Non c’è cosa, azione o attività più difficile del riparare. Soprattutto se si è costruito male o si è edificato bene ma si ha aspettato troppo per procedere con quei piccoli e doverosi lavoretti di manutenzione. Non c’è peggior cosa del dover per forza sistemare un qualcosa che prima era perfetto e che invece il tempo e la noncuranza ha guastato. Non sempre è colpa dei fattori di cui sopra, sovente interviene anche il caso, il fratello caos, e il cugino fato. Tutti e cinque si dilettano nella nobile arte della distruzione e della evoluzione, ma chi si adopera per riparare?
Ci pensa l’uomo con i suoi innumerevoli difetti, rischiando sempre di creare maggiore scompiglio. E così facendo si cade in quella trance di rassegnazione mista a esaltazione. Nell’uomo nasce un sentimento di orgoglio che sgorga dapprima in piccole e timide gocce per poi diventare un pericoloso fiume in piena. L’oggetto da riparare diventa una reliquia, un qualcosa di quasi etereo a cui spettano le migliori e più preziose attenzioni. Ma così facendo, il pover uomo non sa che sta solamente soffocando quella piccola cosa che merita un po’ di libertà e amore. Le mani forti e sicure dell’uomo rischiano troppo spesso di cadere in fallo e fare più danni del dovuto, ma almeno il tentativo c’è stato no? Almeno ha provato, di corsa, in affanno ma ci ha provato, questo gli va almeno riconosciuto. Ma ormai il danno è fatto, meglio lasciar perdere e concentrarsi su altro.
In Giappone esiste un’antica arte, quella del kintsugi (o kintsukuroi). Il kintsugi è l’arte di riparare la ceramica utilizzando lacca urushi e polvere d’oro, argento o platino mettendo in luce i difetti dell’oggetto anziché nasconderli. Questa tecnica, oggi apprezzata sia in Giappone che all’estero, è metafora di resilienza nel superamento di difficoltà ed esperienze dolorose. È un esempio di applicazione della filosofia del mottainai, ovvero evitare gli sprechi e dare una seconda vita alle cose. Le sue origini risalirebbero al quindicesimo secolo, quando lo shogun Ashikaga Yoshimasa avrebbe affidato a dei ceramisti cinesi la sua tazza da tè preferita, rotta, affinché venisse riparata. Insoddisfatto del risultato, avrebbe incaricato degli artigiani giapponesi di trovare una soluzione più gradevole. Il risultato è ciò che ora è noto con il nome di kintsugi.
Non sempre però il Kintsugi è la risposta a tutto, perché quello che si è rotto è qualcosa di più di un semplice oggetto, è la vita, la terra, la società. Il Kintsugi offre però un ottimo spunto da cui partire. Prendere atto del danno e cercare di ripararlo al meglio con il meglio che si ha a disposizione, con metodicità ed eleganza. Però non sempre il Kintsugi è una soluzione, qualche volta è anche doveroso lasciare tutto com’è, a pezzi, e ricominciare con occhio lungimirante sia per se stessi, che per l’ambiente e società in cui si è immersi, e un pizzico di fortuna.