Quando si evita a ogni costo di ritrovarsi soli, si rinuncia all’opportunità di provare la solitudine: quel sublime stato in cui è possibile raccogliere le proprie idee, meditare, riflettere, creare e, in ultima analisi, dare senso e sostanza alla comunicazione.
Zygmunt Bauman
Dove ti trovi nella tua vita? È davvero un cammino, quello che stai percorrendo? E dove ti sta portando? Sono domande che, col tempo, impariamo a evitare o ignorare. Le pressioni di una ‘realtà’ spesso percepita come immutabile, insieme all’abitudine di interpretarla in modo negativo, ci allontanano dalla nostra interiorità. È un inganno condiviso, un tacito accordo sociale: la cosiddetta evidenza della realtà. Ma cos’è, davvero, questa ‘realtà’?
Di solito la consideriamo un insieme di norme, pregiudizi e aspettative sociali e culturali, accettato senza discussione da chi appartiene allo stesso gruppo, che sia una nazione, una cultura o una comunità. Spesso, ciò che chiamiamo ‘realtà’ si esprime attraverso frasi che suonano come verità indiscutibili, affermazioni che non richiedono spiegazioni poiché sembrano giustificarsi da sole. Esempi di queste verità potrebbero essere: «Chi viaggia spesso non sa fermarsi», «Una donna dovrebbe evitare di viaggiare da sola», o ancora «Le verità sono assolute, non discutibili»
Queste espressioni incarnano il contrasto tra ciò che ci viene detto di essere e ciò che realmente siamo. E qui entra in gioco la storia che voglio raccontare: quella di una viaggiatrice solitaria, del suo incontro con una donna dedita all’insegnamento del buddismo, e di come il viaggiare possa paradossalmente diventare un modo per fermarsi.
Perché raccontare questa storia? Perché, nonostante viviamo in una cultura profondamente individualista, ogni esistenza porta con sé qualcosa di universale. La sofferenza e la ricerca di un senso sono esperienze che ci accomunano, indipendentemente dal tempo e dal luogo. Ed è proprio in questo terreno comune che le nostre storie si intrecciano, rivelando l’umanità condivisa che ci rende, sotto molti aspetti, tutti uguali. Viaggiare da sola nel sud-est asiatico mi ha insegnato a rallentare, fino a fermarmi completamente. Quanta strada ho dovuto fare per riuscirci? Oltre 11.000 chilometri e quasi 24 ore di viaggio.
Pochi giorni dopo il mio arrivo in Thailandia, ho trascorso una settimana al Wat Phradhatu Sri Chom Tong Voravihara per praticare la meditazione Vipassana. Il passaggio dal caos frenetico di Bangkok alla quiete di Chom Tong ha segnato un cambiamento profondo, riflettendo il processo di introspezione che si avvia quando ci si ferma per guardarsi dentro. Paesaggi verdi, palme, intensi profumi di spezie e i sorrisi delle persone locali mi hanno accompagnata fino al tempio. Ad accogliermi è stata Julia, una signora spagnola sulla quarantina. Dopo aver completato il corso base, aveva deciso di restare per aiutare i nuovi arrivati, spiegando loro la meditazione Vipassana e come praticarla. Julia, partita da sola dalla Spagna, ha deciso di dedicare tre mesi del suo tempo con l’intento di restituire quello che le è stato dato al tempio: una nuova consapevolezza su di sé e la realtà.
Dopo questa breve esperienza al Wat Phradhatu Sri Chom Tong Voravihara, ho proseguito il mio viaggio attraverso la Thailandia e il Vietnam, ma per qualche motivo inspiegabile, come ogni piccolo o grande evento della vita che ci scava dentro silenziosamente, l’esperienza che avevo vissuto mi aveva offerto uno sguardo diverso rispetto alle mie abitudini, pregiudizi e convinzioni.
Ogni volta che mi trovavo a testare questa nuova lente sugli incontri che facevo, sulle difficoltà e gli imprevisti del viaggiare da sola, sentivo emergere una lettura diversa della realtà. Mi scoprivo a riflettere su ciò che fino a poco prima non mi avrebbe interrogata, come se ogni esperienza richiedesse di essere osservata da un’angolazione nuova. Gesti che inizialmente erano stati semplici forme di cortesia, come giungere le mani e chinare il capo in segno di saluto o gratitudine, diventavano espressioni di qualcosa di più profondo. Il «Sawadee kaa» (ciao/buongiorno/buonasera) e il «Khob khun kha» (grazie), sempre accompagnati da un sorriso, assumevano un significato che mi ancorava al presente e mi ricordava che ero in un luogo in cui ogni incontro era un’opportunità di connessione autentica.
Nel frattempo, il paesaggio esterno rifletteva il mio stato d’animo in trasformazione: il cielo opaco, intriso di umidità, e il fumo delle colture stagionali si mescolavano con la vivacità dei colori che mi circondavano. Guardavo con occhi nuovi la bellezza dorata dei templi buddisti, le corone di fiori che adornavano le strade, l’arancione acceso delle vesti dei monaci che attraversavano quartieri segnati dalla povertà, in netto contrasto con la modernità dei grattacieli. Questo scenario, intriso di contraddizioni, non faceva che rafforzare la mia riflessione interiore: ogni cosa, per quanto diversa, trovava il proprio spazio, e così anch’io iniziavo a ritrovare il mio.
