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«Chi parla male pensa male e vive male. Bisogna trovare le parole giuste. Le parole sono importanti». Il personaggio interpretato da Nanni Moretti in Palombella Rossa (1989) non sarà forse un eminente filosofo del linguaggio, ma esprime un pensiero che condividerebbero anche Austin e Wittgenstein: le parole non sono solo parole. In particolare, i due studiosi evidenziavano accanto a una dimensione descrittiva del linguaggio ordinario, una dimensione performativa, di azione. Cioè? «Ogni dire è anche un fare», come sosteneva Austin. Persino per coloro che reputano l’attenzione al linguaggio un dettaglio o un capriccio il concetto risulterebbe subito manifesto nel momento in cui io dovessi gridare «Attacca!» a un pitbull ben addestrato distante pochi metri da loro. È solo una parola, ma è chiaro, anche da un punto di vista legale, che verrei (giustamente) accusato di istigazione alla violenza e non potrei cavarmela appellandomi alla libertà di espressione, né pensare che non abbia ricadute sulla mia persona l’affermazione di un giudice che, a seguito dell’accaduto, dovesse sentenziare: «La Corte condanna l’imputato…». Ma, anche quando non attentiamo alla vita altrui per dimostrare che Austin e Wittgenstein avevano ragione, ciò che diciamo cambia via via i limiti di ciò che può esser detto, di quel che viene considerato normale e, col tempo, arriva a spostare i confini di ciò che può essere fatto.

Le parole esprimono e veicolano contenuti mentali. Più parole si hanno a disposizione e più si possono formulare pensieri complessi, idee, che, citando Inception di Nolan, sono parassiti del cervello resistenti e contagiosi. La storia ci dimostra come le idee cambino il mondo. Per questo le parole fanno paura e hanno sempre fatto paura a tutti i gruppi di potere, che fin dall’antichità hanno reagito censurando, o tentando di censurare, testi di ogni natura ritenuti non conformi per ragioni politiche, religiose o sociali. È così che, talvolta, sono entrati a far parte della storia della letteratura anche i processi alle opere, come quelli contro Madame Bovary di Flaubert, I fiori del male di Baudelaire e innumerevoli altri, oppure il lungo esilio dalla terra natale dell’Ulisse di Joyce, proibito in Irlanda ancora fino al 1966.

Nel condurre questa mia ricerca, che non ha la pretesa di essere esaustiva, né rigorosa e sistematica come un testo accademico, non sono riuscito a sottrarmi all’impressione soggettiva e sconfortante, per quanto di certo errata, che sia esiguo il numero dei grandi testi letterari mai inciampati nelle reti della censura. Facendo riferimento a un libro di Lewis Carroll, bandito in Cina nel 1931, perché gli animali parlanti erano considerati un’aberrazione – e, più recentemente, in alcune scuole del New Hampshire per presunti riferimenti alla masturbazione e perché promuoverebbe nei bambini l’abuso di sostanze stupefacenti – seguitemi, se volete vedere quanto sia profonda la tana del Bianconiglio.

La censura può occuparsi di argomenti, limitando ciò di cui si parla e scrive, ma anche di linguaggio, limitando il modo in cui parlare e scrivere di qualsiasi argomento. Talvolta ha agito in modo preventivo, bloccando la pubblicazione di un testo, oppure omettendo le parti ritenute critiche, modificando parole, righe, rimaneggiando alcuni passaggi o riscrivendoli del tutto, talaltra ritirando libri già diffusi e letti per alterarli o distruggerli fisicamente. A questo proposito, uno dei primi riferimenti storici risale al 213 a.C., quando, in Cina, allo scopo di eliminare ogni minaccia al suo mandato imperiale, Qin Shi Huang fece seppellire vivi 460 intellettuali dissidenti e ordinò il rogo di tutti i libri confuciani, così come di molti antichi scritti, fatta eccezione per quelli di argomento tecnico o scientifico. Ma anche nelle poleis greche, così come nella Roma antica, si distruggevano testi censurati per motivi politici e la possibilità di esprimersi liberamente era un elemento di differenziazione tra cittadino e schiavo, tra cittadino e straniero. A Roma i censori, il cui incarico in origine, come si può intuire da un’evidenza etimologica, era quello di censire la popolazione, si occuparono anche della cura morum, cioè di sorvegliarne i costumi, punendo infrazioni ed eccessi con note censorie. Coloro che erano colpiti da tali provvedimenti potevano subire una retrocessione sociale ed eventualmente essere privati dei diritti politici di voto e di eleggibilità. Il termine «censura» è quindi passato a significare controllo della comunicazione da parte di un’autorità, che limita la libertà di espressione.

