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Molto spesso nella vita ci troviamo di fronte a posti che non sanno di nulla. Luoghi che non hanno quasi nessuna peculiarità per essere ricordati: non un particolare, non una emozione, nessuna sensazione da immagazzinare. “Funzionano”, ma sembrano persi. Dispersi in un mare indistinguibile di luoghi che servono al loro scopo, senza riflettere, senza rimanere davvero. Rispondono alla più grande religione di questo secolo: la velocità.

Mangia, ma fallo velocemente. Leggi, ma velocemente. Gioca, ma veloce che domani esce Call Of Duty: Ventordici . Consuma, ma fallo in fretta.

Scoprire il nuovo cacciando ricordi

Ora non voglio farvi un pippone mastodontico sul turbo capitalismo o su quanto sia brutto e cattivo il consumismo, ma nel mondo videoludico il fenomeno appena descritto è lampante se guardiamo gli ultimi 30 anni. E se per quanto riguarda i videogiochi in senso stretto, abbiamo picchi di eccellenza ed originalità, non possiamo assolutamente dire la stessa cosa per chi i videogiochi li vende. Pensateci: dove avete preso l’ultimo videogioco fisico che possedete? Amazon? Euronics? Il malvagio Game Stop?

Già ed è proprio qui che comincia la storia che voglio raccontarvi, o meglio che vi farò raccontare. Eh già, oggi per la nostra rubrica gaming ho voluto portare un ospite: Marco Gemmetto, nato il 26 febbraio del 1986, è un personaggio, come si direbbe dalle mie parti, ma soprattutto è qualcuno che ha deciso di creare un rifugio per videogiochi e videogiocatori. Il vero 4 The Players, altroché Sony.

Incontrai Marco per caso, anni fa. Mi stavo riavvicinando al mondo del gaming dopo aver messo il joypad in pausa per qualche anno e volevo acquistare una Playstation 4. Mi mancavano quelle splendide sensazioni della mia infanzia pad alla mano e le stavo cercando: serviva un negozio. Game Stop per etica personale lo evitavo come la peste, mentre brancolavo nel buio tra le grosse catene di elettronica. Poi un amico (sempre quello che ha sponsorizzato questa recensione) mi fa “guarda che esiste un posto pazzesco ad Ostellato”: ora per chi non fosse esperto in geografia della bassa ferrarese, Ostellato non è esattamente il centro del mondo per usare un eufemismo. Diciamo che “sperduto nella campagna ferrarese lungo la super che porta al mare” sia la definizione più corretta. Così, prendo la macchina e vado sul posto.

Ed eccolo lì: il Game Over – Video & Games.

Potrei raccontarvi per molte righe le mie sensazioni di quando varcai la soglia la prima volta, ma voglio che a raccontarvi la storia di quel negozio diverso, isola in un mare di conformismo, sia proprio chi l’ha costruito.

L’ingresso del Game Over, qualche anno fa.

Insert Coin

Ciao Marco, non vorrei sembrarti banale, ma la domanda è di rito: quando hai iniziato a maturare la passione per i videogiochi? C’è stato un titolo che ti ha fatto dire “non sono solo poligoni che si muovono a schermo”?

Beh ho iniziato davvero da piccolo. Sono dell’86 e ricordo che avevo circa 4 o 5 anni. In quel periodo, mio zio lavorava in alcuni uffici dove stavano sostituendo i computer aziendali e così un giorno si presentò da me dicendo: “questo lo dovrei buttare, se volete tenetelo voi”. Era un Amiga Commodore.

Una macchina potente, nonostante alla fine del proprio ciclo vita sul mercato.

Assolutamente. Oltre a quello mi consegnò un pacco enorme di floppy disk, o meglio, un pacco pieno di videogiochi. Cominciai a giocare: titoli splendidi come Cannon Fodder, Street Fighter II o Alien³. Rimasi completamente affascinato da quel mondo, tanto che mi misi persino a smanettare con la workbench per costuirmi i primi programmini di base. Non contento, pochi anni dopo distrussi i nervi dei miei genitori per farmi comprare il leggendario Sega Mega Drive con Sonic III. Fu amore a prima vista: passare dai seppur ottimi titoli dell’Amiga a quella velocità di gioco e a quel mondo di colori…rimasi davvero incantato.

Un vecchio floppy disk di Cannon Fodder per Amiga. Pezzi di storia videoludica.

Immagino il paese dei balocchi per un bambino di quell’età.

Era una cosa rara per l’epoca, anche perché non era per nulla facile avere un computer in casa e giocare. I giochi solitamente li si vedevano da un amico, ai vecchi negozi di videogiochi o nelle sale arcade. Tutto era più di nicchia, di sicuro non c’era Internet per come lo conosciamo oggi e i videogame erano merce rara.

