1975-2025. A cinquant’anni di distanza dalla tournée di concerti che ha cambiato la storia della musica americana, lo spirito rivoluzionario di Dylan e della sua scrittura continuano a vivere dentro alle immortali ballads di denuncia sociale, contraddizioni politiche, e speranze per un futuro migliore, che, forse, è ancora troppo lontano.
Due fotografie, due volti, la stessa persona.
Nella prima, un viso coperto da uno spesso strato di pittura bianca, da cui sbucano solo gli occhi e la bocca. Si intravede il divano del backstage, una sigaretta.
Nella seconda, lo stesso viso, ma della pittura bianca solo qualche macchia sfumata. Nel furore della performance, sotto a un cappello a tesa larga puntellato a lato da alcuni fiori, il cerone bianco si è sciolto e si è mescolato al sudore sulle guance. Gli occhi, circondati da un alone scuro, guardano dritto davanti a sé, e sembrano spingersi oltre: oltre il microfono verso cui sta cantando, oltre la platea di persone che è lì per ascoltarlo. È così che appare Bob Dylan nel 1975 in alcuni degli scatti leggendari affidati a Ken Regan, il fotografo incaricato di seguire il cantautore e la comitiva di amici nell’originalissimo Rolling Thunder Revue, tour di quasi novanta date in giro per gli Stati Uniti, in una vera e propria carovana itinerante di artisti americani. Gli show, allestiti da Dylan stesso, sono frutto di una collaborazione creativa: non figurano solo musicisti, come Scarlett Rivera al violino elettrico, e cantautrici, come Joan Baez e Joni Mitchell nei duetti, ma sono un vero e proprio coacervo di personalità dell’epoca, tra cui il poeta Allen Ginsberg, il regista Howard Alk, l’attore Sam Shepard, il giornalista di Rolling Stones Larry ‘Ratso’ Sloman che documenterà nel libro ‘On the road’ il periodo di fermento creativo che rappresentò la parentesi del Rolling Thunder nella carriera di Dylan.
Le foto di Regan riassumono alla perfezione le anime del Dylan di allora, il Dylan folk e quello della ‘svolta elettrica’ che sorprese tutti, il Dylan pagano e quello profondamente religioso, il Dylan fedele e innamorato della moglie Sara e quello attratto dalla stimata collega Joan Baez. Negli scatti, lo vediamo rilassato alla guida di un furgoncino, oppure con la chitarra in spalla circondato dai membri della band, o mentre parla con Patti Smith indossando la celebre t-shirt con la scritta ‘The only innocent Hurricane!’. Tra tutte, a rappresentare la sintesi perfetta di quel periodo sono proprio le foto di un Dylan durante le performance, col volto dipinto di bianco, mascherato, come quello del mimo Baptiste in Les enfants du paradis, film di cui il cantautore era, non a caso, ossessionato. Nel film del regista francese Marcel Carné, infatti, Dylan ritrova la chiave fondamentale della sua esperienza di artista: come il mimo-Baptiste anche il menestrello-Dylan è consapevole dei limiti della propria maschera che sul palcoscenico è a servizio della storia che vuole raccontare: che sia la storia di una svolta pacifista in Knocking on heaven’s door, o il racconto di un senso di fragilità in Oh, sister, o la storia del femminicidio di una «cameriera di cinquantun anni, madre di dieci figli» in The lonesome death of Hattie Carrol, o ancora, il racconto di un amore passeggero ma non per questo meno significativo raccontata nel brano A simple twist of fate.
