Se si è stati condannati a più di venticinque anni di carcere, negli Stati Uniti esiste una via d’uscita: iscriversi al programma IPAC e partecipare a Catene di Gloria, un reality show di sport d’azione estremi in cui i concorrenti si sfidano in duelli corpo a corpo. Vince chi sopravvive, e più il numero degli avversari uccisi aumenta, più ciascun concorrente sale di livello, ottiene privilegi e acquista la benevolenza del pubblico diventando una vera e propria celebrità sostenuta da schiere di sponsor. La più famosa è Loretta Thurwar, osannata Colosso Supremo che ha conquistato la fama combattendo tre anni nel Circuito. Adesso le mancano solo due incontri per raggiungere la Libertà Alta, ma non sa che le regole del gioco stanno per cambiare. 

Scrittore americano di origini ghanesi, Nana Kwame Adjei-Brenyah ha esordito nel 2019 con la raccolta di racconti Friday Black, edito in Italia da SUR, e a novembre del 2023 è uscito il suo primo romanzo, Catene di Gloria (Edizioni SUR, 2023), che sta riscuotendo un successo mondiale. Candidato al National Book Award, definito l’Hunger Games letterario della generazione del Black Lives Matter, paragonato a 1984 e The Handmaid’s Tale, nella definizione di ‘distopia’ ci sta stretto. La trama coinvolge sin dalle prime pagine con irruenza, ma sono le note a piè di pagina a riportare i lettori in una dimensione tutt’altro che surreale, dati e statistiche che denunciano la brutalità del sistema carcerario americano, sovente a sfavore di uomini e donne nere, trans e LGBTQIA+. 

In Catene di Gloria l’autore si appropria dei meccanismi dell’antica Roma, di gladiatori acclamati da un pubblico che pretende arti mozzati, teste decapitate, viscere impastate alla terra dell’arena. Nel mondo evocato da Adjei-Brenyah però queste carneficine non hanno alcuna valenza propiziatoria o funebre; fungono bensì da puro panem et circenses. Sono i detenuti stessi a ‘scegliere’ di parteciparvi, firmando un contratto in presenza di notai, tutori e avvocati. Pur di fuggire da carceri in cui si è costretti al silenzio da manette che puniscono con scosse elettriche, dove le discriminazioni razziali e sessuali, la violenza e le torture sono la prassi, i detenuti accettano di propria volontà un suicidio assistito, una pena di morte resa spettacolo mediatico e spacciata per possibilità di redenzione. Ogni Forzato ha la sua platea di sostenitori, disposta a pagare un canone per seguire in diretta dai propri ultra pollici la quotidianità dei loro beniamini: Marce, Mischie, perfino i momenti di intimità con i compagni di Catena. Emily, moglie di Will, grande appassionato del programma, inizia a guardarlo per compiacere il marito e se ne ritrova invischiata, non riesce a smettere di assistere a quella spirale di morte e violenza, come se i concorrenti di Catene di Gloria non fossero esseri umani ma personaggi di un videogioco, «adesso i giochi di morte sono il nuovo football». D’altronde sono assassini che uccidono altri assassini, non meritano di vivere. Sono marchiati dai crimini che hanno commesso in passato, a prescindere dalle circostanze che li hanno indotti a commetterli, meritano di morire.

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Catene di gloria di Nana Kwame Adjei-Brenyah

«Dove la vita è preziosa – la vita è preziosa» recita il manifesto che l’attivista Mari riesce a esporre nell’arena durante il penultimo incontro di Thurwar. Una frase plateale, volta a mostrare quanto i carcerati siano disumanizzati. L’umanità e la compassione sono sentimenti propri anche dei Forzati, slegati da qualsiasi sbaglio abbiano commesso in passato. Il carcere «non serve a prevenire i reati, non riabilita le persone. Soprattutto danneggia la capacità delle persone di provare compassione per gli altri, perché criminalizza il singolo individuo quando il reo è solo il fenomeno finale di un problema strutturale, di tutta la società» afferma l’autore durante un’intervista.

Adjei-Brenyah descrive ogni scena con una brutalità che non fa sconti: «Fece cadere il martello come una bomba sul volto della sua proprietaria», «lo baciò diverse volte sul viso, poi gli tagliò la gola», «Quand’aveva finito con Bear, sembrava appena uscito da un biotrituratore», «e poi un corpo con le gambe verdi e la camicia un po’ meno verde mi colpisce in faccia con il manganello e mi sbatte indietro verso il ronzio della sega».

Catene di Gloria non può e non deve essere letto come trasposizione letteraria di un picchiaduro, un racconto d’intrattenimento, in cui basta patteggiare per i propri personaggi preferiti. È un romanzo di posizioni, in cui le critiche a una società che monetizza e lucra su ogni aspetto, che assiste e accetta violenza e soprusi con morbosità, si fanno strada frase dopo frase. Perchè scrivere è un gesto politico, e Nana Kwame Adjei-Brenyah lo ha urlato a gran voce.

«Puoi essere schiavo di un uomo, come sono stato io. Puoi essere schiavo dello stato, come ero io prima. Forse a tenerti prigioniero è la voce che ti hanno preso e strappato. È il tuo corpo che vive sotto l’occhio della scossa elettrica. (…) Forse è di questo che sei schiavo. Del desiderio di non essere più schiavo. E qualcuno dirà che adesso sono schiavo di questo. Delle mie catene fatte di libertà lontana. Io sto sempre zitto. Ma non sono mai stato cieco. La cosa di cui sono schiavo è la mia colpa, nient’altro che quella». ♦︎

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