tal punto nella sostanza dell’altro, bisogna provare per la propria una ripugnanza insuperabile. In apertura del film, nella carrellata di fotogrammi con cui si apre il monologo di Oliver, c’è una frase che colpisce: «Lo amavo, ma ero innamorato di lui?» Nella società, non poi così diversa da quella attuale, in cui sono calati i personaggi della storia diretta dalla Fennell, un oggetto, uno status, un simbolo, una persona sono appetibili solo se un altro li desidera prima di sé. Venetia inizia a desiderare Oliver perché vuole rubare «il giocattolo» di suo fratello Felix. La madre di Felix, Elspeth, ama la bellezza a tal punto da avere «il terrore assoluto della bruttezza» e nel momento in cui instaura un legame d’intesa con il nuovo arrivato, Oliver, che considera il più bello dei loro ospiti, si sbarazza dell’ospite precedente, la giovane Pamela.
In Saltburn Emerald Fennell non fa altro che esacerbare la frase di Max Scheler per cui «l’uomo ha o un dio o un idolo»: è, dunque, fondamentale per la natura umana avere un oggetto da voler anelare. Non stupisce che Oliver veda in Felix un dio e faccia di se stesso uno schiavo e, non ritenendosi alla sua altezza, mascheri le proprie insicurezze con menzogne di ogni sorta. Persuaso che Felix si ritenga a lui troppo superiore per accettarlo come discepolo, Oliver prova nei confronti del modello un sentimento lacerante, formato dall’unione di due contrari: la venerazione più sottomessa e il rancore più profondo. Un’immensa stima e una sconfinata invidia legano Oliver a Felix. Da un lato, è caduto vittima del suo fascino e dipende dalle sue attenzioni e dai suoi «Come stai?»; dall’altro, prova un’invidia cocente per le sue origini benestanti («Solo le persone ricche possono permettersi di essere così sporche»).
Che Oliver ami Felix, è certo. Ma non basta. Oliver, bensì, desidera essere Felix, indossare i suoi vestiti, possedere il suo privilegio, incarnare la sua essenza. Ed è qui che due forze avverse, eros e thanatos, nella calda estate in cui è ambientato Saltburn, prorompono: il confine tra amore e odio è molto sottile, perché soltanto l’essere che impedisce di far esaudire alla sua vittima un desiderio da lui stesso suggerito è veramente oggetto di odio. Ma le radici dell’odio di Oliver sono riposte in se stesso, a causa della segreta ammirazione che il suo odio dissimula.
Un’estetica camp
Emerald Fennell ci guida in una lotta all’ultimo sangue tra verità e menzogna e lo fa con una regia controllata ma non per questo poco originale, sostenuta dall’aiuto del direttore della fotografia Linus Sandgren (Lalaland), che crea immagini dai colori saturissimi e utilizza un espediente fondamentale: l’adozione del formato del 4:3, quello delle vecchie televisioni, prima del plasma e dell’avvento del 16:9. È lo stesso formato in cui, nei primi anni 2000, venivano girati i reality show e i prodotti televisivi ad alto consumo; una scelta, dunque, che contribuisce ancor di più a esaltare l’aspetto pop che permea la pellicola e ci riporta a un mondo pre-social in cui una qualche forma di mistero era ancora possibile. Un altro grande ruolo è giocato dalla musica: in una delle scene cardine, in cui attraverso un montaggio ellittico vediamo i personaggi godere dell’estate e dei divertimenti offerti da Saltburn, tra piscine, alcool, partite a tennis, a fare da raccordo tra queste scene è una delle canzoni degli MGMT, Time to pretend, nel cui testo è descritta, con spirito sprezzante, la superficialità degli intrattenimenti e del tempo trascorso a fingere di far parte di un mondo di cartapesta («We were fated to pretend»). Quasi prendendo ispirazione dall’uso connotativo della musica nei film di Sofia Coppola, la scelta dei brani musicali entrati nella colonna sonora di Saltburn sono essenziali per il racconto e partecipano attivamente alla messinscena pop. Basti pensare a un pezzo dei Bloc Party, This modern love, in dissolvenza, quando Oliver, dopo aver origliato i discorsi del clan di Felix sul suo conto, decide di allontanarsi. Per non parlare del memorabile pezzo finale di Sophie Ellis-Bextor, Murder on the dance floor, che vede un divino Barry Keoghan/Oliver danzare nudo nella deserta Saltburn, dopo il notevole plot twist finale.
