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Nel comune di Valcasotto in provincia di Cuneo si nasconde un mondo perduto dove il tempo sembra essersi fermato

Con le sue città d’arte, i suoi borghi medievali, i resti di antiche civiltà che l’hanno abitata nel corso dei secoli, l’Italia è ricca di luoghi meravigliosi da visitare, da toccare con mano e da assaporare con tutti e cinque i sensi. Posti celebri, che tutto il mondo invidia e che attirano turisti anche da paesi molto lontani.

Ma la penisola italiana racchiude al suo interno altri luoghi meno noti, a volte addirittura dimenticati dai piú perché ormai disabitati da anni, benché altrettanto incantevoli nella loro semplicità e nella loro essenza misteriosa. Piccoli mondi perduti che punteggiano qua e là tutte le regioni, che a volte sorgono isolati in luoghi meno facili da raggiungere, e altre volte, timidi e silenziosi, si ergono a pochi passi da mete molto più turistiche, ignorati dalle persone che vi passano accanto inconsapevoli. Ciascuno di questi con un piccolo tesoro da custodire, un particolare da ammirare, una storia da raccontare; come quella della borgata “Le Rose”, piccola frazione del comune cuneese di Valcasotto, nella quale ci si può immergere in un mondo perduto dove il tempo pare essersi fermato.

Fra i piccoli comuni e i borghi pedemontani del cuneese, Valcasotto ricopre un posto importante data la sua fama. Conosciuto anche al di fuori della provincia di Cuneo e capace di mantenere negli anni una certa attrattiva per i turisti, accresciuta grazie ai lavori di ristrutturazione fatti al piccolo agglomerato di case che rappresenta il suo centro. Tra le aperture spiccano un ormai celebre caseificio e un rinomato ristorante in cui gustare i sapori tipici del luogo. La comunità valcasottina nacque attorno a una certosa di frati che per primi, nell’XI secolo, colonizzarono queste terre alla ricerca di un luogo isolato nel quale pregare e meditare. Fu grazie al legno degli abeti di cui i boschi nella zona sono fitti che venne da prima costruita la certosa e, successivamente, a cingerla sorse il villaggio. Il legname iniziò anche a costituire una fondamentale fonte di guadagno e lavoro per la gente del posto che lo vendeva in Liguria, dove veniva utilizzato per la realizzazione delle navi.

Dopo svariate vicissitudini, la vecchia certosa venne acquistata dai Savoia nel 1837 e fu trasformata in una reggia, una delle più amate dai regnanti. Qui i Savoia trascorrevano giornate di svago lontani dalla solita routine di corte, dedicandosi a una delle attività preferite dell’epoca: la caccia.

Sicuramente Valcasotto deve una parte della sua fortuna e del suo fascino alla presenza di questo famoso castello sabaudo, e un’altra parte ai punti di grande interesse turistico, come i sentieri sui quali praticare trekking e pedalare in e-bike. Sicuro è che in pochi conoscono la storia delle persone che qui hanno vissuto stabilmente in passato, e dei loro discendenti che tutt’ora vi abitano. Una storia di gente che ha saputo adattarsi a vivere con le poche cose che la natura offriva loro, che ha sopportato fame e povertà, e che ha subito il terrore della guerra con l’occupazione tedesca.