Nel Medioevo la figura dimessa del monaco amanuense, con la sua chierica, il saio bucato e i sandalacci logori, aveva invero, nel copiare i codici antichi, l’enorme responsabilità e il potere di decidere quali dovessero morire, non più tramandati, e quali invece valesse la pena di trascrivere. Per la disperazione dei filologi, ogni copista, oltre a compiere errori involontari, si sentiva libero di modificare i testi, espungendo, rimaneggiando o interpolando interi brani, in un proliferare di versioni tutte diverse tra loro e sempre più distanti dall’originale. La concezione di autore, il suo riconoscimento giuridico-culturale e il rispetto per l’integrità della sua opera sono un concetto che nasce solo in seguito, con l’ascesa dell’individuo in età moderna. Interi secoli furono segnati da una censura dettata dagli ordini ecclesiastici, dalla Facoltà di Teologia di Parigi e dal Papa. Ma il meglio arrivò negli anni della Controriforma e del Concilio di Trento, quando Paolo IV, nel 1559, diede alle stampe il primo Index librorum Prohibitorum, l’indice dei libri proibiti. A metà del Quattrocento l’invenzione della stampa a caratteri mobili aveva fatto aumentare in modo vertiginoso la produzione e la circolazione dei testi. I libri si moltiplicavano, le idee viaggiavano velocemente, cresceva il pensiero critico. Per la Chiesa le conseguenze innescate furono devastanti. Stampatori e librai furono costretti a giurare obbedienza con un atto di sottomissione all’ufficio inquisitorio. Non occorre ricordare che in quel periodo oltre alla carta si bruciò, con una certa disinvoltura, anche la carne. Questo clima indusse gli autori a una forma di autocensura preventiva e provocò una generalizzata decrescita del mercato editoriale, che, per sopravvivere, fece scelte di arretramento culturale. L’Index, che subì continue rielaborazioni per potersi adattare costantemente alla mentalità dei tempi, fu abolito solo nel 1966, sebbene avesse perso via via autorevolezza ed efficacia. Tra gli autori pericolosi, siano essi scienziati, storiografi, filosofi o letterati, i cui testi comparvero sull’indice, ci sono quasi tutti quelli che abbiamo studiato a scuola. Non avrebbe neanche senso riportarne qui un elenco esaustivo. Vi basti sapere che tra gli altri ci sono Bacone, Balzac, Bergson, Cartesio, Diderot, Dumas padre e figlio, Flaubert, Hugo, Hume, Kant, de La Fontaine, Locke, Montaigne, Montesquieu, Pascal, Rousseau, Sand, Spinoza, Stendhal, Voltaire e Zola. E tra gli italiani: Alfieri, Pietro Aretino, Beccaria, Giordano Bruno, Benedetto Croce, D’Annunzio, Fogazzaro, Foscolo, Galilei, Gentile,  Gioberti, Guicciardini, Leopardi, Machiavelli, Giovan Battista Marino, Savonarola, Tommaseo e Pietro Verri. Mentre più di recente si sono aggiunti Simone de Beauvoir, André Gide, Jean Paul Sartre, Curzio Malaparte e Alberto Moravia.

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Censura e letteratura. La tana del B***coniglio

Mentre l’influenza della Chiesa andava riducendosi, altri gruppi di potere continuarono a esercitare un controllo sulle parole per ragioni differenti. Nell’Italia fascista Cesare Pavese, di cui è noto l’interesse per la cultura americana e l’attività di traduttore dall’inglese (ricordiamo in particolare il suo lavoro su Moby Dick di Herman Melville), in lettere private lamentava l’impossibilità di reperire le novità editoriali statunitensi. Fra molti altri testi, fu censurato anche Addio alle armi di Hemingway, perché considerato lesivo dell’onore delle Forze Armate, in quanto descrive la disfatta dell’esercito italiano a Caporetto. La scrittrice e giornalista Fernanda Pivano, che lo aveva tradotto clandestinamente nel 1943, venne arrestata a Torino. Sono poi noti i roghi di libri sotto il Terzo Reich, trasformati in eventi sociali in occasione dei quali talvolta venivano addirittura diramati inviti, o i metodi repressivi della polizia sovietica, dalle espulsioni, alle deportazioni nei gulag di scrittori e intellettuali dissidenti, fino alle perquisizioni nelle case dei cittadini, per assicurarsi che nessuno avesse in libreria testi proibiti dallo stato, come una copia de Il dottor Živago. Boris Pasternak, autore del romanzo, fu costretto a un isolamento forzato e ridotto in povertà. Nonostante l’opera gli fosse valsa il Nobel per la letteratura nel 1958, a seguito di pressioni da parte del KGB, dovette rinunciare al riconoscimento e al premio in denaro, per evitare un’espulsione definitiva dall’Unione Sovietica e la confisca dei suoi beni. Già nel 1930 la censura sovietica aveva impedito la pubblicazione della stesura originale de Il Maestro e Margherita di Michail Bulgakov, uscito in Russia con tagli e modifiche tra il 1966 e il 1967, vent’anni dopo la morte dell’autore. I passi tagliati, che riguardavano la polizia segreta di Mosca e di Gerusalemme e i punti in cui Margherita era descritta nuda, circolarono di nascosto e furono poi reintegrati nelle successive edizioni e traduzioni europee. Solo nel 1973 il romanzo uscì in Unione Sovietica in una versione che all’epoca fu ritenuta completa e infine nel 1989 in un’edizione che teneva conto di manoscritti in precedenza ignorati. Tra i testi banditi dall’Urss è curioso il caso di 1984 di George Orwell, una sorta di paradosso del gatto di Schrödinger, un romanzo ritenuto allo stesso tempo filo-comunista da una contea della Florida e anticomunista dall’Unione Sovietica, pubblicato poi in Russia solo dopo la caduta del muro di Berlino in una versione rimaneggiata e non integrale. La censura sovietica non fu più morbida con La fattoria degli Animali, di cui anche il governo britannico ostacolò la pubblicazione, fintanto che durò l’alleanza con Stalin contro la Germania nazista. Il libro è tuttora vietato a Cuba, in Cina, in Corea del nord e negli Emirati Arabi (qui non per ragioni politiche, ma perché i maiali che bevono alcolici offendono l’Islam).

