Avevo otto anni quando ho incontrato la musica classica. È successo una sera d’inverno al Teatro Carlo Felice, a Genova. Mi trovavo lì con la scuola, per vedere La Fanciulla del West di Puccini. Non avevo alcuna confidenza con la musica classica. L’orchestra, fino a quel momento, l’avevo vista solo nelle illustrazioni di un libro, Beethoven per me era il cane protagonista di un film, e la mia canzone preferita era Wonderwall degli Oasis.

Ma mi piaceva molto il teatro. Mia madre mi ci portava spesso. E forse è per questo che non feci alcuna fatica a sospendere l’incredulità. Ad accettare le regole di quello strano spettacolo in cui gli attori, invece di parlare, cantano. La cosa che più mi colpì quella sera fu ciò che accadeva sotto il palcoscenico, nel buco dell’orchestra. La musica che usciva da lì mi rapiva, mi portava dentro la storia. Solo le colonne sonore di certi film riuscivano a farmi questo effetto. Ma questa era la migliore che avevo mai sentito. Meglio che nei film Disney, pensai.

Ma c’era di più. Nel potere narrativo di quella musica avevo annusato qualcosa di più profondo, qualcosa che arrivai a capire solo molti anni dopo e che, oggi posso dirlo, riguarda tutta la musica classica, da Bach a Stravinskij, fino alla contemporanea. Ed è la sua proprietà di linguaggio. 

Questo, per me, è ciò che la distingue dagli generi musicali: una cassetta degli attrezzi più ampia, che è il motivo per cui, ancora adesso, mi piace così tanto ascoltarla. La musica classica, dal Medioevo a oggi, ha messo a punto un vocabolario così ricco da essere in grado di raccontare qualsiasi cosa. Di pronunciare qualsiasi sfumatura dello stare al mondo, anche la più enigmatica.

Alle medie cominciai a frequentare le sale da concerto, scoprii che che Beethoven – senza nulla togliere al cane – è stato soprattuto un compositore, e diventai un ascoltatore incallito del suo concerto n.5 per pianoforte e orchestra. Mi ero appena affacciato su questi nuovi paesaggi sonori grazie anche a una guida speciale: il mio professore di musica. Un tipo coi baffi bianchi e un gilet da pescatore, brillante e coltissimo, che mi affascinava parlando de Il Barbiere di Siviglia di Rossini e di Atmosphère di György Ligeti.

Così, cominciai l’adolescenza con il pallino della musica classica. Volevo sapere tutto e cercavo informazioni ovunque. Su Wikipedia, in giro per la rete, nei booklet dei miei primi CD. Ma erano tutte sparse. Mancava un posto dove trovare le cose essenziali tutte insieme. A Natale mi regalarono un libro di storia della musica ma presto lo abbandonai su uno scaffale, a prendere la polvere. Cercavo un libro da leggere, quello era un libro da studiare.

Bene. Ho fatto tutto questo excursus sulla mia vita perché quando, pochi giorni fa, mi sono trovato fra le mani la Storia della Musica Classica (Ponte alle Grazie) di Nicola Campogrande, ho pensato che sarebbe stato perfetto per il ragazzino che ero. Perché, più in generale, è un libro perfetto per chi di musica classica sa poco o niente e vuole una buona mappa per esplorarne il territorio. Una mappa che sia semplice e coinvolgente, che ti permetta di scoprire cose nuove e di farti un’idea abbastanza precisa su tutto ciò che è successo dal Medioevo a oggi. E fa questo effetto perché Nicola Campogrande mette al centro la musica. Questo libro infatti è pieno zeppo di QR code che rimandano a precise interpretazioni su Spotify, scelte appositamente dall’autore.

Le inanella, una dopo l’altra, come se fossero i concerti di un festival musicale. Campogrande infatti è stato, per sette anni, direttore artistico di MiTo Settembre Musica, e mettere insieme diverse intelligenze musicali per costruire esperienze d’ascolto entusiasmanti è una delle cose che sa fare meglio. Le altre sono scrivere musica e parlare di musica. Attualmente, infatti, è compositore in residenza del Teatro Comunale di Bologna e dell’Orchestra Sinfonica di Milano, le sue composizioni sono pubblicate dalla stessa casa editrice di Beethoven, scrive libri di musica per non addetti ai lavori e insegna alla Scuola Holden.

Questo libro, dalla prima all’ultima pagina, è una lunghissima playlist di brani – poco più di 100 -, una lunghissima lista di consigli d’ascolto. E se la playlist sono le proposte musicali di una rassegna, i paragrafi di testo sono il programma di sala. Ha presente quei depliant che ti danno in mano quando entri in una sala da concerto, che di solito leggi subito per farti un’idea di ciò che andrai ad ascoltare?

