La scoperta della sessualità, gli oggetti che commuovono e le atmosfere verosimili: la storia di Priscilla Presley è scritta e ancora da scrivere. Sofia Coppola ritorna alla regia con un biopic in stile Marie Antoinette, ma senza riuscire a convincere del tutto
Una moquette di colore rosa, piedi sinuosi, unghie laccate di rosso. La moquette sembra morbida. I piedi ci affondano appena. Sono lisci e infreddoliti, appartengono a una ragazzina. È solo un’inquadratura, una piccola porzione di realtà, ma contiene già tutto: la freschezza dell’adolescenza, l’accenno ai desideri sessuali inappagati, il gusto per il kitsch nella moda anni ‘60. Non abbiamo ancora conosciuto Priscilla Presley, eppure Sofia Coppola decide sapientemente, già nelle prime scene del film omonimo presentato in concorso a Venezia, di farci sentire lì, con lei. Una manciata di close-up ci mostrano i tratti distintivi che hanno contribuito a creare l’iconografia inconfondibile con cui la popolarità ce l’ha consegnata. Vediamo Priscilla indossare le ciglia finte, poi sistemarsi l’ampia cotonatura di capelli neri laccati e infine dipingersi sulle palpebre quel tratto che più degli altri ha contribuito a consolidarne l’immagine pubblica: la spessa riga nera dell’eyeliner. Sofia Coppola, come di consueto, sembra procedere per sineddoche, dando valore a piccoli dettagli, a singole parti che sostituiscono l’intero. Eppure, è proprio grazie alla scomposizione in frammenti che la riconosciamo: è lei, Priscilla, la moglie di uno dei più celebri cantanti del XX secolo, quell’Elvis che ha sposato da giovanissima, di cui porta il cognome che le ha permesso di ereditare la sua notorietà. Ma c’è un dietro nascosto in tutte le cose. Chi è Priscilla dietro quell’etichetta, ‘moglie di’, che ha desiderato presto incollarsi addosso e altrettanto velocemente ha desiderato staccarsi? Chi è Priscilla dietro quel perfetto strato di eyeliner, che proprio Elvis le avrebbe suggerito di indossare per la creazione di un personaggio ‘iconico’ e facilmente riconoscibile? Insomma, prima di diventare Priscilla Presley, chi era Priscilla? È questa la domanda a cui più di tutte Sofia Coppola cerca di rispondere, anche se con qualche tentennamento, nel biopic femminile in cui ancora una volta, come in Marie Antoinette, la regista si propone di svelare l’intimità di un’adolescente, oltre alle apparenze esteriori. Suona quasi come un paradosso che proprio lei, sposata a una star mondiale che ha fatto della sua voce lo strumento fondamentale per la sua fortuna, appaia sempre in silenzio. Ma anche Priscilla ha una voce, e Sofia Coppola ce la fa sentire.
La gabbia dorata
L’adolescente Priscilla, interpretata da un’ineccepibile Cailee Spaeny (vincitrice della Coppa Volpi), ha solo quattordici anni quando conosce il già celebre Elvis Presley (Jacob Elordi), di dieci anni più grande. È il 1959 e la loro frequentazione è interrotta dalla fine della permanenza di Elvis in Germania, dove stava svolgendo il servizio militare. Passa qualche anno, fino a quando Elvis convince i genitori di Priscilla a farla trasferire a Memphis, dove vive insieme al suo team nella sontuosa villa di sua ideazione, che ha chiamato Graceland. È proprio l’arrivo nella dimora di Elvis a dare l’avvio all’arco trasformativo di Priscilla, che si configura come un vero e proprio viaggio dell’eroina, ben distinto dal viaggio dell’eroe per l’esistenza di una prova che al corrispettivo maschile non è richiesto di superare: la liberazione dal patriarcato. Sono due le tappe fondamentali del suo arco: l’arrivo e la partenza da Graceland, la gabbia dorata in cui si consuma l’illusione adolescenziale che tutto sia possibile, anche il suo sogno d’amore con Elvis. Nel corso del film prendono vita le due identità di Priscilla: dall’ adolescente innamorata, alla donna di carattere che decide di andar via. Graceland per Priscilla esercita lo stesso potere illusorio che Versailles aveva esercitato per Maria Antonietta, protagonista dell’altro celebre biopic al femminile diretto da Coppola, che a distanza di anni, conferma l’inclinazione della regista americana a prestare il suo sguardo al racconto dell’adolescenza femminile. Sono diversi, infatti, i punti di contatto tra le due pellicole, a partire proprio dalla prima presentazione delle protagoniste, che avviene attraverso l’impatto ironico con l’immagine caricaturale che la società ha tramandato di loro (Priscilla, e il suo eyeliner; Maria Antonietta e la servitù). In entrambi i biopic la sceneggiatura è stata tratta da un libro, e nel caso di Priscilla da Elvis and me, il memoir scritto dalla stessa Priscilla Presley che ha preso parte ad alcune iniziative incontrando personalmente la regista e gli attori. Ma non basta: entrambe le protagoniste si allontanano dalla famiglia d’origine precocemente, sono respinte sessualmente dal loro partner, vivono alle dipendenze di un uomo. La conquista della loro indipendenza avviene per entrambe attraverso la necessità di scoprirsi, per Priscilla con l’addio a Graceland alla guida dell’automobile in cui all’inizio del film sedeva nel sedile posteriore, per Maria Antonietta con il trasferimento nella residenza accanto a Versailles del Petit Trianon, luogo in cui abbracciò uno stile di vita pseudo bucolico. Un’unica differenza però traccia un confine netto tra le due. Nessuno la obbliga: è Priscilla a decidere di trasferirsi a Graceland. Ed è con un altro atto della propria libera volontà che deciderà di andarsene.
