Venne il giorno in cui, stufa di subire in silenzio le crudeli angherie del mondo, ordinai via internet un’armatura di lucida gomma trasparente. Le recensioni erano buone, chi, come me, l’aveva acquistata quasi per disperazione, sosteneva più volte quanto fosse comoda e, soprattutto, invisibile agli occhi delle persone. Presi il modello migliore che il sito proponeva, pagai, entusiasta, per usufruire della spedizione rapida, e il giorno seguente un grosso pacco fece la sua comparsa di fronte all’ingresso di casa mia. Tagliai velocemente il nastro adesivo e ne estrassi la mia corazza nuova di zecca, ben ripiegata all’interno dell’anonimo scatolone assieme ad un foglietto illustrativo di poche righe, che – almeno così pensai allora – probabilmente spiegava come indossare il prodigioso gingillo. Non lo aprii nemmeno, lasciai che scivolasse sul fondo del contenitore e mi appropriai immediatamente dell’elmo sfavillante, per poi indossare anche la cotta, gli spallacci, i guanti, gli schinieri e tutto il resto.
Cominciai quindi a vivere assieme alla mia armatura e, più sicura di me stessa, mi parve che per un certo periodo le cose andassero meglio. Tutto ciò che mi aveva provocato anche solo un fievole patimento ora pareva rimbalzare a contatto con la gomma resistente. Con il passare degli anni, però, mi accorsi che lo spesso materiale andava lentamente logorandosi. Perdeva di elasticità, così ogni singolo sguardo indiscreto, malevolo o meno, finiva per incagliarsi in esso, appesantendolo enormemente. Ad un certo punto non riuscii più a sostenerlo, mi cedettero le ginocchia ed io cominciai a strisciare, soffocata dall’immane peso dello stesso arnese che mi aveva protetta in passato.
Ma, in fondo, era solo colpa mia. Se avessi letto le istruzioni, il giorno in cui era stata spedita a casa mia, avrei subito compreso che l’armatura non serviva ad isolarmi dal male, ma a fare sì che io per prima imparassi a rimbalzare, spiccando il volo con la Leggerezza di una candida piuma, su ciò che tanto mi feriva.