Voglio cominciare con un ricordo: amavo una ragazza. Ci piaceva guardare insieme i film. Una volta mi capitò tra le mani il dvd di In the mood for love e glielo proposi. Qualche mese dopo al Cinema Massimo di Torino proiettavano lo stesso film e io andai a vederlo di nuovo, ma questa volta ero solo. Contro ogni aspettativa, la nostra storia era già finita. Ancora oggi mi capita di provare un po’ di nostalgia per lei, per quello che poteva essere e non è stato. Mi capita di attorcigliare di nuovo i ricordi al presente, di chiudere gli occhi per tornare nel passato e di avere paura che in quel momento io non stia ricordando, ma sognando. Che non abbia solo ricordato, ma anche creato. E tutto per rispondere a una sola domanda: c’eravamo amati?
«Non siamo stati nulla di nuovo», come canterebbe Leonard Cohen. Cosa abbiamo sbagliato, come ci siamo mancati sono interrogativi a cui crediamo di poter rispondere solo tornando indietro nella memoria. Ma la memoria crea e inganna, cuce un tempo non lineare, un tempo nuovo. Del resto osserviamo che il mito dell’amore rimane quello di durare fino alla fine. L’amore vuole dimostrare che qualcosa può resistere al tempo. In amore promettiamo che sarà per sempre, ma guardandoci indietro sappiamo che la maggior parte delle nostre battaglie sono state perse. E allora può sorgere spontanea una domanda: l’amore mancato, l’amore per cui proviamo una nostalgia, l’amore vinto, sconfitto, perché a volte sembra poter durare ancora?
La risposta ce l’avevo davanti, grande sei metri per tre: se c’è un regista che meglio di tutti gli altri ha saputo riflettere sul tempo mettendo in scena una storia d’amore, e se c’è un regista che ha mostrato come in amore nulla conti più del tempismo, è proprio Wong Kar-wai, con i capolavori In the mood for love e 2046. Due storie legate insieme, al punto che non è sbagliato considerare il secondo come un sequel atipico del primo.
In In the mood for Love, Chow Mo-wan e Su Li-zhen si trasferiscono lo stesso giorno nello stesso palazzo a Hong Kong. Ben presto scoprono di condividere un segreto: i loro rispettivi coniugi sono amanti. Da questa comune scoperta instaurano una relazione che non si consumerà mai fino in fondo. Si incontrano di nascosto in un albergo, parlano per ore, cenano insieme, ma non arrivano mai al dunque. Restano sulla soglia del possibile, e viene da chiedersi se non abbiano mancato l’appuntamento con l’amore.
In 2046 Chow, lasciatosi alle spalle Su Li-zhen, non è riuscito a smettere di domandarsi se lei lo abbia davvero amato. Incontra molte altre donne, ma nessuna riesce a strapparlo da quel passato. E tutto ciò che succede dopo è strettamente connesso a una domanda: Su Lì-zhen era il grande amore della sua vita?
Ma prima di arrivare a Hong Kong, dobbiamo passare per Parigi.
La memoria crea
È un francese a sollevare per primo l’ipotesi che lo spirito attraverso la memoria non si occupi solo di rendere presente un passato. La memoria dimostra di essere soprattutto un’azione dinamica e creatrice. Il francese si chiama Henri Bergson. È nato a Parigi nell’ottobre del 1859. La memoria che immagina attinge ai ricordi particolari, ma non deve essere considerata come un archivio. La sua azione è dinamica e creatrice. E continua a plasmare i nostri rapporti con il passato. Possiamo ricordare lo stessa avvenimento, ma mai nello stesso modo. Secondo Bergson, ogni ricordo è influenzato dal presente, dalle emozioni, e dalla situazione in cui si verifica. Il passato, quindi, non si dà mai come un’immagine fissa che potremmo ripetere all’infinito, ma porta con sé il gioco di un velo che da qualunque parte venga tirato lascia scoperto qualcosa, e qualcos’altro tiene nascosto.
La memoria è l’ingresso al passato, eppure il passato non è mai esattamente identico a ciò che la memoria restituisce.
