Il 27 gennaio del 1945 l’esercito sovietico entrò ad Auschwitz e mostrò al mondo il male dei campi di concentramento: luoghi in cui ad essere annientati non erano solo gli ebrei e altri gruppi di persone, ma anche la civiltà tanto agognata a partire dalle antiche società a quella contemporanea. Durante il Novecento, infatti, bastarono pochi anni a calpestare e sottrarre senza troppi sforzi tutti i diritti riconosciuti all’uomo sin dal mondo greco a quello dell’Europa degli ultimi secoli. Il regime totalitario del nazismo si impegnò a influenzare le masse, a penetrare nella vita dei cittadini e a creare un sistema dottrinale coerente nella propria logica chiaramente fallace ma ben architettata da restare in piedi ed essere messa in discussione rare volte e da poche persone. Chiaramente, il nazismo, come altri totalitarismi e dittature, ha avuto la possibilità di infiltrarsi come un batterio nella società perché profondamente fratturata e debole, e in quelle fratture ha trovato l’ambiente adatto a proliferare e distruggere la struttura del sistema preesistente per imporre il proprio, l’unico possibile dopo la Prima Guerra mondiale, allo stesso tempo figlia e genitrice di nazionalismo e chiusura (elementi che non avrebbero mai potuto favorire la nascita di una democrazia).
Dopo Auschwitz sono nate riflessioni e analisi politiche ma anche di carattere etico-religioso che hanno sbrogliato le matasse novecentesche spiegando la genesi del male e, soprattutto, hanno tentato di creare un impegno collettivo per non dimenticare un genocidio senza precedenti perché estremamente preciso. Oggi come allora, infatti, coltivare la memoria dell’Olocausto significa in particolare rendersi conto che degli uomini siano riusciti a discutere a tavolino di uno sterminio e l’abbiano progettato con lucidità, producendo un orrore mastodontico e surreale, impossibile da immaginare e descrivere perché «al di fuori della vita e della morte» (H. Arendt, Le origini del totalitarismo). Tener viva la memoria vuol dire realizzare che per riuscire a escludere dalla società 6 milioni di ebrei, ai leader politici non sia servito ricevere molto: furono sufficienti ‘banali’ funzionari della morte, il minimo appoggio da parte di pochi individui e collaboratori e, infine, la passività di gran parte della società civile che si limitava a rispettare le leggi del tempo senza porsi troppe domande.
Attualmente, rispetto al passato, non è semplice che nasca un totalitarismo o che, in generale, si produca qualcosa che si avvicini all’assurdità nazista, ma siamo certamente più colpevoli dei nostri conflitti proprio perché abbiamo un trascorso di guerre e soprusi di cui non riusciamo ancora a guardare gli schemi scatenanti e a smettere di ripeterli. Una nostra colpa tutta nuova e attuale riguarda la mania che abbiamo di semplificare e fare paragoni tra questioni che solo all’apparenza sembrano speculari, ma in realtà alla base sono molto lontane tra loro, quindi si riaprono scenari divisivi: questi sì che sono elementi che non fanno sperare in epiloghi promettenti e, in particolar modo, ci fanno capire che la storia non è un vettore, perché il passare del tempo non va necessariamente di pari passo con il progresso e il miglioramento.
Basti pensare alla questione israelo-palestinese e lo sterminio degli ebrei: si tratta di due fenomeni diversi tra loro per organizzazione, tempi e ideologia. Gaza non è paragonabile ad Auschwitz e gli ebrei non sono il governo israeliano, quindi è improprio dire – come in molti stanno facendo – che loro hanno dimenticato di esser stati nei campi di sterminio e che stanno facendo lo stesso con i palestinesi, ma soprattutto è irragionevole riprendere a fomentare un odio che ci si è preoccupati tanto di scardinare. Al contrario, sarebbe opportuno condannare ogni tipo di oltraggio e chiedere a gran voce che la politica internazionale agisca in questo senso concretamente. A tal proposito, un solo paragone col passato, infatti, è ammesso: se ottant’anni fa, sotto regimi dittatoriali e totalitari, era facile negare l’esistenza dei campi di concentramento, condannare gli oppositori, condizionare l’opinione pubblica e ostacolare la libertà d’espressione e d’informazione – quindi si era molto limitati a intervenire sugli eventi -, oggi è diverso quantomeno per le nazioni che hanno forme di governo democratico (sebbene lo stato di democrazia possa variare). Di fronte a quanto accade sotto ai nostri occhi e per quel che sbagliamo a fare o che non facciamo affatto, in Europa e nel resto del mondo siamo doppiamente responsabili. Avere memoria vuol dire non essere indifferenti, perché era questo l’obiettivo dell’operazione nazista: privare l’uomo di coscienza e arbitrio e disperderlo «nella notte e nella nebbia». ♦︎