Proseguivo il mio viaggio con il ricordo dell’esperienza vissuta al tempio a Chom Tong. Così, immersa nella mia crescente curiosità e nella voglia di esplorare più a fondo, ho preso la decisione di tornare al tempio. Era un passo audace, ma sentivo che fosse necessario. Mi sono preparata ad affrontare il corso di meditazione di 21 giorni, immersa nel rigoroso silenzio e lontana da qualsiasi distrazione elettronica. Durante quelle settimane, a stretto contatto con me stessa e intessendo legami invisibili con chi, come me, stava affrontando lo stesso percorso, è nato in me un desiderio: «Voglio raccontare questa storia e quella di chi ha scelto di rimanere».
Non avevo mai parlato con Kathryn, la direttrice del centro di meditazione Vipassana internazionale Wat Phradhatu Sri Chom Tong Voravihara, se non il giorno del mio arrivo. Eppure, la sua semplice presenza, il suo modo di stare in una stanza, mi avevano colpita profondamente. Quando le ho chiesto di raccontarmi la sua storia, ha accettato con semplicità, dicendo: «Se ti interessa, ti racconterò come sono arrivata qui e della pratica, ma non della mia storia personale nel dettaglio. Quella non ha importanza».
Adesso, mentre il ronzio delle mosche e il gracidare delle rane accompagnano i miei pensieri, la osservo. Avverto sul volto della donna di fronte a me la limpidezza del suo sguardo e un intrinseco senso di pace nella sua espressione, lo stesso che la lascia incurante dei propri capelli bianchi raccolti disordinatamente. I suoi tratti somatici sono più simili ai miei che a quelli delle persone che ho incontrato durante i mesi trascorsi in Thailandia, e questo mi incuriosisce ancora di più. Parlando con insegnanti di buddhismo e alcuni monaci, ho scoperto che è piuttosto insolito che una donna diriga un tempio buddista o un suo dipartimento, e questo rende la sua storia ancora più affascinante. Così le ho proposto un’intervista.
Siamo sedute di fronte a un tavolino ricoperto di fiori e piccoli vasi con piante colorate, nel giardino di una delle case del villaggio del tempio. Kathryn, con un sorriso appena accennato, mi guarda. Le chiedo: Da dove vieni? Cosa ti ha portata qui?
Kathryn: Sono nata e cresciuta in California. Ho studiato arte e musica. Attraverso la musica ho sempre cercato un via per la ricerca spirituale. Sentivo che ci fosse altro oltre ciò che avevo ricevuto come educazione, le convinzioni che avevo sempre avuto, il mondo materiale. Se dovessi verbalizzare la sensazione che sentivo premermi dentro, la tradurrei in: “Non siamo fatti per rimanere bloccati nella materialità”.
Kathryn è figlia degli Anni ’80 in una California dove ogni tabù è sdoganato, ogni strada appare percorribile, tutte le pareti e mura culturali che avevano accompagnato la sua crescita erano cadute. L’eccitazione e la curiosità per cosa sarebbe stato costruito al posto di quelle strutture ormai considerate vecchie era tanta. Diverse strade percorribili, nessuna direzione precisa e il desiderio di trovare un senso alla propria vita e alle proprie scelte che non fosse solo uno slogan o una reazione per opposizione: questa la posizione di Kathryn.
Le parole di Kathryn mi fanno venire in mente Zygmunt Bauman: «Società come le nostre, mosse da milioni di uomini e di donne in cerca di felicità, diventano sempre più ricche ma non è affatto chiaro se con ciò diventino più felici».
Kathryn ha un’amica che ha viaggiato in Thailandia e le consiglia di inviare una lettera a un istituto di studi buddisti a Chiang Mai per chiedere informazioni. Kathryn scrive, le viene data risposta e parte. Lì conoscerà Ajahn Tong Sirimangalo che diventerà il suo maestro e che seguirà fino a Chom Tong, dove rimarrà prima come insegnante e poi come direttrice del centro internazionale.
Kathryn: la musica era sempre stata il modo in cui avevo cercato un senso e avevo condotto la mia ricerca spirituale. Dopo aver cominciato a praticare la Vipassana ho scoperto che quello che cercavo al di fuori potevo trovarlo solo dentro me stessa. Vipassana, viene dal pali antico e significa, ‘vedere chiaramente’, in inglese di solito è tradotto con «insight». L’insight è la forma più alta di conoscenza. C’è la memoria, costruita dai ricordi, l’educazione e gli studi di ognuno. Poi c’è la capacità di ragionamento, tramite cui analizziamo, compariamo, costruiamo. Infine, c’è l’insight, la conoscenza che abbiamo dentro di noi.
Quello che mi ha insegnato la pratica della meditazione è stato osservare la realtà per quello che è. Osservare e basta. Senza giudizio, senza desiderio, senza modificarla perché fosse più facile da accettare. Osservare i giudizi, i desideri, le abitudini di pensiero. Riguardo la Vipassana: oggi è facile viaggiare nel mondo, meno facile è l’occasione di farlo dentro di sé. Poi, chinando il capo, giungendo le mani mi ha sorriso con a quel suo modo sereno e pieno di pace. Prima che andassi, mi ha esortata a ricordarmi di praticare la gentilezza e la consapevolezza: Ogni volta che emerge rabbia, tristezza, frustrazione in te per la reazione degli altri prova a vedere la sofferenza dietro le loro azioni e se puoi riconoscere che quella sofferenza è la tua stessa, la stessa di tutti. Penso che la gentilezza è ciò che può salvarci se i più la praticassimo ogni volta che possiamo. Un ultimo chino del capo e ci siamo salutate. ♦︎
Testi di Chiara Gulino
Fotografie di Chiara Gulino e Lara Berthod