Esiste un fil rouge tra alimentazione e questione di genere?
L’umanità, da che se ne ha testimonianza, è sempre stata una grande consumatrice di carne. Prodotto tanto amato e apprezzato per proprietà, gusto e sapore, lo si consuma nella maggior parte delle civiltà umane, molte delle quali lo intendono come il cibo principale e predominante della loro alimentazione. In pochi sanno però della discussione filosofica e morale che si cela dietro al consumo della carne, che risulta interessante approfondire prendendo informazioni e spunti di riflessione dal testo Carne da macello, pubblicato nel 1990 dall’attivista statunitense Carol J. Adams, la quale decise di analizzare i due temi che più le stanno a cuore: alimentazione e questioni di genere, chiedendosi quale sia il filo rosso che lega la misoginia culturale della società del suo tempo all’ossessione per la carne e la mascolinità.
Secondo la sua interpretazione, mangiare carne è un’azione connessa a una visione sessista della società, le cui abitudini alimentari hanno sempre proclamato distinzioni di classi patriarcali, implicite o esplicite che siano.
Basti pensare che, in passato, le donne meno agiate, considerate cittadine di serie b, mangiavano cibi di seconda classe come verdura, frutta e cereali; al contrario, in tutte le classi ricche, dove il consumo di carne era abbondante, le donne ne ricevevano comunque una porzione nettamente inferiore. Perché?
La carne nella società patriarcale veniva considerato il cibo degli uomini, e il consumarla un’attività da uomini. Questo concetto, insito nella mentalità del popolo, portò conseguentemente alla gerarchizzazione delle persone all’interno della società, creando distinzioni evidenti: quello che si mangiava definiva la classe sociale di appartenenza.
Adams citò addirittura una pubblicità degli Anni Quaranta del Novecento che sponsorizzava l’idea che la carne contribuisse alla prominenza mondiale della società occidentale. I pubblicisti di questa campagna scrivevano che tutti i leader del progresso umano erano consumatori di carne: «Meat is king» era lo slogan, dove la carne era vista come un forte simbolo di potere.
Un ulteriore aspetto comunemente trascurato ma altrettanto interessante è la trasposizione linguistica di parti del corpo dell’animale associate a parti del corpo della donna: si parla in questo caso di antropomorfizzazione. Se un gruppo viene considerato inferiore, sarà più facile che a quel gruppo vengano inflitte violenze corporee e forme di stupro analoghe a quelle che infliggiamo sugli animali. Nelle società umane, molti uomini che compiono violenze sugli animali li compiono anche sulle donne.
Il tema della relazionalità è fondamentale. Il modo in cui ci relazioniamo a un animale è molto più simile al modo in cui ci relazioniamo alle persone di quanto potremmo credere. Viene oggettificato l’animale, esattamente come si oggettifica il corpo di una donna; viene consumato un animale e analogamente la donna, non più intesa come persona, ma solo come merce. L’oggettificazione permette così all’oppressore di vedere l’altro semplicemente come una ‘cosa’. Ciò avviene anche con il linguaggio: un soggetto, dapprima osservato, viene poi oggettificato attraverso una metafora linguistica. Tramite la frammentazione, l’oggetto è svilito del suo significato ontologico e viene consumato, consumazione che può avvenire anche solo tramite immagini, ci sono numerosi casi di pubblicità sessiste, molte delle quali in ambito gastronomico.
Insomma, abbiamo un continuo dualismo tra corpo dell’animale e corpo della donna, violenza e oggetto del desiderio, subordinazione e brama di potere. A questo proposito Adams riportò anche il testo di un’antropologa, Peggy Sanday, che aveva studiato più di cento culture non tecnologiche e trovato curioso come nelle varie culture mondiali che avevano sviluppato una propria economia, quelle incentrate su frutta e verdura erano più comunemente gestite da donne, rispetto alle economie basate sulla gestione e sullo sfruttamento degli animali in cui invece deteneva il potere dell’azienda l’uomo, e nelle quali le donne raramente venivano dipinte come sorgente di potere e innovazione. Al contrario, questi tipi di attività spesso includevano la subordinazione della donna, alla quale veniva dato più lavoro da svolgere rispetto agli uomini ma valorizzato molto meno.
Questo aspetto era ed è ancora oggi presente in moltissimi ambiti della cultura umana, basti pensare alla figura del macellaio, tipicamente associata all’uomo, così come la caccia o la pesca, poiché catturare animali è da sempre intesa come un’attività maschile. Per non parlare dell’attribuzione spontanea e naturale della donna al luogo della casa, in particolare alla cucina: era impensabile associare la figura maschile a certi ambienti, quasi fosse un sacrilegio ipotizzare che anche l’uomo potesse stare ai fornelli.
Potremmo pensare che negli ultimi decenni ci sia stato un notevole progresso e un radicale cambiamento di prospettiva, un ampliamento di mentalità che ha portato alla normalizzazione della figura maschile in ambienti culinari, il che sicuramente è vero, in molti casi, ma che paradossalmente ha portato alla costruzione di gerarchie sociali anche nella modernità.
Proprio gli uomini, che fino alla fine del Novecento erano considerati estranei e non adatti all’ambiente umile della cucina, oggi vengono elogiati e premiati come massimi chef a livello nazionale o mondiale, laddove invece è difficile trovare figure femminili esaltate allo stesso modo.
Non a caso, in tutti i grandi programmi di cucina che hanno forte riscontro mediatico è raro trovare una chef donna, così come la stragrande maggioranza dei più rinomati ristoranti al mondo sono gestiti da cuochi maschi. Pare proprio che in tutti gli ambienti nei quali sia possibile celebrare la figura dello chef, quello chef è un uomo, il che non mette in dubbio la sua bravura, ma dovrebbe spingerci a riflettere sul fatto che ancora oggi esistano, sebbene in contesti differenti, subordinazioni di genere guidate dall’idea che i riconoscimenti dati alle donne abbiano un impatto inferiore rispetto a quelli dati agli uomini, che di conseguenza appaiono più privilegiati nella possibilità di far carriera.
La presa di consapevolezza di questi aspetti della nostra realtà, troppo spesso ignorati, può essere importante per far sì che le società future vengano indirizzate verso l’acquisizione di maggiori diritti e pari opportunità, in tutti gli aspetti della vita. Sicuramente, la conoscenza di queste sfaccettature della realtà, che riguardano tutte e tutti noi, può essere un modo per chiarirci le idee, fortificare o mettere in discussione le nostre convinzioni, con la speranza di innescare noi stessi il cambiamento che vogliamo vedere nel mondo. ♦︎