Al 24°Far East Film Festival nella sezione “Odd Couples: Love is a Souvenir”, è stato proiettato il cult di Samuel Fuller. Inserito all’interno di una rassegna dedicata alla rappresentazione dell’Asia nel cinema occidentale, il film, uscito nel’59, segnò l’esordio del divo asiatico americano James Shigeta. Attore di importanza pari a Sessue Hayakawa (prima star orientale del cinema americano nell’epoca del muto) e a John Lone negli anni ’80. L’interprete è stato doppiamente omaggiato dalla retrospettiva, in cui è comparso anche Bridge on the Sun, una delle pellicole più importanti della sua carriera.
The crimson kimono è un buddy-movie dalle atmosfere pulp in bilico tra noir e romance-drama. Charlie Bancroft (Glenn Corbett) e Joe Kojaku (Shigeta) sono due detective che indagano sull’omicidio di una spogliarellista avvenuto nel quartiere giapponese di Los Angeles. Prima dell’assassinio la donna stava preparando un nuovo show: un lento strip-tease in kimono in cui è contesa tra un samurai e un karateka. Da un bozzetto preparato per il numero che ritrae la defunta ballerina come una geisha, gli investigatori risalgono alla pittrice Christine Downs (Victoria Shaw). È l’inizio di un triangolo amoroso che metterà a dura prova l’amicizia tra i due detective.
Affacciarsi sull’Oriente
Fuller ha sempre avuto un occhio di riguardo verso i paesi orientali. Prima di questo film aveva realizzato The steel helmet e China Gate, rispettivamente dedicati alla guerra in Corea e al conflitto in Indocina. Ma anche il poliziesco ambientato a Tokyo House of Bamboo, dove l’alternarsi di thrilling e sentimentalismo nella narrazione ricordano molto l’opera esaminata. Se i film sopracitati mostrano l’uomo occidentale innestarsi con violenza nei territori orientali qui il regista si concentra sulle contaminazioni asiatiche della cultura americana. È emblematico che Charlie sia sopravvissuto alla guerra di Corea grazie a una trasfusione di sangue da parte di Joe. L’americano ha sangue asiatico nelle vene e pratica arti marziali assieme al collega giapponese. La parata in cui si svolge l’inseguimento finale per catturare l’assassino esplica in maniera significativa questa contaminazione. Musiche occidentali si mescolano a motivetti orientaleggianti in un unico sgangherato marasma sonoro tra cheerleaders e maschere kabuki.
Il regista mostra una predilezione per i long takes dai complessi movimenti di macchina in cui il piano dominante è quello dell’inquadratura a due. Kojaku e Bancroft nello svolgere le indagini si spartiscono sempre il rettangolo dello schermo. Nel lungo dialogo in cui emerge l’affetto che Joe e Christine provano l’uno per l’altra i due personaggi sono perennemente in campo. Le scene che vedono insieme queste coppie di personaggi sono articolate in piani sequenza che rimarcano ancora una volta la stretta connessione tra oriente e occidente. Al contrario l’incontro che segna la folgorazione di Charlie per la pittrice ricorre al campo e controcampo. Come a segnalare una distanza, un certo distacco, preannunciando un sentimento non ricambiato da parte della ragazza.
Lo sguardo dirompente di Samuel Fuller
All’epoca il film fu considerato coraggioso e innovativo perché per la prima volta sullo schermo un asiatico riusciva a conquistare l’amore di una donna americana.
In realtà l’arditezza del film sta nel criticare dall’interno l’immagine dell’Asia che l’occidente ha costruito. Joe Kojaku è un Nisei: un giapponese nato in terra straniera, è un sottoprodotto della cultura occidentale. In altre parole è un americano a tutti gli effetti. In più soddisfa quel gusto per l’esotismo, tipico dell’atteggiamento colonialista, che tanto piace agli occidentali di un certo cinema un po’razzista di quegli anni. Si pensi a quei filmacci in cinemascope ambientati nella savana e dal sapore britannico come Odongo. Joe riesce a conquistare Christine perché è nato su suolo americano e, in più, appaga la fascinazione di lei nei confronti dello straniero. Insomma, questa love-story in apparenza radicale è stata digerita dal pubblico più conservatore perché legittimata in qualche modo dall’occidentalizzazione del personaggio di Shigeta.
Si rischia di cadere nel razzismo?
La pellicola riflette su come l’ovest abbia inglobato usi e costumi di un patrimonio intellettuale che non gli appartiene, piegandolo e distorcendolo. Non è un caso che il dramma amoroso che domina il film sia contenuto in nuce nella farsa burlesque che la defunta ballerina stava preparando. Come non è un caso che i combattimenti a colpi di karate o le botte da kendo risultino così grossolani e stereotipati. L’associare la storia del film ad un numero di spogliarello la dice lunga sulla considerazione che il regista ha del pubblico e dell’oggetto-film. Fuller tratta consapevolmente la vicenda con la stessa ingenuità con cui la sensuale danzatrice tratta i costumi orientali. Dichiarando che una società minata dal razzismo sarà fatalmente destinata a portare alla luce prodotti innocentemente razzisti.