Molti meridiani più a ovest, malgrado la costituzione degli Stati Uniti garantisse la libertà di parola e di espressione, il Maccartismo, nato durante la guerra fredda in un clima politico-culturale legato a crescenti timori di influenze sovietiche, portò a una repressione radicale e arbitraria con processi, condanne, espatri e censura di opere sospettate di contenuti filo-comunisti o antiamericani.

L’Unione Sovietica temeva gli Stati Uniti, gli Stati Uniti temevano l’Unione Sovietica. La Grecia dei colonnelli, invece, temeva se stessa, o meglio la Grecia classica, e censurò Listrata, una commedia scritta da Aristofane quasi duemilaquattrocento anni prima. Quei militari, che avevano portato a termine un colpo di stato di ispirazione fascista e istaurato una dittatura, ebbero paura di un gruppo di donne partorite dalla fantasia di un commediografo dell’antichità, perché troppo emancipate e portatrici di un messaggio di protesta antibellico già ai tempi della Guerra del Peloponneso.

Il teatro spaventò anche Mao Zedong, che nel 1966, tra altri testi, bandì per una decina d’anni l’opera omnia di Shakespeare, perché non conforme all’ideologia della rivoluzione contadina che stava attuando. Sembra che la Cina, dai tempi degli imperatori, continui ad avere qualche problemino col concetto di libertà di espressione, tanto che ancora oggi, nella Repubblica Popolare Cinese, persino il termine «censura» è censurato.

Dal momento che Aristofane non si faceva vedere da un po’ a far shopping in giro per la Plaka e Shakespeare non aveva in programma vacanze in Cina, nessuno dei due ha rischiato inconvenienti come una condanna a morte. Non così Salman Rushdie, che nel 1988 pubblicò I versi satanici, romanzo in cui si narra anche un episodio della vita di Maometto rivisitato in chiave onirica. Il libro fu censurato per motivi religiosi in Pakistan, Arabia Saudita, Egitto, Somalia, Sudan, Bangladesh, Malesia, Quatar, Indonesia, Sud Africa e India e valse a Rushdie una fatwā da parte dell’ayatollah Khomeyni, che lo condannò a morte per blasfemia. Nel 1989 il governo britannico gli assegnò una scorta, ma, inaspettatamente, furono vittime di aggressioni anche il traduttore italiano, pugnalato nella sua abitazione, quello giapponese, ucciso nel 1991, e l’editore norvegese dell’opera, ferito a colpi d’arma da fuoco. Trentatré anni dopo la fatwā, nell’agosto del 2022, sul palco dove stava per tenere una conferenza nello Stato di New York, Rushdie è stato colpito da una quindicina di coltellate in meno di venti secondi per mano di un ragazzo che all’epoca della condanna di Khomeyni non era neanche nato. A seguito di questo attentato l’autore ha perso un occhio e l’uso di una mano.

Ora che nelle democrazie liberali dell’occidente non sarebbero più accettabili autorità coercitive che, dall’alto, limitino la libertà d’espressione con arresti, roghi e il solito repertorio di rito, la censura non è più appannaggio di un gruppo di potere al comando, ma, sovente, viene promossa in risposta a segnalazioni, proteste e pressioni fatte dal basso, perché dall’alto si intervenga. Nei prossimi episodi analizzeremo quali forme ha assunto oggi il fenomeno, cominciando con lo scoprire quanto possano essere pericolosi Harry Potter e Winnie the Pooh, Cappuccetto Rosso e Anna Frank, i pastelli colorati e l’Amaro Montenegro. ♦︎


Foto di Michael Dziedzic