Anche io ho un ricordo simile degli anni ’90: si frequentavano gli amici “fortunati” che avevano quella determinata console o quel determinato gioco per poterci entrare in contatto. Si può dire che videogiocare fosse più genuino un tempo?

Non so se più genuino, ma di sicuro era passione vera. Dovevi proprio voler giocare. Ad esempio, quando giocavo a Street Fighter II sull’Amiga c’era un via vai di floppy per poter anche solo fare una fight di quanto? Uno o due minuti? Occorreva caricare dai 2 ai 3 floppy per fare il boot dell’intero gioco. Oppure ricordo che a quell’età i miei mi davano la mancia e potevo scegliere se spenderla in gelati o in gettoni. Io ovviamente sceglievo sempre i gettoni, rinunciando a tutto il resto.

Già, forse si giocava con una velocità ed un tempo totalmente diverso o sbaglio?

Se c’è una cosa che è cambiata al giorno d’oggi è proprio la velocità, la frequenza con cui giochi. Un gettone da spendere in sala giochi valeva una partita e quel gettone te l’eri guadagnato. Quindi avevi tutto il tempo del mondo, ma una frequenza di gioco molto ridotta: dovevi diventare bravo per forza, per non spendere troppi gettoni. Ogni partita volevi farla durare il più a lungo possibile.

L’iconica schermata di battaglia di Street Fighter II.

Start Game

Veniamo al sodo. Quando hai cominciato a fare dei videogiochi un lavoro? Come ti è venuta l’idea?

Dopo una seria dipendenza data dalla prima Playstation ed una pausa all’età “motorino”, ho accettato un’offerta di lavoro del Game Stop di Comacchio.

In bocca al nemico insomma.

Già. Il lavoro fu croce e delizia, ma mi consentì di capire che lavorare con il pubblico mi piaceva, nonostante la piazza fosse un po’ particolare. Il caso ha voluto che la vecchia videoteca indipendente del mio paese, Ostellato, stesse cedendo l’attività proprio in quel periodo. Si accese una lampadina nella mia testa. Se avessi rilevato l’attività, avrei potuto aprire un negozio di videogiochi old school, con le mie idee, con la mia filosofia. Ricordavo infatti che negozi di quel tipo erano spariti con l’arrivo delle grandi catene. Quelli dove chi li gestisce è un appassionato che ti consiglia o che ti fa provare i giochi. Centri di aggregazione dove vai e rimani a parlare per ore fino a creare dei legami di amicizia. Mi era rimasta la nostalgia di quei luoghi e così colsi l’occasione al volo nel settembre del 2013.

Un altro angolo del Game Over risalente a qualche anno fa.

Pensa che cosa ha scatenato un Game Stop. Forse la domanda risulterà stupida: in cosa ti senti diverso dagli altri negozi? Hai risentito molto della concorrenza?

Devo dire che all’inizio mi sentivo accerchiato e soffrivo abbastanza la concorrenza di catene come appunto il Game Stop o il Game People. Sembrava dovessero aprirne uno al giorno.

Uscivano dalle fottute pareti”.

La sensazione era quella. Ho quindi cominciato a destreggiarmi sulle lacune che loro lasciavano, come riparazioni e retro gaming. E devo dire che ha funzionato. Dopo un inizio in affanno, ho deciso di sedermi sulla riva del fiume ed aspettare che passassero i loro cadaveri.

Un po’ macabro, ma saggio.

La concorrenza quindi si è smaltita parecchio (speriamo che vada sempre così) e dopo qualche anno ho iniziato a costruire la mia identità di negozio indipendente. Ci hanno provato diversi franchise a comprarmi vedendo il buon andamento del negozio, ma io ho deciso che voglio condurlo con le mie idee, pro e contro inclusi. E se proprio devo dirlo, la cosa per cui mi sento diverso dagli altri è per il lato umano: i miei clienti sono persone, non numeri. Quando un cliente varca la soglia, voglio metterlo a suo agio e capire il perché sia venuto fino al mio negozio. Il Game Over non sta in un centro commerciale dove ti fermi perché sei di passaggio, ci devi proprio voler venire appositamente. Per me è una questione etica, quasi morale.

Marco chiacchiera con un cliente durante un evento in negozio.

Score

Marco, dopo questa avventura ancora in corso, credi serva essere esperti in videogame per avere un negozio come il tuo? Ti senti esperto?

