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Nero. Di grossa stazza. E poi maschio. Sì, da umana ero una bambina, ma… se potevo diventare un animale allora potevo anche cambiare sesso (tanto, per noi bambini, che differenza c’è? Pisello o patata alla fine è per la piscia, e comunque adesso sono un cane maschio, e basta).
Intanto non devo più andare a scuola. Da umana, ogni mattina, qualunque resistenza opponessi, venivo infilata in macchina alle 07:40, portata a scuola, abbandonata a passare otto ore davanti alle facce orribili di maestre che dicevano di farlo per te, ma si capiva benissimo che non ti sopportavano.
Adesso che sono cane, quando mia madre mi viene a svegliare, abbaio. Il primo giorno mia madre a scuola mi ci ha portato lo stesso, ma io non ho mica smesso. Una maestra ci chiedeva di fare la Bmaiuscola, muovendo la penna come diceva lei, e io abbaiavo. Un’altra ci ordinava di mettere in colonna i numeri da 500 a 0 e io abbaiavo. Abbaiavo anche quando mi urlavano di smettere di abbaiare, e dopo due ore la mamma è dovuta venire a riprendermi.
Così, ora, la mattina rimango a casa. Posso dormire quanto voglio. Sono un cane!
La dottoressa ha detto ai miei che ho un esaurimento nervoso. A sette anni?!, ha fatto mio padre, come se la dottoressa avesse detto una scemenza. Io non so come mai si è sorpreso tanto: quella non c’ha mai azzeccato, anche perché non ha mica voglia, si vede. Meno male che adesso mi daranno un veterinario: i veterinari, di solito, li amano i  loro pazienti.

Perché gli devi dare questo dispiacere, ai tuoi genitori?, fa mia nonna, quella coi capelli con la lacca e le scarpe lucide. Mi ha portato al parco, ma non mi fa godere il calore che il sole mi sta spalmando sotto il pelo mentre me ne sto accucciato, a occhi chiusi: mi vuole convincere a tornare bambina.
Fare un figlio è sempre un sacrificio!, continua, e allora apro gli occhi, scocciato.
Sacrificio! L’estate scorsa, un amico del mare mi ha detto cosa fanno i genitori per farci: fanno quella cosa. E i grandi, quando pensano che non li sentiamo, parlano sempre di quella cosa;nei loro film c’è sempre almeno una scena dove fanno quella cosa; insomma, ai grandi quella cosa piace da morire, e allora che sacrificio fanno a farci facendo quella cosa?
Tutti i sacrifici che hanno fatto per crescerti!, non molla la vecchia. E io a quel punto ci rinuncio, al sole, al caldo, mi alzo nervoso sulle zampe. Tutti quei sacrifici, dice. Ma chi gliel’aveva chiesto di farli? Avrei vissuto felice, come faccio da quando sono cane: ore a poltrire; oppure correre quanto voglio, e se trovo un pezzo di legno giocarci fino a quando sono stanco. Non c’era nessun bisogno che spendessero soldi per il corso di danza, e di teatro, per le lezioni di inglese, nessun bisogno che, ogni volta, mi ci accompagnassero. Io, di certo, non gliel’avevo chiesto. E non gli avevo chiesto neanche di starmi sempre addosso, e dirmi cosa fare, che dovevo mangiare, come respirare. I sacrifici li facevo io, a essere il loro giocattolino, con cui si divertivano a ordinare, a decidere, ad avere potere. 
Che nervoso, la vecchia, che mi ha messo addosso, rovinando il calore bello che mi ero preso in corpo. Vedo la pozzanghera di fango, al nostro arrivo gelata dalla notte, che adesso è cremata dal tepore: e allora mi ci tuffo. È bellissimo affondarci zampe e muso, e schiacciarci contro la pancia, e rotolarmici tutto, finché il fango non aggrumi i peli a ciuffi, non li faccia irsuti, non li trucchi del colore terrestre.
