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Oltre 3 milioni di copie vendute, di cui almeno 48 mila nella prima settimana dalla sua pubblicazione. Un romanzo scelto da Oprah per il suo book club. Un caso editoriale talmente osannato che c’è chi nel 2020 ha gridato al premio Pulitzer.

American Dirt (uscito in Italia come Il sale della terra,Feltrinelli) è stato presentato come l’opera in grado di dare finalmente un volto e una voce ai migranti messicani. La storia della protagonista, Lydia, prometteva di rappresentare tutte quelle esistenze anonime, in fuga da una violenza di cui quasi non si parla fuori dai suoi confini. Lydia è infatti una donna che assiste all’assassinio dell’intera famiglia da parte di un cartello di Acapulco a causa di un articolo del marito, giornalista investigativo. Unica superstite insieme al figlio di otto anni, si ritrova a dover scappare con la speranza di raggiungere gli Stati Uniti. 

American Dirt, acclamato come un libro per comprendere davvero la realtà messicana.
Scritto da una bianca del Maryland.

L’autrice Jeanine Cummins, infatti, non è né messicana né un’immigrata, ma si è sentita in dovere di «essere un ponte» – come si definisce nella nota finale del libro – per le storie di «queste persone».

Il risultato non è difficile da immaginare: un Messico raccontato da occhi che non lo hanno mai vissuto, un intreccio di stereotipi e santificazione degli Stati Uniti come terra promessa in cui la violenza cesserà di esistere, una rappresentazione delle sofferenze e dei traumi del gruppo dei migranti costruita per suscitare pietà. Uno stupendo esercizio di white gaze. A partire dal lessico: termini spagnoli vengono inseriti in corsivo all’interno della prosa per creare un qualche senso di credibilità, ma l’unico effetto che producono è quello di una forzatura o, come scrive nella sua tagliente recensione del romanzo l’autrice Myriam Gurba Serrano, «lo stesso effetto di un condimento per i tacos comprato al supermercato».

Il white gaze è anche quello della stessa protagonista del romanzo, Lydia. Come sottolinea Gurba Serrano, Lydia nel corso della storia si stupisce costantemente di cose per cui una persona messicana non si stupirebbe mai. Rimane scioccata quando scopre che a Città del Messico c’è una pista di pattinaggio sul ghiaccio, o del fatto che gli uomini violentano le donne migranti durante il viaggio verso gli Stati Uniti. Lydia guarda il suo paese con lo sguardo di «una turista americana moralista».

Cummins avrebbe desiderato che questo libro lo avesse scritto qualcuno «slightly browner than me», ma alla fine dell’autenticità di quel dolore non è importato a nessuno. A cominciare dagli editor, che hanno scelto di ignorare le possibili, e giustificate, accuse di appropriazione culturale: perché dopotutto la storia era troppo commovente per non venderla alle case editrici.

American Dirt è solo un esempio di una narrazione alterata del dolore, di quello che si definisce trauma porn. Il termine nasce per parlare di qualsiasi tipo di media che sfrutti momenti traumatici per generare scalpore, notorietà o attenzione. Significa ergersi a paladino, spettacolarizzare la sofferenza altrui, mascherando il tutto con la scusa di voler sensibilizzare l’opinione pubblica. Il trauma di una persona, o più spesso di una comunità, viene sfruttato per diventare un’esperienza collettiva, cosicché l’occhio del pubblico privilegiato possa bagnarsi di compassione e credersi migliore perché ha empatizzato per un minuto con un post del suo feed. Alla base di questo fenomeno c’è infatti l’intento di scatenare una reazione nella platea, un’emozione potente che genera il desiderio di poter far qualcosa, di produrre un cambiamento. Il problema risiede nel fatto che quella risposta emotiva non si traduce in azione, e a volte ci basta ricondividere una notizia, o un video, per appagare il nostro desiderio di intervenire. Non si va più in profondità di così. 

Anzi, si riporta tutto a un livello superficiale: quanto più una notizia viene ricondivisa e diventa parte integrante della nostra pratica di fruizione mediatica, tanto più il suo impatto viene depotenziato. Diventiamo insensibili, perché ci abituiamo che un dato gruppo di persone venga trattato in un certo modo o subisca determinati abusi. 

