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Da settimane stiamo parlando del film sbagliato. È vero, infatti, che in sala c’è il nuovo lavoro di Francis Ford Coppola, ma non è Megalopolis, bensì The Apprentice – Alle origini di Trump. Coppola ha preso le sembianze di Ali Abbasi (regista accreditato per The Apprentice), mentre il vero autore di Megalopolis non è altri che un senile professore universitario in pensione che è riuscito ad assumere le fattezze di Coppola per poter realizzare un suo vecchio sogno: fare un film infarcito di tutta la propria erudita saccenza.

Lo so, la mia sembra un’allucinazione, ma visto che voglio parlare di The Apprentice non posso ignorare l’allucinata attualità che viviamo, comprensiva di un’opinione pubblica monopolizzata dalla discussione su un film di scarso valore mentre un film come The Apprentice passa in sordina, in poche sale, solo a certi orari. E allora poter dimenticarsi di Megalopolis, il giorno dopo averlo visto, come dell’opera di un impostore, e pensare a The Apprentice come l’ultimo capolavoro di Francis Ford Coppola fa di me un uomo decisamente più felice. In fondo la continuità che esiste tra Il Padrino e The Apprentice, sia in termini di intenzioni che di resa qualitativa (sebbene non in termini di stile) avalla questa mia ipotesi.

Se, invece, sono io ad avere le traveggole, e davvero Megalopolis l’ha girato Coppola e The Apprentice è di Ali Abbasi, allora bisogna anche ammettere che siamo nel pieno di un neo-neo-classicismo (chiamate un dermatologo, cazzo!). Vi ricordate del neo-classicismo settecentesco? Si trattava di un movimento culturale, finanziato dai despoti di allora affinché gli intellettuali e gli artisti più brillanti dei loro rispettivi regni disinnescassero i propri talenti dedicandosi costantemente, come affetti da un sortilegio, alla reiterazione del glorioso passato greco e latino. Così, in Italia, ci si trastullava con l’Arcadia e altre raffinatissime amenità, invece di parlare dell’occupazione austriaca e borbonica, rimandando all’inverosimile il Risorgimento.

In Megalopolis, Coppola vorrebbe denunciare una società che si regge su avidità e corruzione e riesce in un film narciso, che ostenta pedantemente cultura, finendo per fare un enorme buco (estetico) nell’acqua, dove la sua stessa denuncia viene risucchiata. Un involontario cortocircuito neo-neo-classicista che viene ampiamente sfruttato da una comunità di intellettuali (non so quanto involontariamente) neo-neo-classicisti che preferisce evadere nell’infinita discussione sul fallimento o meno di un regista ottuagenario piuttosto che parlare dell’oggi che Ali Abbasi ci denuncia.

E attenzione: la mia non vuole essere un’apologia del realismo. The Apprentice non è infatti, nonostante l’ancoraggio al fin troppo reale personaggio di Trump, un film realistico, tutt’altro, archetipico piuttosto, almeno quanto Coppola avrebbe voluto fosse il suo di film.

Il processo stilistico più riuscito in The Apprentice è proprio la metamorfosi di registro da film di denuncia, con stile documentaristico, a un fantasy gotico (con punte di horror): scelta stilistica totalmente aderente alla volontà di raccontare, attraverso la metamorfosi del protagonista, quella che la nostra società ha subito nell’ultima metà del secolo: da ‘ancora umani’ a ‘mostri’.

All’inizio del film Trump (uno strepitoso Sebastian Stan) è ancora umano: è già figlio di quella civiltà che ha costruito il proprio impero sul genocidio di oltre cinquanta milioni di nativi americani e africani, ma ancora soffre per le proprie insicurezze, ancora si affeziona, ancora si innamora, ancora desidera, ancora vive; ma Donald incontra Roy Cohn (un altrettanto strepitoso Jeremy Strong che, per tutto il film, duella in bravura con l’attore protagonista, esattamente come fanno nella diegesi i personaggi che interpretano, generando una densa eco metanarrativa).  Roy Cohn è un novello Dottor Frankenstein che trasformerà Donald, e gli spettatori con lui, in un mostro incapace, infine, di alcuna umanità, sentimento, espressione vitale. Un MosTrump di egoismo, di menzogna, di avidità, di dipendenza dal potere. Come nel romanzo della Shelley, Trump veglierà sul corpo morente del suo creatore, Roy Cohn, il quale sarà costretto a prendere atto della mostruosità che ha ‘prodotto’ (mostruosità rappresentata, in una scena memorabile, dagli interventi a cui Trump si sottopone contemporaneamente, di liposuzione e di chirurgia al cuoio capelluto).

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The Apprentice © 2024 Ali Abbasi/Scythia Films, Profile Pictures, Tailored Films/BiM Distribuzione

Purtroppo, però, FrankensTrump non è la sola metamorfosi mostruosa che mi sono ritrovato davanti durante la visione del film di Abbasi; a un certo punto la mia mente non ha potuto fare a meno di pensare a quella del cinema italiano negli ultimi decenni. Non ho potuto, per esempio, non pensare, guardando Abbasi all’opera col suo mostro, a come Sorrentino abbia gestito i suoi di mostri, in Loro e ancora prima ne Il Divo.

Abbasi, in The Apprentice, non si mette mai a pettinare Parthenope! Non trasforma un’occasione di denuncia in uno sfoggio di bravura stilistica, in una speculazione commerciale, nell’ennesimo piolo della personale scalata verso l’affermazione di un brand.

Di fronte alla capacità che ha Abbasi di scomparire dal proprio film, e ripensando a quanto Sorrentino ci sia all’interno di un’opera che sarebbe dovuta essere su Berlusconi, realizzavo quanta, troppa, differenza esiste, da quarant’anni ormai, tra l’operato delle eccellenze cinematografiche nostrane e quello delle eccellenze altrui: la differenza che c’è tra La grande bellezza e The Square, tra La bestia nel cuore e I segreti di Osage County, tra Io Capitano e Welcome (sarebbero veramente educativi dei percorsi di cinematografia comparata tra queste coppie di film, giusto per capire dove stiamo continuando a sbagliare).

La triste verità è che noi siamo indietro, ma non di quarant’anni (magari, visto che quaranta, cinquant’anni fa noi italiani producevamo il miglior cinema possibile), siamo indietro di un secolo; avverando una delle profezie più disperate di un grande esiliato dal neo-neo-classicismo italiano come Pier Paolo Pasolini, siamo tornati al cinema innocuo e arcadico che era l’unico concesso dal regime di Mussolini. Purtroppo, la neo-neo-classica verità è che raccontiamo storie innocue, sempre più specializzati nell’arte di distrazione di massa o in quella, ben più subdola, del disinnescare contenuti sensibili; e in questo anche noi siamo mostruosi, inguardabili, come FrankensTrump, anche noi ricorriamo senza scrupoli al talento della tecnica per farci belli: un po’ di liposuzione di quà, interventi al cuoio capelluto di là, e ogni tanto ci portiamo a casa un oscar o una palma d’oro.

Gomorra di Garrone, dirà qualcuno, non era affatto un’opera neo-neo-classica, bensì degna di fare il paio con The Apprentice: vero, peccato chenel frattempo siano passati sedici anni durante i quali, tra l’altro, quell’opera sia stata tradotta in una neo-neo-classica serie tv, distraendo masse e disinnescando (Arcadia!). ♦︎