In Irlanda del Nord tornano ad esplodere la violenza e gli scontri fra cattolici e protestanti e si teme un ritorno ai sanguinosi anni di guerra civile
Era il 9 aprile del 1998, all’epoca giorno del venerdì santo, quando venivano firmati gli Accordi che ponevano fine alla lunghissima stagione di guerriglia urbana e violenza che aveva insanguinato l’Irlanda del Nord dal 1968.
È il 9 aprile 2021 e la spirale della storia pare, purtroppo, essersi avvolta su se stessa, questa volta per ripresentarsi nelle sue vesti più tetre. Belfast torna a bruciare, accesa dalle fiamme di molotov e petardi lanciati dai manifestanti contro i mezzi delle forze dell’ordine.
Di nuovo si vedono persone impegnate in atti di vandalismo, veicoli ribaltati, negozi assaltati, finestre delle abitazioni frantumate per potervi scagliare all’interno bombe incendiarie. Di nuovo lo spettro dei muri a dividere i quartieri dei protestanti da quelli dei cattolici, che aleggia più tangibile che mai. Non si parla solo delle barricate fisicamente erette a tappezzare le città durante il trentennio di guerra civile, le Peace Lines, in difesa dell’uno e dell’altro gruppo, lasciate in piedi dopo l’apparente pacificazione in memoria dei tempi passati, ma anche in attesa del ritorno degli scontri. Si parla soprattutto delle barriere sociali, solo illusoriamente abbattute dagli accordi del ’98, ma nella realtà dei fatti mai superate, con la gente che fin dall’infanzia cresce in un ambiente fortemente diviso fra cattolici e protestanti, con gli uni e gli altri che frequentano asili diversi, parchi giochi diversi, quartieri diversi, e con l’idea di evitare ogni contatto con persone di fede rivale, dalle amicizie agli amori. Così si plagia la mente dei ragazzi modellandola sull’odio verso chi appartiene alla fazione opposta e così si impedisce ai muri di crollare e all’astio e alla violenza di spegnersi.
Già, perché, cosa ancor più tragica di questo ritorno della storia che non si vorrebbe più sentire, è che, di nuovo, ad essere coinvolti nelle manifestazioni sono proprio i ragazzi. Adolescenti, ragazzini, la stampa britannica parla di teenagers di 12 – 13 anni fra le fila di coloro che hanno partecipato agli assalti notturni e al lancio di petardi e molotov contro le forze dell’ordine. Un coinvolgimento dei più giovani che fa tornare in mente un poster che adornava le pareti degli edifici della Belfast insanguinata dalle lotte fratricide degli anni ’60, raffigurante il volto di un bambino con indosso una maschera antigas.
La partecipazione alle proteste da parte dei più giovani dimostra come l’odio fra cattolici e protestanti e le divisioni all’interno della popolazione Nordirlandese siano ben lungi dall’essere superati e come questa parentesi di apparente pace si reggesse su basi assai fragili. Le nuove generazioni sono, dunque, cresciute in un’atmosfera di ostilità verso il diverso e di barriere psicologiche e fisiche che hanno contribuito ad accentuarla. Inoltre, loro non hanno vissuto il triste periodo della guerriglia civile, la stagione dei “Troubles”, come sono soliti definirla gli irlandesi, e non hanno provato sulla loro pelle il disagio e il terrore che si respiravano in quegli anni, quando chi usciva di casa non era sicuro di farne rientro. Non hanno idea di cosa significhi un’esistenza resa continuamente aleatoria dal rischio degli attentati, una vita sempre sul filo di un acrobata.
Ma, allo stesso tempo, non si può incolpare unicamente i ragazzi per le loro scelte, specialmente i più giovani. Infatti se i minori sono coinvolti è perchè qualcuno li sta manovrando, qualcuno li sta plasmando. In particolare si ritiene che dietro il coinvolgimento dei giovani vi siano gli esponenti dei gruppi paramilitari più infervorati, come l’Ulster Volunteer Force o l’Ulster Defence Association, di sponda lealista. La chiamata alle armi è, in effetti, dilagata sui social e la volontà di accendere gli animi è stata piuttosto evidente. E subito è giunta la denuncia da parte del governo di Belfast, il quale ha condannato come sopruso e sfruttamento di minori questo fatto, con le parole del commissario per l’infanzia Koulla Yasouma (Gaiardoni Andrea, Il Bo Live del 12 aprile 2021).