E sono libero da pensieri, tornato vivo, ma quella vecchia mi avvelena ancora col suo sermone: Devi tornare bambina! Così, da cane, non avrai un futuro. Ma chi lo vuole il tuo cazzo di futuro? A cosa serve? Quando c’è il sole, e il fango, quando è sempre presente. Ma lei continua, coi bambini che hanno progetti, mentre noi cani restiamo sempre uguali.
Io mi offendo e inizio a ringhiarle contro: Ma cosa uguali! E tutti i nostri muscoli che crescono, la coda che si allunga, le ossa? Le sembrano cose da poco? Il fatto che, fino a ieri, col mio salto migliore riuscivo a salire su una sedia e stamattina ho raggiunto il tavolo?
Le ringhio contro, abbaio, ma lei non smette e allora le vado sotto, alzo un zampa e le piscio addosso, sullo stinco, sulla vernice lucida delle scarpe, e lei si mette a urlare, agitandosi tanto che neanche la lacca riesce a tenerle in ordine la testa.

Una domenica è venuta la mia migliore amica, con sua mamma. Speravano che, rivedendola, tornavo bambina. Ci siamo divertiti un sacco, più delle volte che ero umana, e andando via l’amica ha chiesto alla mamma se potevano prendere un cane.
Quella sera mia madre ha avuto una crisi isterica. Forse ci credeva davvero che quel trucco poteva funzionare. Secondo me dispera perché non può più comprarmi i vestitini. Io preferisco adesso, che sto nudo e vado in giro senza scarpe. Per lei lo shopping con sua figlia era un momento sacro.
Comunque il giorno dopo si presenta, di nuovo felice, col tablet in mano e mi mostra l’iscrizione, andata a buon fine, all’European Dog Show. Ha passato tutta la notte a chattare con Jean Paul (che vive in Canada e quindi, per sfortuna, era sveglio) amico esperto di esposizioni canine. Gli ho girato tutte le tue foto, mi fa con quelle note acute nella voce che non aveva più da quando mi sono fatto cane. La morfologia che hai, dice, rispetta alla perfezione gli standard della tua razza. Jean Paul di queste cose se ne intende, aggiunge, sei perfetto per i concorsi di bellezza!
Mi mostra il sito della Federazione Cinofila Internazionale, e l’elenco dei documenti che dobbiamo produrre: pedigree, iscrizione ai Libri origine, libretto qualifiche e libretto sanitario. Per quello sanitario, aggiunge, vanno fatte subito le vaccinazioni!
Dò un colpo di muso, cattivo, alle sue mani, e il tablet vola giù per terra.
Ma allora io cane che ci sono diventato a fare!
Gli standard, i vaccini, e poi sfilare come uno scemo patentato davanti a degli ebeti che non hanno meglio da fare che dare voti a un animale.
Non fare così, non iniziare, fa lei, raccogliendo il tablet da terra, neanche fosse una creatura. È figlia della nonna con la lacca, stessa ostinazione. Sei diventata un cane? domanda, retorica, e allora deve avere un senso! Lo dice lo psicologo, che devo trasformare la disgrazia in obiettivi!
Ma sai che me ne frega di te, dello psicologo, di Jean Paul? Io dico che gli obiettivi sono la disgrazia. Mi sale una rogna che inizio a girare a vuoto per la casa: cucina, soggiorno, corridoio, bagno, camera da letto, ancora corridoio, altra camera, altro bagno. E poi da capo.
Dopo chilometri a passare e ripassare sulle stesse venature di parquet, capisco che ci vuole altro per darmi una calmata. Ma lei ritorna, ostinata, dice che così non si può continuare, dice che se voglio vivere con  loro devo collaborare. Siamo ai ricatti. Ma io adesso sono cane, indietro non ci torno e, perché le sia chiaro, torno nella stanza che condivide con mio padre, ma stavolta non sono di passaggio. Sopra il materasso del matrimoniale, c’è bello steso il copriletto, in pizzo di Burano, ricamato a mano dalla nonna con la lacca. Io punto il muso contro un angolo e lo odoro. Poi l’addento e lo tiro giù, sul pavimento. Mi ci metto sopra con le zampe e inizio a strapparlo: infilo i canini negli spazi tra il ricamo e  tiro, con tutta la forza che ho nel collo.