Non sono il tipo di persona che tende a mettersi su un piedistallo, ma lasciamelo dire in questo ambito posso mettermici assolutamente. Ho giocato davvero di tutto nella mia vita, senza snobbare nessun genere. Forse perchè ho vissuto a cavallo di tutte le ere videoludiche moderne: ho visto di tutto. Poi sono anche stato un collezionista a livelli davvero importanti e questa esperienza mi ha portato a capire cosa c’è nella mente di un appassionato. Non nego lo sforzo che ho dovuto compiere a vendere alcuni pezzi, ma fa parte del gioco e va bene così.

Immagino non sia stato per nulla facile. Allacciandomi a quanto hai detto, tu che le “epoche” videoludiche moderne te le sei fatte tutte, pensi che in Italia sia stata maturata una coscienza videoludica reale? Le notizie recenti non fanno ben sperare, tra il caso CocaWeb e Lan Gate

Guarda sfondi una porta aperta, ne abbiamo parlato proprio in alcune dirette Facebook sulla nostra pagina. Non voglio fare polemica sterile, ma parlo con cognizione di causa: credo che in Italia chi occupa i posti di potere non abbia alcun interesse o conoscenza del settore. Forse per questione di età, forse per pregiudizio.

Probabilmente l’età è un fattore, ma credo che con un minimo di accompagnamento anche le generazioni meno avvezze al medium possano comprendere. Penso ai miei che hanno capito il valore dei videogiochi solo previa spiegazione.

Esattamente. Serve che qualcuno gli mostri cosa nasconde quel mondo a loro sconosciuto. E non è vero che non lo possono capire, ma gli va spiegato. Noi ci siamo nati dentro e ci viene naturale. Però non gliene faccio una colpa: il fatto è che la società italiana ha sempre ostracizzato il mondo dei videogame. Pensiamo al “fenomeno” che ha pubblicato CocaWeb. Una totale ignoranza, va capito se voluta o meno.

Quindi per te c’è una diffidenza ancora forte?

Beh in Italia, cocaina, festini malavitosi e Playstation stanno sullo stesso livello per molti.

Praticamente diventi un narcotrafficante appena sollevi il pad. Ma gli ESports sembra possano cambiare le regole o sbaglio?

Noi arriveremo quando anche quel mercato sarà spolpato. Francia, Germania, Inghilterra stanno già investendo tantissimo. Un classico del nostro paese purtroppo.

Mi duole concordare su questa cosa. Come possiamo cambiare questo trend?

Di sicuro non dobbiamo demonizzare la cosa, ma allo stesso tempo va detto anche che molti giovani vengono lasciati a se stessi dalla nuova generazione di genitori. E questo dà corda ai detrattori del nostro settore. Lo vedo spesso dalle dinamiche in negozio e molti genitori non si informano minimamente su cosa il figlio voglia giocare. Al giorno d’oggi si corre sempre e vieni circondato da una montagna di tecnologia alla portata di tutti: se nessuno ti spiega come funziona o traduce per te questa complessità, come può un ragazzino di 10 anni capirci qualcosa? Non siamo più ai tempi del Commodore 64, quindi a rischio zero. Che cavolo potevo farci se non giocare o fare qualche programmino?

Al massimo spaccarlo.

Effettivamente un pericolo c’era: quello fisico. Ma ironia a parte, dovrebbe essere impiegato molto più tempo per educare chi deve educare. Ci vuole molta più attenzione.

Uno specchio di Italia videoludica: da un estremo il dogma, dall’altro l’anarchia totale, corretto?

Sì, le nuove generazioni vengono travolte totalmente.

Uno degli angoli dedicati al retro-gaming con titoli per Sega Mega Drive.

Hai notato un’evoluzione o differenze nella clientela in questo marasma?

Lavoro da 15 anni in questo settore, tra l’esperienza al Game Stop e l’avventura con il Game Over e posso assicurarti che all’inizio chi accompagnava i ragazzini a comprare si informava molto di più. C’era più interesse ecco. Ti faccio un esempio: usciva il nuovo Grand Theft Auto e mi capitava spesso il genitore che mi diceva “vorrei questo”. Io gli facevo notare che non è un gioco propriamente adatto ad un ragazzino di otto anni e a quel punto mi chiedeva consiglio su quale potesse essere un altro titolo valido. La stessa scena oggi è diversa: “voglio questo, tanto mio figlio è abituato”. Abituato? Ha cinque anni ed è abituato? Ma chi l’ha abituato? Sbaglierò io ma francamente non capisco. Per me è aberrante questa desensibilizzazione alla violenza e questa mancanza di filtri per qualsiasi ambito: non so da cosa dipenda in realtà.

Capisco, ma è un problema vastissimo che va oltre i videogiochi. E tu a quel punto che cosa fai?