Henri Bergson, Materia e memoria
Bergson crede che il tempo sia uno scorrere continuo. Il tempo fisico, della matematica e della scienza, quello che misuriamo con gli orologi, fatto di secondi, minuti, ore, non è in grado dì restituire l’esperienza umana del tempo. Secondo lui, esiste un altro tempo, quello soggettivo, il tempo della coscienza a cui dà il nome di durata. Non è qualcosa di misurabile, ma un flusso ininterrotto, in continuo divenire. La sua dinamicità è attestata proprio dal lavoro della memoria, che non cataloga il passato in secondi, minuti, ore, ma è in grado comunque di integrarlo nel presente. Un aspetto importante che emerge attorno alla memoria è quindi la sua selettività. Oggi noi ricordiamo certe cose, mentre altre ci sembra di averle dimenticate per sempre. E poi invece basta il profumo inaspettato di un passante o di una strada per vedere riemergere l’immagine di qualcosa che non pensavamo di ricordare. Non siamo dunque nemmeno in pieno controllo della nostra memoria. Non sempre decidiamo cosa e come ricordare. La selettività della memoria è un’azione che sa essere attiva, ma anche passiva.
La memoria è la vita stessa, in quanto si modifica nel tempo.
Henri Bergson, Materia e memoria
In the mood for love
In the mood for love è una storia che viene ricordata. Ne abbiamo certezza solo alla fine, quando la voce narrante rivela: «Quando ripensa a quegli anni lontani, è come se li guardasse da un vetro impolverato. Il passato è qualcosa che può vedere ma non può toccare, e tutto ciò che vede è sfocato, indistinto». La macchina da presa è l’occhio di Chow sul suo passato. Ma già altrove potevamo intuire che si trattasse del percorso di una memoria.
Il film è costruito attraverso ellissi, ciclicità, con la ripetizione e la riduzione della visibilità di ciò che viene mostrato in scena. Noi desumiamo da due scene consecutive che del tempo è trascorso, come accade per esempio durante il prestito di libri che Chow fa alla signora: la scena successiva presenta Su Li-zhen che ha già terminato le letture ed è pronta a restituire i libri. Ci sono scene e inquadrature che ritornano, e se divergono lo fanno per pochi dettagli. Ci sono immagini che pare di aver già visto, ma che sono riproposte con angolazioni diverse. La memoria ritorna sugli stessi ricordi, ma qualcosa cambia nel punto di osservazione. Spazi di luce e d’ombra che stabiliscono il limite oltre il quale la cinepresa non si può spingere. La memoria illumina certi angoli, ma altrove rivela la sua opacità. Le stanze vengono riprese spesso attraverso finestre, porte, spiragli. Sia sull’asse verticale che in quello orizzontale ci sono cose che limitano la visione e creano una cornice. C’è una distanza tra ciò che accade e chi sta guardando, perché Chow non è più lì. Lì non è un presente, ma un passato che viene ricordato, come se ci si potesse scovare un segreto nascosto.
Quella Hong Kong degli Anni ‘60 rappresenta la giovinezza di Kar-wai, e noi la possiamo ricostruire solo attraverso i frammenti che il regista sceglie di lasciarci sullo sfondo di una storia d’amore perché sono i frammenti della sua memoria. La scelta della colonna sonora, per esempio, che mischia canzoni occidentali con canzoni orientali non è basata solo su un’estetica del bello: influenze occidentali si erano insinuate per le strade di un paese dominato dal colonialismo inglese, e avevano investito anche il settore della moda. I vestiti della signora sono cinesi, cheongsam, ma con motivi occidentali. È il tempo della progressiva occidentalizzazione di Hong Kong e della fine dei regimi coloniali: un’epoca che viene riproposta dal film attraverso i cinegiornali, i disordini nella stessa Hong Kong e in Cambogia, la visita di de Gaulle, ex presidente della Repubblica Francese alla sua seconda carica proprio in quegli anni.
La cura dei dettagli è un elemento che ha a che fare con la selettività della memoria e con la sua capacità di abbellire i ricordi fino a sfociare nel sogno. Nel film, per esempio, non vengono mai mostrati i volti dei due compagni fedifraghi. E che dire invece della bellezza e della varietà degli abiti che indossa la signora Li-zhen? È il gioco della memoria: laddove scopre, sta ancora velando. Là dove mostra, potrebbe star sognando. E infatti nella pellicola non viene mai posto l’accento sulla continuità del tempo, ma sulla potenza delle atmosfere delle singole scene. Per sottolineare questa potenza, Kar-wai non si trattiene da usare il rallenti, o una colonna sonora che ripete gli stessi brani. Il tempo risulta ora dilatato ora contratto. Noi dilatiamo un ricordo nel tentativo illusorio di aggrapparci a esso, di rimandare la fine e la perdita, e mostriamo ancora una volta che la memoria è un’azione dinamica e creatrice. Perché il tempo non scorre allo stesso modo quando ricordiamo, e se anche è vero che noi per raccontare una storia d’amore tendiamo ad andare dal primo bacio fino all’ultimo saluto, il percorso della nostra memoria non risulta mai una linea retta.