Se si vuole respirare veramente l’atmosfera che ha impregnato questo borgo negli anni passati bisogna lasciarsi alle spalle il centro, il ristorante e il caseificio, inerpicandosi per una leggera salita che porta alla vecchia scuola elementare di Valcasotto. Un edificio, questo, in disuso da decenni ma ancora saldo e imponente come le sue spesse mura, testimoni di un tempo in cui il luogo era vissuto da famiglie che crescevano i loro figli. Da qui può avere inizio un viaggio nel tempo, in un mondo completamente diverso da quello che i turisti ammirano nel centro del paese; un mondo ormai perduto, del quale restano un paio di testimoni che tenacemente continuano ad abitare la casa dove sono nati e dove da sempre hanno vissuto. “Finché le gambe reggono”, come dicono loro stessi, finché i piedi permettono di muoversi e le mani sono in grado di svolgere i lavori quotidiani. In questo luogo dove non ci sono negozi in cui comprare da mangiare, non c’è tempo per stare fermi a oziare. Qui si deve fare affidamento su quanto si riesce a produrre in autonomia, come la verdura che si riesce a far crescere in un piccolo orticello, due caprette per produrre latte e formaggio e qualche gallina per avere uova fresche tutti i giorni. Il centro del paese è coperto dalle chiome degli alberi che formano qua e là chiazze di bosco in mezzo ai pascoli, quasi non si scorge in lontananza. E di certo appare lontano, specie per un anziano che fatica a camminare. Per giungere sino a questi luoghi più nascosti ci si deve lasciare alle spalle l’imponente scuola, risalente anch’essa all’800, e superare, subito dopo, la grande chiesa dedicata a San Ludovico: i due pilastri di riferimento nella quotidianità delle persone che un tempo abitavano queste borgate, nonché simboli delle due massime istituzioni dell’epoca, lo Stato e la Chiesa cattolica, ancora percepiti di pari rilevanza nella prima metà del ‘900. Si deve essere curiosi per scoprire un mondo ormai perduto, e anche un pizzico coraggiosi; si deve andare fuori rotta rispetto il percorso solitamente fatto da chi viene qui per passeggiare o andare in bicicletta.

Valcasotto borghi perduti

Continuando il cammino la strada si fa meno larga e più serpeggiante, l’asfalto lascia il posto alla ghiaia e allo sterrato. Le costruzioni si fanno sempre più rade e si è circondati da un’esplosione di verde, con i rigogliosi pascoli che si alternano ai boschi di castagno, altro fondamentale alleato per la gente del posto che era solita sfamarsi con i frutti di questo albero, spesso accompagnati da una tazza di latte. Le castagne sono state per molto tempo l’unica risorsa da cui ricavare farina poiché non era facile per gli abitanti montani avere a disposizione sufficiente terreno e condizioni climatiche adatte per la coltivazione del grano. Le castagne si potevano mangiare fresche, ma costituivano anche un’ottima scorta di cibo una volta seccate, in grado di conservarsi a lungo e pronte da utilizzare per fare fronte alle penurie dell’inverno. Anche il legno degli alberi costituiva un fondamentale alleato, sia come combustibile, sia come materiale per la costruzione di mobili e case. Qui le abitazioni, come anche nel centro di Valcasotto, sono ancora di pietra e legno e, piú ci si sposta nelle borgate in cui è suddiviso il comune, piú i materiali edili si fanno poveri. Proprio in una di queste borgate, chiamata “Le Rose”, si possono ammirare intatte le costruzioni di un tempo e ci si può immergere in una realtà parallela dove lo scorrere delle ore si è arrestato all’inizio del 900. Anche qui il passare degli anni non è stato meno infame sul paesaggio e sui suoi abitanti. Le abitazioni, tutte molto simili, con i muri intonacati di bianco e le porte e le finestre di legno, mostrano numerose crepe, molto simili alle rughe che solcano i visi degli sparuti abitanti. Numerose case sono ormai vuote da anni. Gli infissi sono marcescenti quando non mancanti e alcune pareti sono crollate, lasciando al suolo montagnole di calcinacci. Solo un pilone votivo eretto durante l’occupazione tedesca e dedicato alla madonna, della quale al suo interno è presente anche una statua, si è conservato intatto nel tempo. La fede è sempre stata profonda in questi luoghi e ciò ha probabilmente contribuito a spingere le persone a curare il più possibile questo simbolo, questo legame spirituale, anche quando gran parte delle famiglie aveva già abbandonato questo posto. I pochissimi rimasti hanno continuato a portare fiori freschi ogni giorno e a lasciare sempre un lumino davanti al pilone, ripetendo, in tal modo, il rito del ringraziamento a Maria, che secondo quanto si racconta tra gli anziani del luogo, aveva protetto una famiglia del posto dai soldati tedeschi. La leggenda narra che una donna si mise tra i nazisti e le due figlie, quando questi aprirono il fuoco sulle bambine. Il proiettile esploso non ferì la madre perché fu deviato dal grembiule lasciando tutte e tre incolumi. Proseguendo e lasciandosi alle spalle il pilone vi troverete un piccolo spiazzo che una volta era usato come cortile per il gruppetto di case, (ora abbandonate tranne una) che costituivano il cuore della borgata. Qui non si può non notare il doppio bacile di una fontana ancora intatta, e la torretta cilindrica che lo sovrasta e dal quale, tutt’ora, zampilla un getto d’acqua. Il suo costante scrosciare rompe il silenzio di questo borgo fantasma; chiudendo gli occhi, il visitatore potrebbe anche ritornare a un tempo passato, udendo le risate di una bambina che rincorre il suo cane intorno alla fontana, i piedi che schizzano fango dal terreno sul vestitino pulito, mentre la severa madre la richiama in casa dal piccolo balcone che si affaccia sulla corte. Il ricordo di quelle persone è conservato solo attraverso alcune foto in bianco e nero, ormai ingiallite, scattate da una delle persone che abitavano in questa borgata. Conosciuto all’epoca semplicemente come ‘il fotografo’, Ugo era l’unico a possedere una macchina fotografica, un oggetto quasi misterioso e fantascientifico per gli altri abitanti della zona.