Squarto il pizzo,  ne faccio brandelli.
Sto rifiatando, quando mi accorgo di mia madre, sulla soglia, che mi fissa, come se avessi ammazzato qualcuno. Fissa i miei denti aguzzi, i filamenti che si sono impigliati in mezzo. Fissa la chiazza di bava sul pavimento, quello che resta del copriletto. Fissa i miei muscoli, che ancora ansimano per lo sforzo.
Non appena mi muovo verso di lei, si appende con tutte e due le mani alla maniglia della porta, e se la tira dietro con forza esagerata. Sento il rumore, nella serratura, della chiave che gira, due volte, frenetica.
Mi sa che l’ha capito, che io il concorso non lo faccio.

LaraMilani-Alloravoglioesserecane12aprile
Allora voglio essere cane

Non so mio padre dove mi sta portando. Mi ha caricato in fretta e furia sulla macchina senza dire una parola. È così affascinante quando non parla, sembra quasi degno della mia specie. Ad eccezione di poeti e cantanti, gli umani quando parlano sono così inutili,  così meschini.
E da un po’ che, oltre i finestrini, della città non c’è più traccia, e questo mi piace: di nuovo alberi, colline, erba, terra, al posto di quell’angosciante accumulazione seriale di manufatti cementizi.
L’idea di scorrazzare nel bosco è una promessa sublime dell’imminente futuro. Eppure nel mio stomaco qualcosa mi dice che non è questo che stiamo andando a fare, non una passeggiata, non una scorrazzata. Lo stomaco è difficile che sbaglia. E infatti quando ci fermiamo, e il padre viene ad aprirmi lo sportello, non mi fa scendere libero, ma mi aggancia il collare.
Mi porta al primo albero disponibile e fa girare il guinzaglio attorno al tronco.
Mi lancio contro lui, mentre cerca di formare un nodo, lo ostacolo ma non abbastanza, ci riesce ma gliene serve un altro. A quel punto non ho più scelta e gli pianto i denti nel polpaccio calloso. Lui caccia un urlo animale, la prima cosa vera che gli esce dalla bocca da non so più quanti anni. Se ne fotte del secondo nodo, la paura è più forte, che lo morda ancora, molla tutto e fugge in macchina.
A quel punto guaisco. Non perché sia preoccupato di morire di fame (il nodo è alla bell’e meglio, sarà questione di secondi e sarò libero).
Guaisco perché mi stanno ferendo tanto (molto più del male che gli ho fatto al polpaccio).
Guaisco perché non so se riuscirò a ritrovare la strada.
Lui, intanto, ha rimesso in moto, ha sgommato, è ripartito.
Io dai guaiti sono già passato agli strattoni, e all’ennesimo il nodo scala, all’ennesimo si allenta, all’ultimo si scioglie.
Sto già correndo. La direzione è quella, dove lui è scappato. Ma chissà, dopo, se l’odore lasciato dalla macchina sarà abbastanza.
Ma perché lo sto facendo? Che c’è di così idiota nel mio istinto da volerci tornare da quei due che mi hanno appena abbandonato! Anche se li convinco, se mi riprendono, a quale prezzo? Fare i concorsi di quella stordita di mia madre!
Perché, allora, sto correndo a perdifiato, col panico in gola?
So bene cosa mi faranno. Mi addestreranno, per sfilare e non solo. Mi useranno anche per fare da guardia. Sarà perfino peggio di quando andavo a scuola, sarò più schiavo a quel punto dei bambini schiavi ai saggi di fine anno. 
