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C’è una storia, che non so bene da dove provenga, se dalla mia memoria o dalla mia immaginazione. Se proviene dalla mia memoria, è perché di questa storia ne sono stato testimone orale, non il protagonista, ancora non ero nato. Se invece dovesse provenire dalla mia immaginazione, sarebbe a causa del bisogno viscerale che questa storia mi appartenga. La storia riguarda la relazione tra un padre e un figlio: il padre che era mio nonno nei suoi ultimi istanti in un letto d’ospedale e il figlio che poco dopo sarebbe diventato mio padre. Mi è stato raccontato, o ho immaginato, che si fossero lasciati con riserva, con qualcosa di non detto, di inespresso, che il padre fosse morto senza essere riuscito a riconciliarsi con il figlio e che questo avesse avuto poi conseguenze nella relazione tra me e mio padre. C’era qualcosa che era mancato nel loro ultimo abbraccio, come se in quel ‘tra’ i loro corpi non ci fosse stato spazio a sufficienza per intrattenere un movimento di riconciliazione delle loro vite. 

È lo stesso rischio che corre, per tutto il corso del film, Will Bloom, uno dei protagonisti di Big Fish di Tim Burton. La storia di Big Fish è l’eco di una storia ancora più antica che viene insegnata a scuola, quella che riguarda la Telemachia, i primi quattro libri dell’Odissea. Ma oltre a mostrare la ricerca della verità di un figlio sulla storia del proprio padre, Big Fish ci vuole far riflettere sul valore di questa ricerca in rapporto con il mistero dell’alterità. Il padre è l’altro uomo che non sono io, non è il grembo da cui provengo, non è gli occhi in cui da infante mi sono specchiato per la prima volta. Lui è là fuori, per sempre al di fuori di me e io mai dentro di lui e, anche se non esiste più un’Itaca assediata che aspetta il suo ritorno, forse non potrò mai smettere di cercare.

La parola del padre

Ora immaginiamo di essere Telemaco, figli di un padre che è partito quando ancora eravamo in fasce. Di questo padre sappiamo solo attraverso le parole di coloro che lo hanno conosciuto prima di noi. Sappiamo che ha preso parte a una guerra durata più a lungo del previsto, ma neanche ora che la guerra è finita e ci ha raggiunto la notizia del ritorno dei soldati, Ulisse è ancora tornato. Sediamo sulla spiaggia, giochiamo a fare clessidre con la sabbia guardando l’orizzonte in attesa che qualcosa ritorni dal mare. Tutte quelle parole e quelle leggende accumulate intorno alla figura di nostro padre non hanno fatto altro che incrementare la nostra distanza. E così decidiamo di partire per andare in sua ricerca. Non possiamo fare a meno di metterci in viaggio, anche se è sconveniente lasciare la madre con i pretendenti a corte, anche se veniamo ammoniti che durante la nostra assenza si tramerà contro di noi. È troppo forte il desiderio di salpare per mare e seguire le tracce di Ulisse, di costui che è il nostro più intimo straniero. Immaginiamo che viaggiando abbiamo ascoltato le storie dei compagni di Troia e infine, dopo un po’ di tempo, abbiamo incontrato davvero nostro padre in un casolare, ma non abbiamo riconosciuto il suo volto, non abbiamo riconosciuto che fosse lui attraverso i segni (come il cane riconobbe l’odore, l’ancella riconobbe la ferita, la moglie il segreto del talamo). Ancora una volta, tra di noi si sono dovute mettere di mezzo le parole. Lui ha esclamato «sono io, tuo padre» e queste, pensava, avrebbero dovuto bastarci. Invece abbiamo dubitato prima che fosse un dio, poi un demone malvagio nel tentativo di ingannarci. Ed è da questo punto che chiedo di immaginare che le cose siano andate diversamente da come le ha raccontate Omero. Immaginiamo che Ulisse sia tornato a Itaca, abbia ucciso i Proci e si sia seduto nuovamente sul suo trono, ma noi, Telemachi sfrenati nell’impeto, non riconosciamo ancora il volto di colui che pretende di usare la parola del padre. Ascoltiamo a corte per molte notti e molti banchetti la sua odissea grazie alla quale è diventato una leggenda, quelle avventure le abbiamo sentite ripetere ormai talmente tante volte da averne le orecchie piene. Finché eravamo piccoli non dubitavamo della verità di queste storie, ora coltiviamo il dubbio che non siano vere. Come mai potrebbero esserlo? Sono storie di grande fantasia, che trattano giganti, streghe fatali, uomini straordinari, culture di popoli di cui non abbiamo alcuna esperienza. Noi non eravamo con Ulisse quando le ha vissute, abbiamo solo fatto incetta di parole. Ma le parole di uno straniero non ci bastano più. Allora cominciamo a non rispettare le sue leggi, torniamo su quella spiaggia a guardare l’orizzonte perché temiamo che nostro padre sia ancora là fuori, a navigare il mare ostacolato dai venti. L’unica cosa che ci resta da fare è prendere una barca, ripercorre le sue tappe, per trovarlo e riconoscerlo prima che lui possa aprire la bocca ripetendo «sono io, tuo padre».