Si deve, però, fare qualche passo indietro nel tempo per giungere al momento in cui il terrore è tornato ad oscurare i cieli irlandesi.
I disordini, infatti, sono, in realtà, iniziati già dal 29 marzo e hanno coinvolto anche altri importanti centri del nord dell’isola, oltre alla capitale, quali Londonderry, Ballymena, Newtonabbey e Carrickfergus (Gaiardoni Andrea, Il Bo Live del 12 aprile 2021).
A fomentare e manovrare i fili dei manifestanti vi sono i gruppi rivoltosi dei protestanti lealisti, i quali, dopo aver già minacciato ripetutamente il ritorno agli attentati e alla violenza, sono esplosi a seguito dei funerali di Bobby Storey, ex comandante dell’IRA, l’esercito per la liberazione e l’unificazione dell’Irlanda, svoltisi in estate e ai quali avrebbero partecipato più di 2000 persone, tra le quali alcune facenti parte del partito dei conservatori unionisti Sinn Fèin. A destare la rabbia dei lealisti è stata la mancata denuncia da parte del capo della polizia di Belfast verso i partecipanti alla celebrazione, malgrado questi ultimi fossero platealmente venuti meno alle restrizioni e ai divieti imposti contro la pandemia.
Questo fatto non può, tuttavia, essere la vera causa del ritorno alle rivolte e le ragioni che hanno riacceso gli antichi dissapori fra lealisti e unionisti sono da ricercare altrove.
Certo non era necessaria una gran scintilla per far riesplodere la crisi all’interno di un popolo che non ha mai trovato veramente la pace e l’unità. Gli Accordi del ’98, malgrado l’apparente calma a cui avevano abituato, sono stati solo un momentaneo tampone, ma i dissidi fra cattolici e protestanti non si sono mai acuiti e, forse, non lo potranno mai essere.
Gli irlandesi: la fierezza di un popolo
Quello degli irlandesi, infatti, è un popolo fiero e testardo, come ci insegna la storia, a tal punto determinato da non volersi mai sottomettere al vicino inglese. Gli abitanti dell’isola non solo dimostrano un grande attaccamento ai loro costumi, ma anche una fervida devozione nel professare il loro credo, principalmente il cattolicesimo, molto diffuso al sud, tanto che l’Irlanda è attualmente una delle Regioni dalle quali proviene il maggior numero dei sacerdoti cattolici. Malgrado vi siano tesi che sostengono come gli irlandesi professino il cattolicesimo solo perchè questo avvicinerebbe loro maggiormente al Continente Europeo, nel quale spererebbero di ritrovare un sostegno nella lotta all’emancipazione definitiva dalla Gran Bretagna, e benchè non sia corretto considerare la religione come sola e più importante causa della divisione nell’Irlanda del Nord, la diversità di fede contribuisce comunque a rendere difficoltosa la ricerca di una soluzione agli scontri fra gruppi opposti. Anche qualora si appoggiasse la teoria secondo cui la religione sarebbe solo una divisione di facciata, netta appare la frattura fra cattolici e protestanti sono, questi ultimi maggiormente relegati nel nord del Paese, in particolare nel territorio denominato Ulster e comprendente tre delle sei contee nelle quali è suddivisa l’Irlanda del Nord, uno stato generato artificialmente nel 1922, dopo la fine della guerra di indipendenza contro gli invasori inglesi.
Proprio dal 1922 si è, di fatto, creata questa dicotomia all’interno del popolo irlandese, fra coloro che volevano un’Irlanda unita e cattolica, gli unionisti appunto, contrari a qualsiasi ingerenza da parte dell’Inghilterra, e coloro che, invece, erano favorevoli a far parte della Gran Bretagna e fedeli al governo inglese, i lealisti protestanti.
