Covid a parte, purtroppo principale personaggio costantemente al centro della scena durante l’intero anno appena trascorso, fortunatamente gli ultimi mesi del 2020 e i primi giorni del nuovo anno hanno visto un altro importante protagonista calcare il palcoscenico, benchè più lontano dai riflettori rispetto al virus: i grandi accordi commerciali di libero scambio.
In un 2020, infatti, nel quale si è giunti al definitivo divorzio fra Unione europea e Regno Unito e nel quale è proseguita la politica americana di abbandono dei vari trattati che coinvolgevano gli USA, alla nuova ideologia protezionistica che è parsa fare sempre più presa in Occidente, si è opposta la nascita di nuovi mercati, nei quali la libertà di circolazione di merci e persone è divenuta la parola d’ordine.
Due in particolare sono stati gli eventi di maggiore peso, soprattutto dal punto di vista economico: la firma da parte di 14 Paesi dell’area asiatica-oceanica del RCEP e la stipula dell’AfCFTA, nel continente africano.
Al di la delle sigle, di non facile pronuncia, questi due trattati commerciali, salutati dai sottoscrittori quali eventi epocali, meritano una maggiore attenzione e un’analisi più approfondita, dati i numeri che coinvolgono. Vediamo di far luce su entrambi e capire quale sia la loro effettiva portata.
Il Rcep
Il Rcep, Regional Comprehensive Economic Partnership, è stato il primo dei due accordi ad essersi presentato sulle scene mondiali, facendo il suo esordio il 15 novembre 2020, dopo otto lunghi anni di intensi negoziati, accompagnato da cifre da capogiro: ben 15 Stati dell’area asiatica orientale e dell’Oceania protagonisti, primo fra tutti la Cina, insieme con gli altri quattro Stati che già costituiscono il gruppo del Fta, il Free Trade Agreement, vale a dire Australia, Giappone, Nuova Zelanda e Corea del Sud, e i 10 Paesi che compongono l’Associazione del Sudest asiatico, l’Asean, ossia Brunei, Cambogia, Indonesia, Laos , Malesia, Birmania, Filippine, Singapore, Thailandia e Vietnam; rappresentato circa un terzo dell’intera popolazione mondiale e il 30% del Pil globale (la sola Cina ne costituisce quasi il 20%); un ammontare complessivo di 26.200 miliardi di dollari sommando i Pil di tutti i 15 Paesi firmatari (Ghezzi C.A. – La Stampa 16/11/20); il coinvolgimento di qualcosa come 2,2 miliardi di consumatori. A queste cifre da capogiro si aggiungono anche quelle prodotte dalle statistiche degli studiosi della Johns Hopkins University, i quali hanno stimato in 186 miliardi di dollari l’aumento della ricchezza globale e di 0,2% l’incremento del PIL di ogni singolo Paese entro il 2030, a fronte di una perdita dovuta alla guerra commerciale fra gli stessi protagonisti durante il medesimo lasso di tempo, di 300 miliardi di dollari, e un incremento degli scambi commerciali nella regione pari a 430. Con questi numeri il Rcep ha tutte le carte in regola per potersi presentare come il più grande blocco commerciale della storia, grazie al quale le tigri asiatiche hanno fatto udire il loro ruggito.
L’obiettivo primario del trattato è di incrementare notevolmente gli scambi all’interno della regione e fra potenze che, a livello politico, sono in alcuni casi persino in conflitto fra loro. I tre principi fondamentali che dovrebbero consentire l’ottenimento del risultato sperato sono la riduzione ad un’unica certificazione necessaria per i beni prodotti da un Paese membro per circolare all’interno dell’area, la diminuzione e il quasi totale azzeramento dei dazi e l’omologazione delle regole di produzione e distribuzione dei prodotti. Vi sono, poi, vantaggi che sarebbero appannaggio solo di alcuni Stati, in particolare la Cina, la quale, in veste del più grande mercato della regione, potrebbe sperare di giovarsi dell’accordo per imporre le sue regole commerciali a tutti gli altri Paesi e di accrescere, allo stesso tempo, il prestigio di se nel mondo come fautrice di una maggiore globalizzazione.