La memoria riannoda certi fili, altri le sfuggono. È un insieme di tante cornici in relazione le une alle altre. Il film di Wong Kar-wai rispetta tale visione del passato che ci viene restituito sotto forma di frammenti. Per questo c’è anche un’attenzione maniacale all’uso degli specchi. Di solito, nel linguaggio cinematografico, il personaggio che si specchia simboleggia l’immagine del doppio e della scissione, ma in In the mood for love lo specchio rappresenta piuttosto l’azione della memoria rivolta verso il passato. I personaggi non si specchiano, siamo noi che li vediamo specchiati. Lo specchio restituisce quindi un’immagine non nitida, un po’ offuscata: una persona che vediamo attraverso lo specchio non possiamo mai toccarla. Ma la memoria non si limita a vedere il passato: vede e crea significati nelle cose. Come la pioggia che cade su entrambi, metafora di un amore inevitabile che ha toccato Chow e Li. Il fumo delle sigarette che sfoca lo sfondo, fumosità di una memoria che sfugge al nostro pieno controllo.
Mettendo in scena il meccanismo della memoria, il regista di Hong Kong sta anche riflettendo sul cinema e, più in generale, sull’arte. È un cinema che cerca di essere riproduzione fedele di ciò che accade quando si ricorda e che per questo è così strettamente legato alla dimensione del sogno. Chi ha la certezza di poter dire quando sta davvero ricordando e quando invece sta solo sognando a occhi aperti? Dove la memoria è fallace, dove si consolida nell’indelebile? Wong Kar-wai vuole che In the mood for love sia una ricostruzione parziale e criptica di una memoria che indaga un amore. Un amore che è rimasto nel possibile, che sembrava potesse esplodere da un momento all’altro nella realtà dei due protagonisti, ma che alla fine, se sopravvive, è perché viene affidato come segreto alla crepa di un antico muro.
2046
«Quelli che vanno al 2046, hanno una sola cosa in mente: ritrovare i ricordi perduti». Il film inizia con questa frase, ponendo il suo primo enigma: che cos’è il 2046? Un anno specifico nella linea del tempo? Un romanzo? Sembra per lo più una destinazione. E poi scopriamo che invece potrebbe essere un treno, di sicuro è il numero di una camera d’albergo. La voce narrante ci rivela di essere l’unico capace di tornare indietro una volta arrivato laggiù «Ho amato una donna, ma lei mi ha lasciato. Speravo fosse nel 2046, e quindi sono andato a cercarla. Ma non c’era. Da allora non riesco a smettere di chiedermi se mi abbia mai amato. La risposta è un segreto».
Una donna sussurra in un buco il segreto che nessuno conoscerà mai, citazione che rimanda a In the mood for love, alla crepa nel muro antico. La crepa è un luogo fisico a cui viene affidato qualcosa di immateriale come un ricordo, un segreto, la parola. Ma il 2046 è qualcosa di materiale? È l’attesa di un futuro? O una memoria che non ha cessato di tornare presente fino a prolungarsi oltre al presente stesso?
Il film prosegue con questa cripticità. Ritroviamo lo scrittore Chow. Incontra una donna conosciuta nel passato, ma che non si ricorda di lui. Comincia a scrivere un romanzo dal titolo 2046. È un romanzo che racconta di uomini e donne che fanno di tutto per arrivare a quella data dove possono ritrovare i ricordi perduti. È una storia di fantascienza intessuta delle esperienze e delle fantasie dello scrittore. È una memoria nella misura in cui la narrazione è costituita dalle persone che aveva incontrato nella sua vita. E in particolare dalle donne. Mimì, una prostituta, poi la figlia del proprietario dell’albergo. Con queste donne lo scrittore intesse una relazione amorosa o pseudo amorosa, ma è il ricordo di quell’unica donna, che noi sappiamo essere Li-Zhen, che lo motiva ad andare in cerca del 2046.
Il rapporto con le altre donne è diventato superficiale, effimero, da quando lo scrittore sente di aver perduto il grande amore della sua vita. Chow è diventato vittima della sua memoria, che lo costringe a vagare. In ogni donna rivede la signora Li-Zhen, cerca tratti di lei e manca l’appuntamento con il presente. Non ha alcuna attenzione per il presente. Non avendo accettato la sua perdita, fa di tutto per creare un’attesa e veder sorgere il futuro in cui si ricongiungerà con Li-Zhen, o almeno con un’androide che è la sua copia. Ma anche se è una copia, Chow crede che quell’androide avrà la risposta al segreto inconfessato. Invece, l’androide, pur assomigliandole in tutto, rimane in silenzio nel momento clou.