Divisione dalla quale è successivamente nata la triste stagione dei Troubles, i “problemi”, come è stato definito il lunghissimo periodo di scontri e attentati che dal 1968 si è protratto fino al 1998. Definizione quella di “troubles” e, soprattutto, traduzione, che ben poco rende l’idea della vera entità di queste violenze, le quali hanno portato a più di 3000 morti, per non parlare dei feriti e dell’atmosfera di assoluto terrore nella quale si viveva, culminata con il tragico evento del 30 gennaio 1972, giorno ricordato come The Blody Sunday, nel quale alcuni paracadutisti dell’esercito britannico hanno aperto il fuoco su un corteo di civili cattolici.
Con il ’98 si era arrivati, in estremis, ad un accordo che aveva permesso di bilanciare la situazione nell’Irlanda del Nord, prevedendo un governo nel quale i poteri fossero equamente suddivisi fra il partito del Sinn Fèin (“noi stessi” in gaelico), unionista e votato alla ricongiunzione fra l’Ulster e l’Eire, e il partito del DUP, Democratic Union Party, lealista e fedele, al contrario, a Londra. Una formula che prevede, dunque, che se il primo ministro è protestante e lealista, il suo vice deve essere cattolico unionista. Con il tempo la situazione ha reso possibile anche l’abbattimento del confine fra le due Irlande e l’incremento degli scambi commerciali fra Nord e Sud dell’isola, fondamentale per la crescita economica di entrambi i territori. Non va poi dimenticato che, malgrado quanto appare dalle cartine geografiche, la dimensione dell’Irlanda del Nord rispetto all’Irlanda non deve trarre in inganno, avendo la prima un notevole peso, sia dal punto di vista economico, sia da quello demografico, sull’intera isola.
La reale causa del ritorno alla violenza
Negli ultimi mesi, però, causa anche la pandemia e l’insicurezza dovuta alla Brexit e alle incerte nuove regole che sarebbero entrate in vigore dopo l’uscita della Gran Bretagna e, di conseguenza, dell’Irlanda del Nord, dall’Unione Europea, la situazione economica era tornata a peggiorare e proprio il mantenimento della libertà di scambio fra la parte settentrionale e quella meridionale dell’isola era ritenuto fondamentale per il proseguimento della flebile pace raggiunta con gli Accordi del venerdì santo e per evitare che si tornasse a questa guerra a bassa intensità.
Tuttavia sia i diplomatici inglesi, sia, soprattutto, quelli di Bruxelles, pare non abbiano saputo cogliere fino in fondo questa questione e i pericoli che vi si insidiavano.
Se da un lato Theresa May prima e Jhonson poi hanno cercato in diversi modi di evitare il ripristino del confine fra Irlanda del Nord ed Eire, ben consapevoli delle barriere molto più pericolose che questo fatto avrebbe fatto rialzare tra le due popolazioni, i rappresentanti dell’Unione Europea si sono dimostrati i più sordi alle richieste che provenivano da Londra, e i più ciechi di fronte ai pericoli che la loro ottusità e la loro testardaggine, in questo caso, si può dire, con nulla da invidiare a quella degli irlandesi, avrebbero provocato.
Ecco, dunque, essere giunti a quella che probabilmente può essere definita come la vera goccia che ha fatto traboccare il vaso e ha rotto il delicato equilibrio che si era riusciti a mantenere per 23 anni nell’Ulster: la Brexit e le nuove regole di scambio fra le due Irlande.