Darryl Lorenzo Wellington, poeta, drammaturgo e giornalista afroamericano, parla del trauma porn come di un fenomeno che è per natura un processo passivo, un processo che, «come il porno, è una fantasia che sminuisce la realtà e, quando crea dipendenza, tende a diventare sgradevole». Stephanie Fung, artista interdisciplinare canadese, sostiene che si possa parlare di trauma porn quando il trauma viene affrontato come un evento e non come un’esperienza, quando si stuzzica la ferita ma non si vuole veramente prendersene cura. Per parlare di un dolore che non ci appartiene serve una preparazione meticolosa, non basta essere osservatori: restando nella propria torre, non si suscita che pietà.

Sembra quindi impossibile rendere giustizia a un dolore che non ci appartiene senza scivolare nel trauma porn, senza correre il rischio di banalizzare il vissuto di una persona o di una comunità, senza tradurre una storia attraverso la lingua del privilegio. Dove si traccia la sottile linea tra un’opera di sensibilizzazione e un atteggiamento grottesco da missionario, pronto a salvare le popolazioni indigene? Esistono narrazioni attente del dolore? 

L’esempio più emblematico di come parlare di una sofferenza non propria è Vite che non sono la mia di Emmanuel Carrère. Carrère stesso si definisce spesso egocentrico nelle sue opere; eppure riesce a mettere in atto un meccanismo che disinnesca l’effetto trauma porn: comprendere il dolore altrui per poterlo raccontare con dignità. Ma il contrasto con la narrazione distorta di cui siamo testimoni in American Dirt, si riscontra in maniera ancora più significativa in Yoga, una delle opere più recenti dell’autore francese.

In Yoga, Carrère parte da un’intenzione completamente opposta rispetto a Vite che non sono la mia: quella di attraversare i vari livelli di un dolore estremamente personale. Eppure, nella vivisezione della sua vicenda privata, trovano spazio anche le testimonianze di vite altrui: quelle dei migranti che l’autore incontra verso la fine del libro, nell’isola greca di Leros. Anche qui, Carrère si avvicina alle esperienze degli altri in punta di piedi, senza forzature. Il punto di partenza per il rispetto è la semplicità. La sua prosa è asciutta, si limita a restituire delle storie senza sentirsi in dovere, o in diritto, di dire al lettore come si dovrebbe sentire, senza sottolineare che in quel determinato passaggio dovrebbe essersi già commosso. Quel dolore non è suo e non vuole fingere che lo sia. 

In alcune pagine del romanzo, viene ripercorso il viaggio di uno dei ragazzi dell’hotspot, Atiq, partito dall’Afghanistan verso l’Europa. Il racconto è chirurgico: non ci vengono risparmiate le crudeltà gratuite dei trafficanti, non ci viene edulcorata la fatica, il freddo; siamo dentro la storia, siamo con Atiq sotto quel bagagliaio, quella «bara in movimento», e avvertiamo la paura e soprattutto l’incertezza per il futuro; eppure non proviamo pietà. Carrère non ci offre un posto privilegiato in prima fila per lo spettacolo delle sventure altrui, ma ci fornisce gli strumenti per comprendere una realtà di cui non abbiamo esperienza diretta.

Cummins invece sceglie un’altra cifra stilistica: la sofferenza viene resa esplicita al fine di provocare una reazione emotiva. Un esempio si può ritrovare nell’introduzione del personaggio di Beto, un ragazzo che si aggiunge al gruppo con cui viaggia Lydia. Lo presenta come uno che ama la vita, affermazione che viene subito seguita da un pensiero della protagonista: «Nonostante tutto, gli piace la vita». Cummins ci invita così a empatizzare, ad attivare la nostra compassione. Non si limita ad accompagnarci davanti alla realtà, ma ci assolve. Ci siamo emozionati per la storia di un ragazzino che compie il pericoloso viaggio verso il Messico da solo. Abbiamo espletato il nostro compito.

Dopo essere stata travolta in un dibattito simile, Jeanine Cummins poteva decidere di virare verso temi più vicini alla propria esperienza. E invece no. Sembra infatti che sia pronta di nuovo a commuovere con Speak To Me Of Home, un romanzo sulla storia di tre donne che affrontano le conseguenze di un uragano a Porto Rico, in uscita negli Stati Uniti a maggio 2025.

Ma non c’è da temere: dopo anni in cui si è definita assolutamente bianca, Cummins si è ricordata di avere una nonna portoricana. Quindi stavolta è tutto legittimo. ♦︎