A pareggiare i piatti della bilancia, vi sono, però, anche alcuni punti di debolezza. In primis il fatto che gran parte dei Paesi firmatari presenta un surplus di produzione interno, per cui si dovranno trovare degli acquirenti in deficit, disposti a farsi carico delle eccedenze degli altri Stati, per far si che il blocco trovi la sua solidità. Tuttavia, ad oggi, l’unico Paese in disavanzo economico è l’Australia, il quale, però, potrebbe non riuscire a rispondere alle richieste di esportazione di tutti gli altri Stati (Michael Pettis on Twitter 03/11/2020). Non sarà, peraltro, facile trovare acquirenti neppure all’esterno, con un’Unione Europea anch’essa in surplus e un’America che difficilmente cambierà drasticamente la rotta delle politiche protezionistiche intraprese dal presidente uscente Trump. Una soluzione potrebbe essere rappresentata dalla Cina, la quale potrebbe divenire economia in deficit facendosi carico del surplus del resto della regione e imporre lo yuan come moneta di riserva dell’area. Questo comportamento la farebbe però apparire definitivamente aggressiva e dominatrice nei confronti degli altri partner e l’immagine che ne scaturirebbe non sarebbe senza dubbio positiva per Pechino. Peraltro gli altri Stati paiono più interessati ad utilizzare il nuovo accordo proprio per ridurre il potere della Cina stessa ed impedirle di imporre la sua supremazia sulla regione.
Un importante acquirente dei prodotti dei Paesi del blocco potrebbe essere l’India, la quale, però, al momento figura come uno dei grandi assenti dell’elenco, malgrado le porte rimangano sempre aperte per lei, qualora decidesse di prendere parte all’accordo in futuro. Il primo ministro Modi ha ritenuto più opportuno e prudente restarne fuori e osservarne l’evoluzione futura come spettatore esterno, preoccupato che il nuovo trattato commerciale possa rivelarsi vantaggioso unicamente per la Cina e temendo di creare un’eccessiva dipendenza del suo Paese dal deficit commerciale con Pechino. Proprio l’assenza di uno dei Paesi della zona che sta mostrando la capacità di crescita maggiore, rappresenta un’ulteriore nota a sfavore del trattato.
Dunque per ora questo grande accordo appare più come un armistizio nella lotta commerciale che aveva sinora contraddistinto i rapporti fra molti dei Paesi firmatari, piuttosto che un blocco commerciale veramente solido ed efficiente.
L’Afcfta
Più recente rispetto al Rcep, l’African Continental Free Trade Act è entrato in vigore dal primo gennaio 2021, giunto, si spera, come buon auspicio per il nuovo anno. La sua storia, in realtà, è iniziata ben prima: già nel 1980, durante un congresso dell’Unione Africana, all’epoca ancora denominata Organizzazione dell’Unità Africana, si era lanciata la proposta di favorire la cooperazione commerciale fra i diversi Paesi del continente. L’AfCFTA è un accordo volto a permettere la creazione di un mercato comune africano e il suo raggiungimento rappresenta sicuramente una svolta storica per il Continente più povero al mondo. Il mercato interno africano, infatti, ad oggi occupa una percentuale molto bassa del commercio dei singoli Stati, appena il 15%, mentre, causa gli strascichi del colonialismo e dell’imperialismo delle epoche precedenti, gran parte degli scambi avvengono tra l’Africa e il resto del mondo, con un netto dominio di Europa, verso la quale è diretto il 67% delle esportazioni, e Asia (58% dell’export) (Olivo F., La Stampa del 3 gennaio 2021).
Il mercato unico africano si presenta come il più grande al mondo, coinvolgendo 54 Paesi, di fatto l’intero continente ad eccezione dell’Eritrea che ha rifiutato di firmare il trattato nel 2019 a causa della guerra in corso con l’Etiopia. Tra i due Stati è stata, nel frattempo, ricostituita la pace, facendo sperare nella sua adesione all’accordo nel breve futuro, ma negli ultimi mesi tra i due territori la situazione si è fatta nuovamente tesa, per cui al momento la partecipazione dell’Eritrea rimane un’incognita. La momentanea defezione eritrea non sminuisce sicuramente la portata dell’evento, se si guarda alla popolazione coinvolta, stimata in 1,3 miliardi di persone, praticamente l’intera Cina, e al valore del Pil complessivamente generato nel continente: 3,4 mila miliardi di dollari (Olivo F., La Stampa del 3 gennaio 2021).