Al posto delle persone oggi si incontrano quelli che son da considerare i veri dominatori del luogo: i gatti. Questi felini selvatici abitano quelle che un tempo erano case e fienili. Solinghi e silenziosi si aggirano lungo i muretti che circondano la borgata controllandone i confini. Se qualche visitatore osa addentrarsi nel loro territorio, dapprima si nascondono furtivi nella penombra degli edifici, il brillare dei gialli occhi unico segnale della loro presenza. Poi, incapaci di resistere al richiamano della curiosità, si fanno più coraggiosi e escono allo scoperto, scorrazzando attorno a questa nuova e insolita presenza.

Più avanti si incontrano gli ultimi due tenaci abitanti della borgata, nati e vissuti in questi luoghi. Beppe e Cornelia sono due fratelli, rimasti sordi al richiamo della città, scegliendo di vivere tra queste montagne allevando capre dalle quali mungono latte con cui producono formaggi. Dalle galline e dai conigli ottengono carne e uova, mentre l’orto gli dà le verdure necessarie. Qui non esiste la televisione, tanto meno arriva internet. Tutta la tecnologia presente si riduce ad una radio per rimanere aggiornati e un telefono col quale chiamare gli amici ormai lontani. È proprio qui che i visitatori possono ritrovarsi catapultati in un mondo perduto, d’altri tempi, fatto di semplicità e di contatto con la natura. Una persona abituata a vivere in città potrebbe vederla come una vita con poche comodità, ed è vero, ma forse altrettanto vera è la serenità e la tranquillità che nascono dal sorriso dei due fratelli. Uno spirito d’altri tempi quello che è apparso quando hanno deciso di aprire le porte ad uno sconosciuto per offrirgli un caffè e per farmi tornare a casa con una toma.
Ma il tempo è trascorso anche per loro e presto anche loro dovranno lasciare questo posto perché non piú in grado di svolgere le necessarie attività quotidiane. Ci vuole un certo fisico per abitare da queste parti. Lo dicono anche loro con una smorfia di malinconia. Il viso solare si corrompe sotto una smorfia di tristezza quando Cornelia confessa che dovrà lasciare la casa e il borgo intero, di cui sono stati per così tanto tempo gli unici custodi e tra i pochi fortunati a conoscere questo mondo.

Un mondo perduto, destinato a cadere nell’oblio ed essere ignorato dal mondo dinamico, una volta che anche i suoi ultimi abitanti se ne saranno andati. Da un lato, potrebbe apparire come un bene, perché se dimenticato, questo mondo potrà preservare intatta la sua natura, evitando di correre il rischio di subire gli effetti della specializzazione umana e di essere deturpato per puri fini economici. Dall’altro lato potrebbe essere un male: questo spazio custodisce numerose bellezze, custodisce parte della storia del nostro Paese. Soprattutto avrebbe ancora molte storie da raccontare, episodi di vita quotidiana semplice da cui potremmo trarre ancora molti insegnamenti. ♦︎

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