2046 è ancora una volta il tentativo di Wong Kar-Wai di mettere in scena il rapporto che c’è tra lo spirito e la memoria. E il rapporto tra il tempo e l’atto di vedere. Chow vede il passato nel presente perché è in attesa che quel passato ritorni come futuro. Per esempio, c’è una simmetria tra l’inizio e la fine del film. In quello che sembra l’ultimo incontro con Li-Zhen, Chow viene sfidato dalla donna al gioco di carta alta. Se la carta estratta dallo scrittore sarà maggiore della sua, lei partirà con lui. La stessa sfida viene lanciata dalla donna che Chow incontra successivamente nel 1968 e che ha lo stesso nome della prima (ed è anche interpretata dalla stessa attrice). In entrambe le occasioni perde, e forse il secondo incontro assomiglia più a un sogno. Risulta perciò quasi impossibile capire il tempo del film, anche se continuano a comparire in sovrimpressione scritte come un’ora dopo, dieci ore dopo, cento ore dopo, mentre l’inquadratura rimane la stessa su Chow, impegnato a scrivere. All’inizio vediamo già l’androide, ma non sappiamo ancora chi sia. Lo scopriamo arrivati a due terzi della pellicola. Alcune scene ritornano, come in In the mood for love, e abbiamo l’impressione di vedere le stesse cose, solo da una prospettiva diversa. Ma se nel primo film veniva unicamente esplorato l’effetto della memoria rivolta verso il passato, con 2046 i fili del tempo sono intrecciati con maggior complessità perché coinvolgono anche il futuro. Ma è davvero un futuro quello di chi aspetta che si ripresenti un passato?
Non è un caso che 2046 sia una stanza d’albergo, un treno e una data. La stanza d’albergo richiama l’atmosfera di In the mood for love, il luogo dove i due si incontravano di nascosto. Una stanza d’albergo, però, è anche il luogo di stasi d’un possibile viaggio. Quando ci rechiamo in una città nuova, diventa lo spazio più chiuso che possiamo incontrare. È dove ci si riposa, si attende e dove cerchiamo di rimanere il meno possibile. Non abbiamo viaggiato per vedere una stanza d’albergo, ma per quello che sta fuori da essa. Come non viaggiamo per prendere un treno, ma viceversa. Non viaggiamo per rimanere sopra il treno. Il treno è un luogo dove restiamo in attesa dell’arrivo. Noi aspettiamo su un treno che continua ad andare avanti. «Non si voltò ed ebbe l’impressione di salire su un treno senza fine lanciato in una notte insondabile verso un futuro nebbioso e incerto».
Ma 2046 è anche una data. Una data è un punto limite che assume il tempo. E la nostra durata è iscritta tra due date ben distinte, una massimamente certa e l’altra sconosciutamente incerta. Ma questa terza data ha una sua specificità. 2046 è dove il tempo sembra arrestarsi. «Perché nulla cambia mai nel 2046, ma non si sa se questo punto esista, perché nessuno è mai tornato».
Una questione di tempismo
Chow è un uomo vittima della sua memoria. È anche un dongiovanni sconfitto, canterebbe Leonard Cohen in Death of a ladies gentleman: «il tempo della seduzione è finito e non tornerà mai più». La nostalgia del grande amore mancato macchia il suo presente. In favore di quell’amore ideale, che sembra sempre più perfetto di un amore reale, preferisce la nostalgia alla gioia.
Ciò che non si è mai consumato lo attrae per la sua illusoria eternità. Anche se incontra molte donne, non riesce a costruire nessun legame. E quando sembra desiderarlo, come nel caso della ragazza che lo aiuta nella stesura dei suoi libri, è lei a non trovarsi al momento giusto perché ama un altro. Ma forse è proprio questo che Chow vuole: non essendo in grado di superare il suo amore passato, va in cerca di donne che non lo possono amare. Imprigionato tra la memoria e l’attesa, non dobbiamo però immaginarlo come uno sprovveduto. I consigli che dispensa alle sue amanti sono propri di uno spirito ben consapevole. Chow sa che non si può sovrapporre un amore a un altro, che non si può tornare indietro, ma ci prova lo stesso. Perché finché non rinuncia, può sempre sperare. Ma se spera in un passato, significa che non gli è ancora sfuggito, e se non è sfuggito al passato, non può trovare nulla nel presente.
Ma è nel presente che si gioca la grande partita dell’amore. Chow non è sprovvisto neppure di questa consapevolezza. L’amore non è una questione di attimi, non è cosa frivola, altrimenti questo scrittore potrebbe amare ogni donna che incontra. L’amore è la questione di quell’attimo, ben distinto da tutti gli altri, di quel preciso attimo in cui siamo chiamati ad avere tempismo. È una sfida difficile perché è il momento in cui in due bisogna sapere andare a tempo.