Elvis-Pigmalione
L’Elvis che compare accanto alla Priscilla della Coppola, benché relegato a un ruolo marginale, appare del tutto diverso rispetto al ritratto generoso che era stato tratteggiato nel biopic diretto da Baz Luhrmann. Non è un eroe dal fascino antico, l’Elvis della Coppola è a tutti gli effetti un manipolatore, che crea Priscilla a sua immagine e somiglianza, allo stesso modo con cui aveva creato Graceland. All’inizio sa di poter contare sull’ingenuità di una ragazzina che vede comparire davanti a sé l’idolo tanto agognato, e che non ha la maturità necessaria per capire che la sta solo usando. Elvis, infatti, pretende da Priscilla l’amore e la stabilità di una moglie, ma si aspetta che le sue richieste non siano reciproche. Dietro i suoi modi d’altri tempi, che sanno affascinare, si nasconde un narcisista che non sa amare, ma vuole solo essere amato. Priscilla è l’ignara vittima del suo ego, l’oggetto del suo desiderio, uno dei tanti mobili di casa da lasciare lì, su una mensola e spolverare ogni tanto come un soprammobile. Non è un caso che gli oggetti presenti nel film riescano a diventare parte integrante del racconto della solitudine di Priscilla. Sofia Coppola riesce a farci commuovere anche di fronte alla solitaria presenza su uno scaffale di un elefantino di porcellana dal gusto retrò. Anche gli oggetti più banali, simboli del mondo della produzione di massa, diventano pezzi unici, come è unico il dolore di Priscilla alla scoperta del tradimento del suo promesso sposo. Come un Pigmalione moderno, anche Elvis con Priscilla vorrebbe creare una donna-statua in grado di soddisfare tutti i suoi bisogni, in un rapporto atrocemente unilaterale e sbilanciato. Il film, che sembra romanticizzare, forse anche con una sottile distanza critica, questo tipo di relazione si appoggia ad una sceneggiatura scricchiolante e che rischia talvolta di inciampare in dialoghi non ben riusciti che tendono a banalizzare un tema così importante. Il punto forte è invece la direzione della fotografia, affidata al francese Philippe Le Sourde (che aveva già lavorato con Coppola nel film L’inganno del 2017) e la scelta della musica, a opera della Coppola stessa, che pur rinunciando alle canzoni di Presley per problemi di diritti d’autore, riesce con le sue scelte originali, spaziando dai Ramones fino ad Alice Coltrane, a conferire un valore espressivo a diverse sequenze del film.
Libertà
Anche in Priscilla accade ciò che unisce tra loro gli altri film appartenenti al genere del biopic di donne, come la Virginia Woolf in The hours (2002), ma anche Jackie (2016) e Spencer (2021) di Pablo Larrain. Per tutte queste eroine la vita all’insegna della libertà sembra essere una vita che non merita più di essere raccontata. In ognuno di questi film le eroine del biopic diventano martiri per le attuali correnti culturali, con il rischio che le loro differenze individuali vengano dimenticate e messe a servizio di un tema: nessuna scampa alla scena cardine del biopic femminile, quella dello strazio e del pianto. Il rischio è, quindi, di restare appiattite sotto la lente di uno stereotipo che è lanciato da chi le rappresenta. Ma a differenza delle altre eroine, e di Maria Antonietta, Priscilla è ancora viva ed è la dimostrazione che c’è una vita dopo la libertà, anche se spesso Priscilla Presley, quella reale, in carne ed ossa, e non la proiezione immaginaria nel film di Coppola, è stata oggetto di controversie per lo sfruttamento a fini commerciali del suo cognome.
L’evocazione di atmosfere è forse, la cifra stilista più nota di Sofia Coppola, ed è ora anche documentata nel libro Archives (edito da Mack, 2023). Con Priscilla, tuttavia Sofia Coppola sembra non aggiungere nulla di nuovo al suo universo cinematografico, ma anzi sembra aver confezionato un film con l’aiuto dell’intelligenza artificiale: è il trionfo della sua estetica e del prevalere del piacere della simmetria della forma sul contenuto. ♦︎