Ah io non glielo vendo. Si tratta di un tema che mi interessa molto: è una mossa controcorrente, ma la mia etica mi spinge a fare questo, anche a costo di perdere una vendita. Lo comprerà su Amazon. Aggiungo anche che è cresciuta moltissima la pretesa e la cattiveria della clientela: la gente si è incattivita, soprattutto dopo questi due anni di pandemia. Se non riesci a soddisfare la richiesta sono guai.

Una scelta morale che vince su quella economica. Credo sia anche un modo di fare cultura.

Il mio obiettivo è quello. Ovvero creare una bolla di tranquillità dove è possibile discutere e maturare la propria coscienza videoludica, senza scadere nella malinconia. Non è bello solo ciò che c’era una volta, è bello anche quello che c’è ora ma ti ci devi approcciare nella maniera giusta. All’inizio mi ero imposto questa missione, un po’ boomer, di far riscoprire le vecchie glorie piuttosto che la roba nuova: metti via Call Of Duty, giocati Crash Bandicoot. Poi però mi sono arreso: non funzionava molto spesso. Anche se qualcuno l’ho convinto.

Alcuni avventori del Game Over durante un torneo. Chissà quanti saranno stati convinti da Marco a comprare un gioco per Famicom piuttosto che per l’ultima console uscita. Si scherza ovviamente.

Continue?

Veniamo ad argomenti più leggeri, anche perché sto assumendo toni Marzulliani. Qual è il gioco che hai venduto di più?

Minecraft.

Non è un caso, si tratta del gioco più venduto di tutti i tempi.

Già, me ne comprano ancora oggi.

So che spesso facevate tornei prima della pandemia. Quanto è difficile catturare il pubblico per venire a giocare?

Dipende dal titolo. Se il titolo era competitivo e molto blasonato, bastava un post su Facebook ed un semplice passaparola per avere il negozio pieno. Se facevamo giornate evento per titoli di nicchia, era molto più difficile. Ci dovevamo sbattere un bel po’ di più diciamo. In generale abbiamo sempre avuto un bel riscontro: con i tornei di FIFA abbiamo dovuto creare dei gironi dividendoli durante la settimana. Tutto è molto più semplice durante gli eventi esterni come il FeComics&Games, ovviamente.

Lo stand del Game Over in trasferta durante un evento con Simona, moglie di Marco, in cabina di comando.

Qual è stato il momento più bello del Game Over?

Forse proprio al FeComics&Games, con lo stand proprio in centro. Ci siamo sentiti “grossi” perché la gente si fermava e ti riconosceva. Quello è stato davvero un momento bello perché la gente associava il nostro nome ad una realtà positiva.

Ultima domanda: piani per il futuro?

Stiamo pensando ad un ampliamento e durante l’estate vogliamo fare un bel restyling del negozio. Vorremmo dare una svolta nostalgic-green con i mobili in legno ed espandere moltissimo il settore retro gaming. Nei prossimi anni vogliamo andare in controtendenza e spingere tantissimo sul formato fisico: sempre più collector’s edition, edizioni speciali e retro gaming dedicate alla nicchia. Vogliamo diventare ancora più nerd. Correre dietro al mainstream e al digitale è impossibile per noi. E non ha alcun senso fare il Don Chisciotte, anche perché certi servizi sono troppo comodi per non usarli. Ci ritaglieremo la nicchia adatta a noi, un po’ come Nintendo, ma senza alzare i prezzi come fanno certi ambienti di retro gaming.

Il Game Over oggi.

Game Over

Se siete arrivati fino a qui, vi sarete fatti un’idea di che cosa sia il Game Over – Video & Games. Ed in questo fine partita, non so se posso trovare una giusta chiusura all’articolo.

Posso solo dirvi che quel negozio, per un appassionato, è come casa. Un angolo di mondo dove puoi sentire fermentare la tua passione. Passare a trovare Marco è come entrare in un varco spazio temporale non precisamente collocato sulla linea del tempo.

Il varco spazio tempo che porta al Game Over immaginato da Lorenzo Miola.

Ci troverete sensazioni che sanno di presente, di passato, ma soprattutto di futuro. Uno molto diverso rispetto a quello offerto dalla concorrenza. Un futuro dal gusto nostalgico, ma senza rimpianti, aperto al nuovo, proprio come lo era l’industria tra il 1990 ed il 2000. Un futuro dove ci sono persone, non clienti.

Perché quello che Marco ed il suo Game Over stanno facendo è farci una semplice domanda:

Ti ricordi del futuro?”

Ringrazio tantissimo Marco e Simona per il tempo dedicatomi e la loro disponibilità.

[Illustrazione e copertina di Lorenzo Miola]