Le luci sfavillano tra i rami che sembrano abbracciarmi. Mi sussurrano un calore che avevo dimenticato. Prendono i miei battiti mettendoli al loro passo e regolano il mio respiro. Mi portano alle periferie ormai deserte dei miei ricordi e incominciano a raccontarmi il Natale della mia infanzia, vissuto con entusiasmo e atteso per tutto l’anno. Mi parlano della bambina che ero, mi riportano a quando sognavo fino a farmi venire il fiatone, come quando ogni anno speravo che nevicasse a Napoli, quasi invocando l’arrivo della distesa bianca. Poi, puntualmente, gli adulti mi dicevano che non saremmo riusciti a vedere la neve tanto facilmente perché si sarebbe sciolta troppo in fretta, ancor prima di posarsi a terra. E io, invece, insistevo pur non avendo alcuna certezza, ma volevo poter credere, sperare di aprire gli occhi una mattina e trovare una coperta bianca di velluto che riscaldava i tetti, i prati, le montagne aguzze e un po’ scheggiate all’orizzonte che avrebbero incorniciato casa mia e che, innevate, avrebbero cambiato totalmente l’aspetto del paesaggio, dandomi la breve impressione di abitare altrove, probabilmente al nord, chissà dove. Il mio balcone sarebbe diventato il palchetto di un teatro e quella di fronte una scenografia nuova, di cui la neve era la protagonista.

Nella mia mente di bambina stavo sempre a creare, avevo un’immaginazione ostinata che ignorava i confini. Quindi pensavo, fantasticavo, costruivo, demolivo. E poi ingigantivo e rimpicciolivo, amplificavo e minimizzavo. Situazioni, emozioni, persone, cose. E proprio tra le cose che magari conoscevo da sempre, mi capitava di scoprire altro. Vedevo nuovi mondi nel mondo, come l’albero di Natale di mia nonna che era uguale ogni anno. Le palline erano colorate e lucide, di quelle in cui si gioca a specchiarsi e che fanno ridere perché deformano l’immagine; c’era qualche ghirlanda e poi, al posto della stella, un angelo con le ali spiegate, che solo a guardarlo mi sentivo tranquilla. E, ovviamente, le luci, le vere protagoniste: una volta, non so perché, decisi di stendermi sotto l’albero sulla mia coperta a quadri che avevo da quand’ero nata e, come quando si è seduti in riva al mare e si viene travolti da un’onda, mi ritrovai addosso un crepitio di meraviglia creato proprio da loro: i miei occhi erano coperti dai rami che brillavano su di me e la vista inedita e privilegiata mi restituiva una magia amplificata. Ero chiusa in una sfera e mi sentivo padrona di un segreto. Io che ero lì guardavo il cielo e le sue stelle accendersi e spegnersi, mentre chi era in piedi vedeva solo un normalissimo abete. Beninteso, chiunque avrebbe potuto unirsi a me se l’avesse voluto, e io ne sarei stata anche contenta, ma a nessun adulto veniva in mente di sdraiarsi sotto l’albero, e l’apatia dei grandi mi disturbava molto e nemmeno la capivo. Il Natale arrivava e loro non aspettavano altro che andasse via. Erano sempre indaffarati, di corsa e poco attenti: per loro le cose che avevano importanza erano poche e l’albero obsoleto di mia nonna la dice lunga, tant’è che tutti percorrevano il corridoio di casa senza più guardarlo, mentre io continuavo ad avvicinarmi ogni volta. E ho capito che guardando bene le cose, qualcosa di nuovo si crea sempre perché l’immaginazione ha la bella caratteristica di riuscire a spingersi oltre i limiti della realtà; che dopo poco non basta più, e finisce per diventare grigia.

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Polvere di stelle. Il racconto di Natale su NoSignal

Apro gli occhi e sono in piedi davanti al mio albero. Penso che per un po’ di tempo mi sono comportata proprio come quegli adulti, con freddezza e disinteresse verso il Natale. Proprio io che l’ho sempre atteso, anche nei momenti meno opportuni, tipo l’estate. Quest’anno non avrei voluto nemmeno addobbare l’albero, l’ho fatto forzatamente e non vorrei che la bambina lo sapesse. Ma, per fortuna, mi sono sciolta di nuovo ricordando lei e guardando quel che amava. Forse posso tirare un sospiro di sollievo per non essermi persa. Voglio riuscire a ricordare sempre quant’era bello credere con forza e provare a farlo oggi che sono cresciuta, nonostante sia più difficile. Sarà perché il Natale ha un significato diverso, o forse perché è cambiato e non lo vivo più come prima: perché non scrivo più la letterina, né chiedo i regali – perché, se ci penso, nemmeno so cosa voglio -, perché non mi siedo più sulle gambe di papà a tavola e non guardiamo più i film insieme, non prendo più sonno davanti al camino mentre sono tutti a tavola a giocare a carte fino a tardi, non recito la poesia in piedi su una sedia, perché non mangio più il coniglietto di cioccolata né mi lego al polso il nastro rosso col campanellino. Forse sì, adesso potrei capire quegli adulti tremendi che mi stavano così antipatici, ma sarebbe troppo facile seguire le loro orme e lasciarsi andare al nulla anche durante un periodo simile. Quel che resta del Natale dell’infanzia è soltanto una coperta a quadri colorati sotto l’albero, sommersa sotto una polvere di stelle; che non voglio soffiare via, ma su cui voglio sdraiarmi ancora. ♦︎


Illustrazione di Susanna Galfrè

Antonella Di Palma
Antonella, vent'anni, studio Lettere moderne e abito tra le braccia del Vesuvio. Sono fatta per osservare, cercare verità e capire. Parlo tanto e sono testarda. Nutro un amore viscerale per la letteratura, la tenerezza, il francese, i fiori, le città che non ho mai visitato, il teatro, i capelli ricci, le perle, la musica, i bambini, l'azzurro, l'arte, il mare, le parole dette senza paura, la luna, la filosofia, Napoli, il cielo, l'onestà, i gatti, la pioggia, la poesia, il silenzio, le fotografie, gli abbracci, le passeggiate fianco a fianco.

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