Ecco, leggendo, ho avuto spesso l’impressione di avere davanti agli occhi una cosa del genere. Un lungo programma concertistico con cui inquadrare ogni brano della playlist, e contestualizzarlo, attraverso opportune finestre di approfondimento dedicate a compositori, poetiche, linguaggi, generi e strumenti musicali. Solo che questo è scritto benissimo, con quella prosa calda, accurata e informale che caratterizza il Campogrande scrittore. Non si dilunga mai. Va dritto al punto: di ogni autore, ti dice per quale motivo la sua musica viene eseguita ancora oggi. Per quale motivo ha senso ascoltarli e ricordarli. Campogrande rinuncia fin da subito a essere esaustivo, perché il suo approccio non è quello del musicologo, ma quello del narratore. La musicologia vuole dire tutto, la narrazione vuole farsi ricordare. E per lasciare un segno nella memoria bisogna scegliere delle parti che rappresentano il tutto. Che lo sostituiscono, il tutto. Delle parti da mettere in sequenza su una linea temporale. Il resto va scartato senza paura.

A proposito di parti per il tutto. Ogni capitolo comincia con una copertina musicale. Un capolavoro, si chiama. Un breve paragrafo in cui Campogrande racconta una composizione in particolare, che ha scelto per rappresentare tutta la fetta di storia a cui è dedicato il capitolo. Una scelta difficile da fare. Sono sette in tutto, i capitoli e i capolavori.

Elenchiamoli qui sotto.

  • Medioevo: Messe de Nostre Dame di Guillaume de Machaut
  • Rinascimento: Missa Papae Marcelli di Giovanni Pierluigi da Palestrina
  • Barocco: Primavera di Antonio Vivaldi
  • Periodo Classico: Sinfonia n.41 “Jupiter” di Wolfgang Amadeus Mozart
  • Romanticismo: Concerto per pianoforte e orchestra op. 54 di Robert Schumann
  • La fine dell’Ottocento: Il Mattino dal Peer Gynt di Edvard Grieg
  • Dal Novecento a oggi: Le Sacre du printemps di Igor Stravinskij

Era una scelta difficile da fare ma se l’è cavata molto bene. Ho una certa vertigine a leggere questo elenco. È come ripercorrere il cammino secolare della musica classica in un nanosecondo. Ecco, se non hai voglia di ascoltare tutta la playlist, solo con queste sette composizioni puoi farti già una vaga idea di come si è evoluta nei secoli.

È vero: manca la Nona di Beethoven, uno dei pezzi più emblematici – se non il più emblematico – di tutta la musica classica. E manca anche Bach, l’altro grandissimo genio. Ma capisco il motivo di questa esclusione. Non li ha messi non perché non li reputi abbastanza grandi, ci mancherebbe. Ma perché Beethoven è una figura difficile da inquadrare, a metà fra classico e romantico, e lo stesso vale per Bach. Come si fa a incasellare uno come lui? La cui Arte della fuga viene studiata ancora oggi da chi fa jazz. Li ha esclusi per una ragione didattica. Se vuoi capire cos’è stato il periodo classico prendi Mozart e vai sul sicuro, lo stesso vale per Schumann con il Romanticismo.

storia della musica classica
Storia della Musica Classica: il libro-playlist di Nicola Campogrande

Molto interessante è la mappa che disegna Campogrande per guidarti in quel gran caos che è stato il Novecento. Nel farlo, affronta di petto il problema della musica classica di questo secolo, grande rimosso nella riflessione artistica e intellettuale per anni e anni: la musica seriale. Dice, senza giri di frase, che questa musica, di matrice strutturalista, è stata ed è ancora incomprensibile per la maggior parte degli ascoltatori. Perché è impossibile seguire con le sole orecchie il modo in cui viene utilizzata una serie nel tempo, salvo studiarla prima a tavolino, sulla partitura. E che quindi, senza passare per un lavoro cervellotico, è molto difficile emozionarsi ascoltando una musica fatta così.

Negli anni fissazione di compositori e istituzioni musicali su questo linguaggio compositivo, imposto come la via maestra della creatività – quella più intelligente, quella più cool – ha creato, lungo tutto il Novecento, una frattura fra musica contemporanea e pubblico. E si è creato un unicum nella storia: per la prima volta, nei programmi concertistici la musica classica era solo la musica del passato, e si escludeva quella scritta dai compositori del proprio tempo.

Campogrande allora ci racconta altre facce del Novecento. Nella sua mappa lo strutturalismo è solo un’isola fra le altre, oggi in gran parte abbandonata. Perché, nonostante l’appoggio di certe istituzioni, non è la musica seriale che ha fatto maggiormente da apripista per la musica di oggi. Lo ha fatto molto di più il Minimalismo.

Insomma, questo libro è una guida agile e sicura per ripercorrere secoli e secoli di musica. Se sei appassionato come me te lo leggi tutto, altrimenti ti limiti a sfogliarlo, a leggerlo a pezzi. E va benissimo anche così. Perché è un libro pensato sia per essere letto che per essere sfogliato, ma sempre con il telefono in mano e le cuffie nelle orecchie. Un libro che si lascia attraversare da modalità di fruizione tipiche del nostro tempo. ♦︎

Giacomo Di Scala
Sono nato a Genova ma preferisco Steve Reich a De André. Vivo a Torino. Ho studiato al Dams e alla Scuola Holden. Per un paio d'anni sono andato a bottega da un compositore, perché la musica è un altro modo di raccontare storie. Nella mia vita precedente ero un flâneur di fine Ottocento. Indosso sempre un cappello.

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