Nella vita il vero amore si può mancare, se arriva troppo presto, o troppo tardi.
Wong Kar-way, 2046
Love is a matter of timing, un ballo che richiede ritmo: la canzone principale di In the mood for love, Yumeji’s Theme, è proprio un valzer. E forse Wong Kar-wai voleva suggerire l’importanza della coordinazione e dell’armonia che la coppia deve avere perché tutto possa funzionare. Prendiamo Chow e Su Li-zhen a esempio: è innegabile che siano attratti l’uno dall’altra, che i loro incontri nella stanza d’albergo o alla tavola calda rompano la monotonia del loro quotidiano. E, in aggiunta, si conoscono perché scoprono di essere stati traditi dai loro rispettivi partner. Ma non si tratta solo di desiderare qualcuno ardentemente. Non basta il desiderio e neppure la pazienza: se non si riesce ad andare a tempo è vana ogni potenza. Sembra contraddittorio, ma non basta neppure avere tempo da passare insieme per sapere andare a tempo. Quando Chow decide di partire per un incarico a Singapore, propone a Su Li-zhen di andare con lui. L’aspetta nella stanza d’albergo, ma lei non arriva. Quando poi Su Li-zhen si presenta, è già troppo tardi. L’uomo non c’è più. Questa incapacità di avere tempismo, che ha come effetto un inevitabile mancarsi, si ripete ancora due volte. Su Li-zhen fa visita all’appartamento di Chow, ma lui non è presente. Successivamente Chow, tornato per una visita alla sua vecchia casa, non si rende conto che la signora col bambino, di cui parlano i vicini, è proprio Su Li-zhen. Il valzer di Yumeji’s Theme alla fine del film non scandisce più che il tempo delle loro solitudini. Già Federico Garcìa Lorca, nella poesia Piccolo valzer viennese associava questo ballo al sentimento amoroso.
«Prendi questo valzer del “Ti amo per sempre”.
A Vienna ballerò con te /con un costume che abbia la testa di fiume.
Guarda queste mie rive di giacinti!
Lascerò la mia bocca tra le tue gambe,
la mia anima in foto e fiordalisi,
e nelle onde oscure del tuo passo
io voglio, amore mio, amore mio, lasciare,
violino e sepolcro, i nastri del valzer».
Piccolo valzer viennese, Federico Garcia Lorca
Lo scrive anche Kafka in una lettera: il tempo è la materia più preziosa, va adoperato con saggezza e il tempismo nella vita è tutto. Il tempismo, però, non è una questione di fortuna, non è il tempismo di trovarsi per caso in un angolo della strada e incontrare la persona giusta. Il tempismo è una capacità che richiede prima di tutto sicurezza, la sicurezza presuppone una conoscenza di se stessi, dei propri limiti e dei propri desideri. Non è una cosa che si può insegnare ed è anche ciò che determina la differenza tra un buon e un cattivo difensore. Chi ha tempismo, sa quando andare in tackle e quando invece è il momento di temporeggiare. Di sicuro è una capacità che appartiene a chi ha occhi nel presente, perché l’attimo è fugace e richiede una pronta risposta. Come la memoria, perciò, il tempismo è un’azione dinamica e creatrice sul tempo, ma a differenza della memoria non viene investito solo il campo della visione. Il tempismo è soprattutto toccare il presente al momento giusto.
La memoria ci può atrofizzare, può farci perdere in un labirinto di specchi. Si ostina a mandarci indietro perché forse qualcosa di fondamentale c’è sfuggito, qualcosa come la risposta a quella tanto agognata domanda. C’eravamo amati, noi? Su Li-Zhen aveva amato Chow? Per quanto la memoria provi a scavare, è ormai chiaro che la risposta è un segreto che non si può conoscere. Forse in un altro tempo, in un’altra epoca, la sua, come la mia o la vostra storia, sarebbe stata diversa. Chow ha anche scritto 2046 per creare un’alternativa. Memore di una storia di uomini che consacrano l’arte perché la realtà non gli basta più o non gli è mai bastata.
Io, per esempio, quella volta in sala, probabilmente mi sarei girato sorridendo verso di lei, per ritrovare nei suoi occhi la stessa meraviglia, nel suo sorriso la stessa soddisfazione che ci lascia un film di rara bellezza. Invece ero solo, e mi sono guardato intorno. E mi sono ricordato perché amo così tanto il cinema. ♦︎
Illustrazioni di G