Sono queste le storie che Bob Dylan, a cui è stato assegnato il Premio Nobel per la Letteratura nel 2016, racconta sul palco del Rolling Thunder Revue, un laboratorio creativo che raccoglie i suoi successi e li unisce a quelli degli artisti che stima, con cui ha dato forma a un momento epocale dell’era post-sessantotto. È in quei concerti che, attraverso le canzoni che hanno forgiato una generazione, sono rivissuti i momenti cruciali delle lotte sociali degli anni Sessanta. Ed è solo su quel palco che gli anni Sessanta trovano la loro conclusione. Anche il celebre verso, che ha trasformato Dylan da menestrello a poeta, «The answer my friend is blowin’ in the wind» cambia significato durante i concerti del 1975. Infatti, «the answer» non è più semplicemente soffiata via dal vento: ciò che rimane è qualcosa che non è andato perduto, ma che ha lasciato un segno indelebile, un’impronta che il Rolling Thunder Revue raccoglie e che tutti gli artisti di quella generazione hanno contribuito a imprimere nella storia.
«Money doesn’t talk, it swears»
Con l’intento di fare un punto sui cambiamenti che hanno attraversato l’America nel corso degli anni della contestazione, i concerti del Rolling Thunder ripercorrono i luoghi che hanno fondato l’America, partendo proprio da Plymouth: lo scopo del tour era di riavvicinarsi alla gente. E per farlo quale miglior modo di far rivivere i più grandi successi degli ultimi dieci anni? Il 1975 è un anno cruciale: Bob Dylan, nato Robert Zimmerman, si è ormai fatto un nome nel mondo della musica, e la presa di Saigon ha decretato la fine della guerra in Vietnam. Nel decennio precedente Dylan non ha solo macinato successi musicali ma si è conquistato un posto d’onore nel cantautorato americano: quando Dylan scrive, l’America ascolta. È questo ciò che accade con l’album del 1963 The freewheelin’ Bob Dylan, con cui si guadagnerà la nomea di «profeta» americano e portavoce dei movimenti di protesta per i diritti civili. Ed è proprio il caso della canzone folk Blowin’ in the wind, che in un crescendo di immagini retoriche ed universali fortemente evocative arriva a sostenere una campagna pacifista: «How many ears must one man have / before he can hear people cry?», «How many deaths will it take / ‘til he knows that too many people have died?».
La critica anti-militaristica è tema principale anche di Masters of war («You that never done nothing / but build to destroy») che denuncia esplicitamente tutti coloro che dall’alto delle proprie posizioni di potere fomentano guerre senza considerare le vite umane. Ed è con The times they are a-changing che Dylan intercetta lo spirito del tempo e lo restituisce ai suoi contemporanei: «And you better start swimmin’ / Or you’ll sink like a stone / For the times they are a-changin’». È con questi pezzi che Dylan si configura fin dagli albori della sua carriera un’artista in grado di unire la capacità critica a una decisamente ardita vena poetica. Ma un’altra grande prova letteraria e anche di svolta musicale è rappresentata dal pezzo del 1965 Like a rolling stone, in cui Dylan per la prima volta coniuga le sonorità folk al rock: in questo brano si strapperà di dosso la maschera di «vate» che gli era stata affibbiata dalla massa, ma che lui non aveva mai voluto essere, attraverso la concezione di una musica che diventa un racconto più vicino a quello del menestrello degli esordi. È infatti in questo contesto che molti studiosi hanno parlato di «tridimensionalità» ermeneutica: la canzone infatti si snoda su più livelli, e quell’«how does it feel» del ritornello riesce a riferirsi contemporaneamente alla mancanza di una direzione di Miss Loneley (aka Edie Sedgwick, a cui potrebbe essersi ispirato per il testo della canzone), ma anche del pubblico di ascoltatori, e della canzone stessa.
Immancabile anche nelle date del Rolling Thunder Revue per rivivere il fermento della decade passata è il toccante I’m alright Ma (I’m only bleedin’), che con una cupa ironia tratteggia le contraddizioni di un paese sconvolto dalla corruzione politica, dai falsi miti del consumismo, e da un perbenismo che Dylan voleva smascherare:«But even the president of the United States / sometimes must have to stand naked».
