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Vuole fare musica e sfondare i muri del rione: si arma di «cuore e coraggio» per custodire l’amore testardo per la propria terra e trasmetterlo con forza. È uno che crede nel valore della realtà che l’ha visto crescere e non la rinnega mai; non si lascia alle spalle la sua gente ma si prende l’impegno di raccontarla e portarla ovunque. Geolier viene dal rione Gescal che si trova a nord di Napoli, tra Miano e Secondigliano, territori difficili sui quali aleggia un senso di sconfitta e irrecuperabilità e da cui si dice sia meglio tenersi lontani perché terra di nessuno. Qualcuno ne è impaurito perché è un sistema cristallizzato fatto di gente che si conosce a vicenda e sa tutto di tutti; quindi, se non ne fai parte e provi ad accostarti, sei una potenziale minaccia. Tutti i quartieri hanno una caratteristica che li accomuna: sono simili ad animali feriti a cui è difficile avvicinarsi perché, dopo esser stati abbandonati o maltrattati, non riescono più a fidarsi di nessuno e non riescono che a rivolgere sguardi di sospetto e colmi di sofferenza, e ad aggredire se si prova ad accarezzarli. Il giovane rapper racconta proprio la gente disillusa, di cui si parla solo tenendosi a una certa distanza di sicurezza e vedendo la realtà aprendo leggermente la porta, il giusto spiraglio che serve a guardare il poco che basta a consumarla per trarne una narrazione, che quasi sempre è in chiave folkloristica, caricaturale o eccessivamente stereotipata e romanzata, e perciò ha successo. E nessuno si azzarda a fischiarla perché, essendo raramente autentica, non è troppo sfacciata né dolorosa. Non provoca fastidio né paura, tantomeno disgusto e bisogno di stravolgerla. Napoli, però, non è solo il soggetto della produzione artistica di turno. Non è possibile coglierne parzialmente la condizione e costringerla nei tanti dipinti che la immortalano da secoli: è necessario raccontarla spalancando la porta e attraversandola, altrimenti non si smetterà mai di conservarla così com’è e tirarla fuori all’occorrenza. E il racconto è efficace e più realistico se i fatti sono raccontati nella lingua di chi li vive, che ne rispecchia anche la mentalità e i sentimenti.

Il ‘secondino’ ha qualcosa da dire e lo comunica nel modo più naturale conosce: in dialetto napoletano, però quello immediato e verace dei suoi coetanei, i protagonisti della sua musica. Racconta di ragazzi che hanno preso cattive strade e che ormai non vede più, di alcuni che in poco tempo diventano padri nonostante la giovane età, di altri che hanno genitori pregiudicati e portano il peso dei loro sbagli pur non avendo proseguito sulle loro orme. Ma ci sono molti momenti in cui parla anche della sua sofferenza e senza vergogna ricorda di quando dormivano in quattro sul divano, oppure dei valori che gli hanno insegnato i suoi genitori, in particolare suo padre che non ha mai voluto smettere di lavorare nonostante potesse farne a meno, oppure il rifiuto della malavita, perché «nun ce vonne ‘e ppalle a ffà ‘e reate, ce vonno ‘e ppalle a ffaticà» (da Ricchezza). Questa lingua è la stessa che ha portato al Festival di Sanremo e gli ha fatto ricevere critiche durissime, nonostante il testo non fosse così colorito. Non è molto diverso da quello che accadde negli ultimi anni dell’Ottocento, quando Émile Zola pubblicò L’Assommoir, scritto nella lingua del popolo, brutale, aspra e ricca d’immagini, e venne criticato e censurato; la forma che aveva scelto per la sua opera fu il suo grande crimine e le parole diventarono oggetto di profonda rabbia. Oggi il dialetto fa ancora paura, infatti a Geolier ha fatto pagare il prezzo di non aver ricevuto il Leone d’oro; era consapevole sin dall’inizio di non poter vincere, ma non ha voluto rinunciare al suo modo di parlare con onestà e ‘cazzimma’, in particolare ai ragazzi come lui che, nei confronti di un sogno da realizzare, si sentono spesso sconfitti in partenza perché marchiati dalla provenienza dal rione – e perciò per niente considerati – ma anche da Napoli stessa, che è bersaglio del classismo di alcuni italiani e addirittura di diversi napoletani che percepiscono la città spaccata in due. E loro, ovviamente, rivendicano con superiorità di provenire dalla parte migliore, quella «aristocratica», che non solo non vuole avere niente a che fare con l’altro lato della città, ma ritiene che non debba ricevere nemmeno tanta importanza e gli elogi non siano meritati.

Illustrazione di Viviana Furlani
L’affaire Geolier

Geolier non si fa portavoce solo dei ragazzi che fa più comodo considerare malavitosi a prescindere, visti come l’ultima ruota del carro e che se muoiono uccisi per sbaglio in pieno centro ma fanno i pizzaioli e non i musicisti, non sono figli uccisi e non hanno la stessa importanza di un ragazzo che abita in un quartiere benestante; non hanno la stessa dignità di essere ricordati e si soffre meno per la loro morte. Emanuele – questo è il suo nome -, in realtà, parla per tutti i napoletani, i quali vivono in una città che negli stessi luoghi può dare e togliere tanto senza risparmiare nessuno, e questo è il dramma di un territorio che può stimolare e avvilire allo stesso tempo, dove si può decidere di studiare o lavorare – limitandosi alle opportunità non sempre soddisfacenti e che possono essere motore o freno -, oppure scegliere di stare per strada e rovinarsi, perché in tanti credono di non avere nulla da perdere e di poter acquistare valore solo in questo modo. Vogliono sembrare forti ma sono i più fragili, quelli che sparano per una banale discussione o colpiscono accidentalmente ragazzi che si trovano in quel posto solo per trascorrere una serata con gli amici, e si parla sia di Giovanbattista Cutolo che di Francesco Pio Maimone, due giovani di diversa estrazione sociale che, tuttavia, non sono ricordati allo stesso modo, pur essendo uguali perché senza colpe. La verità è che nessuna posizione prestigiosa ha il potere di sollevare dal destino così tragico di una città che sa essere infernale in luoghi paradisiaci e amena nello squallore, sin dalla sua nascita dominata dalla diversità ma che non può «disunirsi», altrimenti perderebbe la sua essenza.

Il messaggio del canto di Partenope è arrivato a Sanremo e si è fatto largo tra le classi sociali, le spaccature e il dialetto stesso: che un ragazzo venga dalla periferia o dal centro, che sia benestante o non abbia altro che le proprie forze, che si esprima in italiano o in napoletano, che abbia aspirazioni grandi o più modeste, non deve avvilirsi ma ha bisogno di sapere che non sempre si perde e non sempre si è invisibili, che ha il diritto di avere un sogno e il dovere di difenderne il valore, anche se qualcuno non lo comprenderà. Esiste una sola legge ed è universale: mai rassegnarsi. ♦︎


Illustrazione di Viviana Furlani