Come già per il Rcep, anche per questo trattato vediamo quali sono i punti di forza e quali quelli di debolezza.
Le previsioni annunciano un’eliminazione dei dazi sul 90% dei prodotti scambiati fra i territori interni del continente africano, dazi il cui valore medio, ad oggi, ammonta al 6,1%. La conseguenza di ciò sarebbe una crescita del commercio fra Stati africani pari al 52% entro il 2022 (Olivo F., La Stampa del 3 gennaio 2021), e la possibilità per l’intera popolazione africana di ottenere una maggiore ricchezza, la quale favorirebbe, già entro il 2035, l’uscita dallo stato di povertà di 10 milioni di persone, secondo i dati forniti dalla Banca Mondiale. La più facile circolazione delle merci all’interno dell’Africa consentirebbe, inoltre, di generare economia di scala fra i vari Paesi e di renderli non solo meno dipendenti dal resto del mondo per l’approvvigionamento di risorse e capaci di un maggior potere negoziale nelle trattative globali (Riotta G., La Stampa del 3 gennaio 2021), ma anche meno influenzati da eventuali recessioni economiche dei Paesi sviluppati. Una questione di primo piano per un continente in via di sviluppo, che eviterebbe, in tal modo, di veder rallentata la sua crescita per cause esterne.
Infine, il mercato unico africano potrebbe rivelarsi attrattivo anche per numerosi investitori stranieri e, sempre secondo le stime della Banca Mondiale, sarà in grado di portare un beneficio al resto dei continenti pari a 60 miliardi di dollari (Riotta G., La Stampa del 3 gennaio 2021).
A rendere l’evento meno glorioso vi sono, tuttavia, alcune criticità. Intanto il trattato è stato, per il momento, ratificato da 34 Paesi, mentre gli altri stanno procedendo con maggior prudenza, prima fra tutti la Nigeria, il Paese africano più ricco, la quale teme che l’accordo possa, in realtà, rivelarsi controproducente per la propria economia, in particolare per il settore manifatturiero. Ma il maggior problema da risolvere resta la scarsità di infrastrutture adeguate. Quasi l’80% delle merci viaggia, infatti, su strada (Olivo F., La Stampa del 3 gennaio 2021), in Paesi dove la rete viaria è, molto spesso, non asfaltata e priva di manutenzione. L’assenza, inoltre, in molti Stati di porti, aeroporti e ferrovie, rischia di generare oltre che difficoltà nella movimentazione dei prodotti scambiati, anche differenze economiche tra territori che sono dotati di adeguate strutture e territori nei quali queste sono carenti, incrementando ulteriormente il gap di ricchezza fra i diversi Stati e creando malumori, che nel lungo periodo potrebbero portare in cattiva luce un trattato nato con le migliori intenzioni (Brexit docet).
Due regioni diverse e due diversi trattati, ma, alla base di entrambi, un solo obiettivo: il raggiungimento della piena libertà di commercio.
Se questi due grandi accordi porteranno effettivamente i benefici oggi auspicati e decantati, solo il futuro lo potrà rivelare. Quel che è certo è che il libero scambio e la globalizzazione sono concetti non ancora defunti, malgrado le numerose critiche da questi suscitati negli ultimi anni, e rappresentano, all’opposto, strumenti sui quali ancora molti governi puntano per accrescere la loro ricchezza. Governi di Paesi che hanno iniziato il loro percorso di sviluppo e crescita solo recentemente, ma con i quali Europa e Stati Uniti dovranno d’ora in avanti prepararsi ad accettare di condividere il palcoscenico mondiale, senza restare a guardare senza agire per farsi poi cogliere impreparati, ma cercando di sfruttare al massimo queste nuove opportunità di maggiore libertà.