Sulla tomba di Kerouac
La chiara intenzione di recuperare lo spirito degli anni Sessanta è principalmente legata alla decisione di includere nella ‘carovana’ del tour il poeta Allen Ginsberg, figura simbolo della Beat Generation. Dylan, infatti, influenzato nella scrittura di alcuni brani, come Mr. Tambourine Man, dall’esperienza dei poeti maudit francesi, in particolare, Rimbaud, e dai poeti della Beat, è consapevole del valore che il mezzo poetico puro, senza l’accompagnamento musicale abbia avuto nell’influenza delle masse nel corso della storia. In uno dei celebri filmati del Rolling Thunder Revue che accompagnano lo svolgimento del tour, inserito poi nel film Renaldo e Clara, Dylan e Ginsberg fanno visita alla tomba di uno dei grandi scrittori beatnik: Jack Kerouac. Uno con la chitarra nella custodia e l’altro con una serie di fogli da cui leggerà le proprie poesie per omaggiare lo scrittore scomparso, i due artisti sono ritratti mentre si siedono sull’erba e parlano di poesia. Dell’influenza che entrambi gli autori hanno esercitato su Dylan è evidente in Tarantula, il romanzo sperimentale in cui saggia la sua abilità in prosa, che rinnegherà in seguito. Di Ginsberg, nell’intervista rilasciata all’interno del documentario diretto da Scorsese, Dylan dirà: «Voleva che i suoi versi fossero ricordati come la gente ricorda i versi delle canzoni, ma era un poeta non un cantautore». Ed è questo il nodo cruciale dell’influenza tra Ginsberg e Dylan, tra poesia e canzone: entrambe forme letterarie alte, ma che nella società moderna sono ormai costrette ad avere due destini diversi. Per Dylan tutto stava nell’oralità della poesia: ecco perché per raggiungere le masse e assicurarsi l’eternità sostiene che debba essere messa sotto forma di canzone. Certo, con l’incipit del poema Howl («I saw the best minds of my generation») a Ginsberg era valsa una fama pari a quella dei maggiori poeti. Ma anche Dylan con le cover che iniziarono a circolare di canzoni scritte da lui, come All along the watchtower coverizzata dall’iconico Jimi Hendrix in una versione psichedelica che passerà alla storia, e più tardi anche dagli U2 in Rattle & Hum, oppure come Knocking on heaven’s door nella versione suonata dai Guns n’ Roses.
‘The only innocent Hurricane!’
Nell’atmosfera di comunità e fusione di musica e attivismo, il Rolling Thunder Revue divenne il palco fondamentale per la sensibilizzazione di alcuni temi di giustizia sociale, primo fra tutti la discriminazione razziale, rappresentata dal caso Hurricane. Rubin ‘Hurricane’ Carter, pugile afroamericano ingiustamente accusato di omicidio e condannato a una lunga pena detentiva, è raccontato da Dylan nel brano omonimo, eseguito sul palco del concerto di beneficenza per Carter al Madison Square Garden. Quando Dylan e Carter si incontrarono, il fotografo Ken Regan si rivelò ancora una volta testimone fondamentale dell’esperienza del Rolling Thunder: nello scatto che li immortala l’immagine è divisa volutamente in due metà: da un lato le sbarre della cella, e l’uomo prigioniero, dall’altra il muro bianco e l’uomo libero. Il testo della canzone Hurricane si compone come quello di una ballata classica di impianto narrativo e racconta il fatto di cronaca facendo luce soprattutto sulla corruzione che permeava il sistema giudiziario americano. Ancora una volta, Dylan dimostra di non aver mai rinunciato alla sua straordinaria capacità narrativa, che lo ha trasformato in un ibrido, a metà tra il joker di All along the watchtower e l’autentico Mr. Tambourine Man, consolidandolo nell’immaginario collettivo come un poeta dal cuore amletico, ma al contempo profondamente umano, mai distante dalla sua essenza. È così che ancora una volta Ken Regan ce lo ritrae, restituendocelo il più vicino possibile ad una delle sue tante anime: in questa con in mano un libro dal titolo Crystal Magick. Il Rolling Thunder Revue non è l’approdo finale, non è altro che la tappa di un lungo viaggio. ♦︎