Infatti, se da un lato Jhonson è riuscito a strappare un accordo che ha evitato la rinascita di un confine fra il nord e il sud dell’isola, la barriera doganale è, in realtà, semplicemente stata spostata dalla terra al mare. Il confine è stato, infatti, eretto fra Irlanda del Nord e Gran Bretagna, dato che la prima è rimasta nell’Unione Europea, mentre la seconda ne è uscita. In tal modo, tra Irlanda del Nord ed Eire la circolazione delle merci continua ad essere libera, ma lo stesso non si può dire fra Gran Bretagna ed Irlanda del Nord, tra le quali vigono le medesime regole e imposizioni di controlli doganali previste per le merci che viaggiano dal Regno Unito ai territori dell’UE e viceversa. Questo ha comportato un rallentamento degli scambi fra la Gran Bretagna e l’Irlanda del Nord, dovuto ad una maggiore burocrazia, con la conseguenza di portare anche il prezzo della merce ad incrementare notevolmente, cosa sicuramente non positiva per un’economia già in difficoltà come quella nord irlandese. Addirittura in molte città dell’Ulster si è assistito, nei giorni che hanno preceduto la brexit, a veri e propri assalti ai supermercati e ai centri commerciali per fare scorta di prodotti ed evitare il rischio di mancanza di approvvigionamento che si temeva l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea avrebbe portato e, nei giorni successivi, come si era pronosticato, una grave penuria di numerosi prodotti importati dall’Inghilterra.
Tutto ciò ha provocato l’incremento del malumore all’intero della popolazione del Nord Irlanda, malgrado il 55% di essa avesse votato a favore della Brexit, anche se i sondaggi successivi avevano affermato che l’idea di lasciare l’Unione Europea non paresse più così allettante. Da un lato, quindi, vi sono i lealisti, i quali si sono sentiti traditi da Londra e da Jhonson in particolare, dato che il premier britannico aveva assicurato che lo spostamento della barriera doganale in mare avrebbe evitato controlli e restrizioni negli scambi, mentre la situazione attuale vede i porti di Belfast e altre città costiere trasformati in veri e propri uffici doganali, frementi nell’applicare alla lettere le ferree regole imposte dall’accordo con Bruxelles. Inoltre, questo venir meno alla parola data, ha reso ancor più Londra distante agli occhi dei protestanti, i quali si sono sentiti lasciati completamente in balia delle mire degli unionisti, che sperano di sfruttare la situazione per ottenere finalmente il ricongiungimento con il sud.
Dall’altro lato, comunque, non si può dire che la Brexit sia piaciuta maggiormente ai cattolici unionisti, i quali, malgrado la possibilità di trovare un più largo consenso alla loro causa e avvicinarsi maggiormente all’Eire, non di meno dei lealisti si sono trovati in difficoltà nell’affrontare la nuova situazione e non hanno, certo, apprezzato il trattamento imposto da Londra, ben consapevoli dell’importanza che rivestono gli scambi commerciali con la Gran Bretagna, malgrado la loro volontà di esserne indipendenti. Subito si è alzata dal loro lato l’accusa verso il governo lealista di essersi fatto sedurre troppo facilmente dalle false promesse di Londra.
Ora sia Londra che Bruxelles hanno cercato di correre ai ripari, promettendo un adeguamento alle regole doganali solo trascorsi cinque anni, anche se da parte europea rimane una quanto mai discutibile decisione nel voler far applicare il rigido regolamento a tutti i costi, quasi fosse una questione di onore. Ma, come detto, gli irlandesi sono un popolo testardo e le promesse tradite non possono essere riconciliate con tentativi poco credibili di fare marcia indietro. Per cui le parole di Jhonson non sono di certo servite a far tornare la calma e a rasserenare i manifestanti.
Diplomatici inglesi ed europei forse non hanno compreso la vera entità del rischio che correvano nel riproporre un confine fra le due Irlande, ingannati dal presunto superamento delle divisioni interne all’isola. Non hanno probabilmente analizzato a fondo l’ideologia di questo antico popolo e, di conseguenza, non hanno compreso quanto profonda sia la divisione che lo consuma da decenni.
Le manifestazioni degli ultimi giorni possono si essere portate da fatti recenti, ma la verità è che l’unificazione della gente irlandese è ancora un sogno, ben lontana dall’essersi concretizzata. E se al momento la situazione pare essersi calmata, la guardia non deve essere abbassata. Data la disumana ferocia dimostrata dai manifestanti, quella di questi giorni appare non tanto come la fine dei disordini, ma piuttosto come la quiete prima della tempesta.