E allora perché questa speranza viva, nel sentirla, la scia dell’automobile, all’ennesimo incrocio, e sapere dove andare?
Perché quest’esplosione di gioia nell’avvistare la biblioteca che per anni è stata il randez vous dell’immancabile marcia contro le mafie.
So bene che all’arrivo della pubertà mi castreranno, condanneranno la mia carne a finire, oppure no, se coi miei figli potranno farci soldi, allora no, potrò pure riprodurmi, ma per moltiplicare lo schiavo in quattro, cinque schiavi da competizione.
E allora perché, quando vedo il porticato, comincio ad abbaiare disperato, e quando loro due si affacciano i loro volti sono la cosa più bella che io abbia mai visto?
Perché questa felicità idiota, quest’amore suicida.
Io so benissimo cosa mi aspetta.
Però, non posso immaginare cosa mi faranno.

Un incubo della peggiore specie. Di quelli con la febbre alta, che sogni ossessivamente la stessa cosa. Come un tormentone estivo che non ti esce più dalla testa, o un meme che non puoi smettere di guardare e riguardare. Che poi da quando sono cane i sogni non li faccio più, e allora perché sto sognando? È questo che continuo a sognare a ruota: me che sogno di chiedermi perché sto sognando, se da quando sono cane non sogno più. Ma non sogno me che me lo chiedo, cioè non la mia faccia. Nel sogno, sono un agglomerato di cellule, catene di amminoacidi, tessuto epidermico, un collage allucinato di robe così che si chiede perché.
Perché sto sognando, se da quando ero cane non sognavo più.
Perché ho detto ero? Ho detto da quando ero cane. Perché?
Forse mi sto svegliando, e allora l’agglomerato si chiede una cosa diversa. Si chiede perché ha usato il passato chiedendosi perché sta sognando, se da cane non l’ha mai fatto.
Forse mi sto sognando, cioé… svegliando, voglio dire svegliando, perché anche l’agglomerato sta cambiando: non è più un collage, è più un avambraccio, non una zampa, un avambraccio, non è peloso infatti e forse mi sto accarezzando. Forse sono sveglia…
Perché dico sveglia?
Forse perché non ho i peli sull’avambraccio?
A questo punto ho paura a farlo, perché sono sveglia, ormai non c’è dubbio, ma il dubbio è un altro, ed è tremendo. Ma è meglio capirlo, il prima possibile, e allora lo faccio: mi porto quella che vorrei chiamare zampa, ma che sento mano, me la porto in basso, lì in mezzo, lo faccio, e non lo trovo il pisello e neanche le palle! Me le hanno rimesse dentro e quello l’hanno miniaturizzato, e in questo preciso istante ricordo: Editing Genomico. L’ha tirato fuori mia madre, la sera stessa che mi avevano ripresa in casa. E mio padre ha detto: Sì. Costa parecchio, ha detto lei. E lui: Non importa, ne vale la pena. Era sbagliato abbandonarla, ha detto lei. Così è meglio, ha detto lui. Più giusto, ha detto lei. Più responsabile, ha detto lui, che poi ha chiesto chi fosse il migliore? E lei ha risposto: Ora scrivo a mia madre.
In fondo è così che fanno tutto. Lo fanno da tremilacinquecento anni. Da quando hanno scoperto l’agricoltura. Hanno capito che invece di abbandonare o uccidere potevano modificare: terreni, bestie, popolazioni. Li fa sentire con la coscienza apposto. Se esistono specialisti per farlo, se hanno studi, una parcella, se è detraibile, se trovi ovunque le pubblicità, se addirittura ci mette la faccia quel cantante lì, quell’attrice. Così, tutto è normale.
Nel mio caso bastavano due firme, le loro, per il consenso.
Della mia non c’era bisogno.
La mia avrà un valore solo quando saranno sicuri che in me non sia rimasto più nulla dell’originale, nessun bosco.
Intorno ai diciotto. ♦︎


Illustrazione di Lara Milani