Tra feste, bagordi e abiti da sera ogni dettaglio è avvolto nell’atmosfera di quel genere che, per prima, Susan Sontag ha definito ‘camp’, termine poi esteso all’arte per indicare quella sorta di piacere che suscita la deliberata ostentazione del cattivo gusto: Fennell è molto abile nel saper mescolare a richiami alti anche un senso di kitsch e opulenza, fatta di glitter e piume. Gli elementi ‘camp’ sono disseminati nell’opera (come la visione del film Superbad, la serata karaoke, i dettagli turpi e rivoltanti dei postumi delle feste, come il lavandino imbrattato di vomito e il bagno sporco) e cozzano con l’ambientazione lussureggiante e ricca di storia suggerita dall’antica tenuta e dall’elite che l’ha abitata.
Wuthering Heights
Nebbia, guglie e brughiera. Come nei grandi romanzi della letteratura inglese del XIX secolo, che prendono il nome dal luogo cardine del romanzo in cui le passioni dei protagonisti vengono dispiegate, anche Saltburn conserva nel titolo questo leitmotiv, ma l’intento è ovviamente satirico.
È invece la matrice gotica che caratterizza il grande romanzo del romanticismo inglese, Cime Tempestose, a ritornare in Saltburn. La tenuta, infatti, è la vera protagonista del film. Essa è il non-luogo in cui vengono messe in scena le passioni occulte dei personaggi e in cui le maschere cadono e i personaggi appaiono per quello che sono. È il luogo gotico per eccellenza, per la storia che racchiude e il senso di mistero che emana. La tensione erotica raggiunge l’apice nelle notti estive, e la fame di attenzione di Oliver è pronta a inglobare tutto, da Venetia, l’enigmatica sorella di Felix, a Farleigh, lo spassoso cugino dei Cotton. Una sessualità torbida entra nella narrazione, in grado di sorprendere e disgustare, e diventa la chiave di accesso al sacro che mette in comunicazione i due mondi: Saltburn e il mondo reale, il sogno e l’illusione.L’identità di Oliver nel maniero di Saltburn viene scissa in due parti: il vero sé, il ragazzo che ha celato se stesso dietro le bugie per timore di non essere accettato, e l’altro sé, il ragazzo che gli altri si sono abituati a credere che egli sia.
La vicenda di Oliver e lo sdoppiamento della sua identità lo fanno entrare in crisi: forse non siamo noi a desiderare ma è il desiderio a creare ciò che chiamiamo ‘io’. Ci costruiamo socialmente in un labirinto di specchi, che, come mette in guardia il film stesso, si possono rompere e, il giorno dopo, riparare miracolosamente, perché il teatro delle marionette continua sempre. Una riflessione, quest’ultima, che la regia della Fennell sembra voler ampliare a un ambito capitalistico, come se la tenuta di Saltburn non fosse molto diversa da una pubblicità ingannevole che induce i consumatori a comprare un prodotto che disattende le aspettative.
Cosa rimane, quindi, di Oliver dopo che il castello di bugie che aveva costruito con tanta cura crolla improvvisamente? Suo padre non è morto, sua madre non è una trafficante di droga, il viaggio a Prescott fuori dalla realtà dorata di Saltburn cambia gli equilibri. Di Oliver non resta nulla più che l’ombra di se stesso. La scoperta della verità da parte di Felix, tuttavia, non fa altro che esasperare i sentimenti di Oliver, invece che acquietarli. Il ribaltamento improvviso con il finale a sorpresa, che richiama L’inganno di Sofia Coppola, Il Talento di Mr Ripley ma anche in parte Parasite, non fa che confermare la premonizione di Venetia: «Sei così reale», aveva detto a Oliver, nascondendo in quella frase ogni presentimento di menzogna. Le vere maschere cadute non sono quelle dei Cotton, di cui il mistero è presto svelato, ma quella di Oliver Quick, che tutti credevano innocente ma che non è, e che per inseguire l’oggetto del proprio desiderio, Felix, e la promessa di potere che rappresentava, Saltburn, ha finito per smarrire se stesso. O forse ritrovare il vero sé?
A essere veramente degno di un romanzo gotico è il drammatico epilogo di Saltburn: il topos dell’amore non corrisposto e, soprattutto, non consumato è rappresentato con una sapiente iconografia nell’emblematica scena della tomba. Felix è morto, l’essere che era stato tanto amato, quanto odiato è sconfitto. Eppure, non è morta la fascinazione di Oliver nei suoi confronti, che rimpiange la morte del dio, ma allo stesso tempo non può fare a meno di festeggiare la finale ed effettiva incarnazione del proprio sé nel dio che aveva tanto idolatrato.
Il desiderio di essere diventato il nuovo Felix, il nuovo erede di Saltburn, si è avverato. ♦︎