Nella sua autobiografia Lanterna magica, il regista svedese rivela ogni risvolto della sua ancestrale ossessione per la morte, dapprima oscura compagna nel corso dell’infanzia luterana, poi tema onnipresente del suo cinema rivoluzionario
Isola di Fårö, Anni Sessanta. Ingmar Bergman è già un regista affermato. Quando si ritrova insieme alla sua troupe, per girare alcune scene del film Come in uno specchio, su una delle sponde dell’isola di Fårö sul Mar Baltico, non ha dubbi: il paesaggio scarno, la spiaggia sassosa e l’orizzonte infinito non sono solo l’ambientazione ideale della sua pellicola. Con Fårö c’è un’immediata e intima connessione. Lo rivela anche a Sven Nykvist, direttore della fotografia: a lui confessa di voler costruire, al posto della casa di cartapesta realizzata per il film, una casa vera, tutta per sé. «Questo è il tuo paesaggio, Bergman», scriverà più tardi il regista nel suo memoriale, Lanterna magica, pubblicato nel 1987, «corrisponde alle tue più intime idee sulle forme, le proporzioni, i colori, gli orizzonti, i suoni, i silenzi, le luci e i riflessi». Ma perché Bergman è così colpito da questi scenari?
Effettivamente, la passione del regista per questi paesaggi rocciosi, rivolti verso l’eternità, ritorna spesso nei suoi film; tutte le scene grandiose condividono un’ambientazione molto simile: in Monica e il desiderio (1953) la scena di massima tensione sessuale si svolge su uno scoglio; in Persona (1966) la lunga carrellata in cui Alma rincorre disperata Elizabeth si svolge su una battigia ghiaiosa; nel film L’ora del lupo (1968) una delle allucinazioni che coglie il pittore Johan avviene proprio su un’altura di pietra. Appare evidente allo spettatore che il mare e la roccia esercitino un fascino profondo su Bergman, che insoddisfatto propone e ripropone lo stesso orizzonte, forse perché parte del suo irrisolto, della sua identità, ancor prima che di regista, di essere umano. C’è un film, poi, che più degli altri ha rivelato l’importanza di questa costante: nel Settimo sigillo (1957) il binomio esistenzialista di mare e roccia si canonizza e fa da sfondo a una delle scene più clamorose della storia del cinema, quella della partita a scacchi tra la Morte e il Cavaliere, giocata su una spiaggia desolata. «Aspetta un momento», dice il Cavaliere, «È quello che dite tutti», risponde la Morte, con una raggelante ironia, nella scena d’apertura. È in questo film che l’ossessione di Bergman per la morte, tormento giovanile e incessante assillo della maturità, si lega indissolubilmente al suo cinema ed è in questa scena cult che lo sfondo smette di essere un mero accessorio e diventa parte integrante del duello interiore di Bergman stesso. Da un lato il mare e l’uomo nella loro caduca volubilità, dall’altro la morte e la roccia nella loro dura concretezza. Ma chi vince la partita?
Luci e ombre
La partita di Ingmar inizia nel 1918. I primi mesi della sua vita sono avvolti da una sottile tragicità, da una specie di avversione alla vita: «Non riuscivo proprio a decidermi se volevo vivere». Nonostante delle fiacchezze fisiche che lo accompagneranno per sempre, e che i dottori definiscono di origine psicosomatica (soffrirà di frequenti gastriti e ulcere), Bergman ricorda la sua infanzia con serenità. Una delle figure che ricorda con più piacere è la nonna, è con lei che per prima riesce a parlare di sé «senza maschere», anche delle fastidiose curiosità che lo importunano e che non potrebbe condividere con nessun altro. È con lei, scrive Bergman, che parla per prima anche della morte, che occupava molto i suoi pensieri. La morte infatti tocca di tanto in tanto la quotidianità ovattata in cui vive la famiglia Bergman, protetta da agi borghesi e intenta a imporre una rigida educazione luterana ai tre figli, di cui Ingmar è il mediano. La morte è una minaccia lontana, di cui Bergman è terrorizzato e che conosce solo attraverso le prediche del padre, pastore protestante. È difficile per Ingmar farsi un’idea del mondo tra le soffocanti pareti della morale propugnata dalla chiesa protestante:«Era difficile distinguere la fantasia da quello che era considerato reale. Come stavano veramente le cose con Abramo e suo figlio Isacco, pensava davvero di tagliargli la gola?».
Talvolta la realtà colpisce le persone vicine a lui: lo zio Carl, chiamato «l’inventore», finisce sotto i binari del treno; la bambinaia Linnéa, dopo aver scoperto di essere incinta, si getta giù da un ponte. Ciò che però ossessiona Ingmar bambino è il mistero della luce e dell’ombra: è in questa dimensione che Ingmar sperimenta per la prima volta il senso di morte ed escogita un modo per vincerla. Bergman racconta infatti che i bambini venivano rinchiusi in un armadio per punizione: per evitare di stare al buio, in caso venisse rinchiuso, Ingmar tirava fuori una lampada tascabile che aveva nascosto apposta nell’armadio e giocava a proiettare fasci di luce contro il muro. Poco dopo baratterà con il fratello maggiore i suoi soldatini di stagno in cambio del proiettore che gli era stato regalato per Natale. Il gioco del cinema è appena iniziato ma esercita su Bergman un fascino inevitabile.
L’orologio
Per il Bergman adolescente la morte diventa una questione delicata. Risale a questo periodo l’incontro del regista con la filosofia e la scoperta di quello che diventerà il suo scrittore preferito, August Strindberg. Il corpo a corpo con la morte diventa per l’autore vitale: la morte non è più solo la fine di una vita in senso prettamente fisico, ma soprattutto l’estinguersi della volontà di attribuire alla vita un significato. La morte assume i torbidi connotati di una vanificazione dell’esperienza. Nelle visioni d’infanzia rievocate in Lanterna magica emergono soprattutto immagini di orologi che scandiscono i momenti e a ogni rintocco sembrano portare con sé un severo carpe diem: «Ora la morte trascina la sua falce sul linoleum del buio vestibolo, la intravedo», scrive Bergman rammentando uno di quei momenti. Un film che rielaborerà questa tematica e in particolar modo il passare inesauribile del tempo è Il posto delle fragole (1957). In uno degli incubi che colpiscono l’anziano professor Isak Borg, egli si trova in una strada di una città che non ha nome in cui gli orologi sono senza lancette. La cristallizzazione del tempo ha per Bergman un fascino sinistro: può significare fuga dalla morte, ma anche sospensione innaturale della vita. «L’attimo si spezza come una membrana sottile e io scivolo senza opporre resistenza verso l’attimo successivo, che si spezza anch’esso, così ancora e ancora».
La carne, la morte, il diavolo
Con il cinema e prima ancora con il teatro, Bergman dà libera espressione alle pulsioni che la rigida educazione ricevuta hanno in qualche modo represso. «Girare un film è un’operazione intensamente erotica», scrive. Il grande merito delle sue pellicole è infatti la sincerità espressiva unita a una forte presenza della psicanalisi. «La mia professione diventa così una pedante amministrazione dell’indicibile. Io medio, organizzo, ritualizzo». Nel film La fontana della vergine (1960) il tema dello stupro è al centro della storia di ambientazione medievale e rimescola tematiche cristiane come il senso di colpa, già presente nella sequenza di Persona durante la confessione dell’orgia di Alma.
La burrascosa e romanzesca vita sentimentale di Bergman fu un costante spunto di ispirazione per i suoi lavori. Tanto che in merito al racconto del divorzio con la sua seconda moglie scrive: «Chi fosse interessato può sapere quel che accadde seguendo la terza parte di Scene da un matrimonio». La sua fuga a Parigi con Gun fu decisiva per la sua vita, di lei dice che fu il modello di molte donne dei suoi film. Per Liv Ullmann, invece, conosciuta sul set di Persona decise di portare a termine i lavori per la casa a Fårö. Non ci vivranno mai assieme perché Liv lo lascerà prima ancora che lui le dica che ha costruito quella casa immaginando di viverci con lei. A Fårö abiterà con l’ultima moglie, Ingrid, che morì prematuramente nel 1995. Bergman rimane solo e decide di vivere gli ultimi anni della sua vita in solitudine.
I. Bergman, Lanterna magica, 1987 (Garzanti).
«Qualche volta, nella mia vita, ho giocato con il pensiero del suicidio; qualche volta nella mia giovinezza, ho messo in scena un goffo tentativo. Non mi sono mai sognato di prendere sul serio i miei giochi. La mia curiosità è sempre stata troppo grande, la mia gioia di vivere troppo forte e la mia paura della morte troppo infantilmente solida».
Il sogno di trasferirsi a Fårö è coronato nel 1967, anno in cui Bergman va ad abitare. È lì che nel 2007 Bergman si spegne. Nella sua casa resta una biblioteca, una stanza cinema e delle curiose iscrizioni su porte e comodini. Benché Bergman avesse lottato tutta la vita con forme complesse di ansia e depressione, aveva sempre cercato di reprimere ogni forma di auto-annientamento, pur avendola considerata. Fårö resta il luogo sicuro in cui rifugiarsi. Anche nelle notti di insonnia o quelle in cui «i demoni infuriano» e ha l’impressione di essere «lacerato da esplosioni interiori». Anche di fronte al dispiegarsi del dramma umano e personale di Bergman stesso, c’è sollievo. Di fronte al paesaggio coerente, di roccia e mare, anche il timore della morte sembra perdere consistenza. «Qui c’è la sicurezza. Non chiedere perché, le spiegazioni appaiono goffi sforzi razionali». La partita con la morte è inevitabilmente persa, ma qualcosa resta. ♦︎