Il pesce più grande e astuto

Mio padre ha raccontato molte cose che non ha mai fatto e sono sicuro che ha fatto molte cose di cui non ha mai parlato. Io cerco solo di riconciliare i due estremi

Will Bloom, Big Fish

Il Telemaco che abbiamo disegnato interrompendo la narrazione tradizionale assomiglia a Will Bloom della storia di Big Fish, un uomo ormai che fa il giornalista raccontando storie avvenute davvero, e a cui presto nascerà un figlio. Il rapporto con suo padre, Edward, è incrinato da anni, e lui non sembra interessato a migliorarlo. Le loro visioni sono troppo diverse, Will è ancorato alla realtà oggettiva (se mai ne esiste una) e non tollera che il padre abbia costruito una falsa narrazione intorno alla propria vita, una narrazione che finisce il più delle volte per sfociare nel fantastico: dai racconti di Edward si evince che abbia visto la morte futura nell’occhio di una strega, abbia viaggiato con un gigante, poi con il circo, che abbia conosciuto la cultura della curiosa cittadina di Spectre, che sia stato aggredito e che poi abbia accudito un lupo mannaro, che abbia preso parte nella guerra in Corea, che abbia conosciuto un poeta poi diventato un rapinatore di banche e poi un broker, ma soprattutto che sia riuscito a catturare il pesce più grande e astuto del mondo.

Ci sono dei pesci che nessuno riesce a catturare. Non è che siano più veloci o forti di altri pesci. È solo che sembrano sfiorati da una particolare grazia. Un pesce di questo tipo era la bestia. E all’epoca in cui io nacqui era già una leggenda. Aveva snobbato più esche da cento dollari di qualsiasi altro pesce in Alabama. C’era chi diceva che quel pesce era il fantasma di un ladro annegato in quel fiume sessant’anni prima. Altri sostenevano che era un dinosauro sopravvissuto al periodo crostaceo. Io non davo peso a queste speculazioni o superstizioni. Sapevo solo che avevo cercato di prendere quel pesce da quando ero un bambino non più grande di te. E il giorno in cui tu nascesti, beh… quel giorno finalmente lo catturai.

Edward Bloom, Big Fish

L’ultima grande avventura di Edward coincide sia con la cattura del pesce che con la nascita di Will. Da quel momento, l’uomo che fa la storia si trasforma nell’uomo che la canta. E il canto a poco a poco stona nelle orecchie del figlio e non produce che un’ulteriore distanza. Padre e figlio non sono mai stati così lontani l’uno dall’altro. Will Bloom è ancora quel Telemaco che dà le spalle allo straniero seduto sul trono e attende all’orizzonte l’arrivo di qualcosa. All’improvviso vede quello che non si era ancora prefigurato: la morte. Quando è ormai chiaro che Edward Bloom sia sulla strada per lasciare il mondo dei vivi, Will tenta di risalire il mare che sembra costituire la loro distanza. Qualcosa da questa ricerca emerge, effettivamente alcuni dettagli della storia raccontata dal padre ritornano come la cittadina di Spectre o il circo, ma mano a mano che nuovi particolari vengono a galla sembrano sempre meno rilevanti per quella che si dimostra essere la sua vera ricerca. Il problema è che Will pensava di star seguendo le tracce di un uomo e poi tutto d’un tratto scopre di star cacciando lo stesso pesce di suo padre.

Il figlio-Telemaco

Se gli uomini potessero scegliere ogni cosa da soli, per prima cosa vorrei il ritorno del padre.

Telemaco, Odissea

Il cinema ci ha permesso di tracciare una variante dalla tradizione dell’Odissea, ma alla tradizione dobbiamo fare ritorno. Dunque, immaginiamo ancora di essere quel Telemaco che sta sulla riva a osservare l’orizzonte, ancor prima che una qualsiasi forma di astio o una rabbia ci colgano di sorpresa, ancora prima che Ulisse sia tornato. Ma poi ritorna mai davvero? Perché abbiamo bisogno che ritorni?

Il desiderio di Telemaco non è solo desiderio nostalgico che il padre ritorni, ma che vi sia “padre”, […] che possa esservi un altrove, un’altra cosa.

Massimo Recalcati, Il complesso di Telemaco

Il padre non è grembo, non è seno, non è specchio, è qualcos’altro. È la nostra prima possibilità di apertura verso l’altro. È anche colui che, in quanto straniero più intimo, sembra designato per natura ad aprirci questa strada, che è la vera odissea di ogni essere umano: il desiderio di desiderare, fino alla fine e poi trasmettere la legge al figlio che verrà. Questa legge abbiamo la possibilità di conoscerla per la prima volta nella relazione con nostro padre, e forse se non imparassimo come relazionarci con lui, avremmo più difficoltà nella relazione con qualsiasi altro essere umano. Non solo: nell’accettare l’alterità del padre e il suo limite, incapaci di esaurirne il mistero, impariamo a mettere in discussione sia il concetto di differenza che quello di distanza. Per avvicinarsi deve esistere una distanza, così non dobbiamo soffrire la distanza da nostro padre, proprio come fa Telemaco: la sua assenza non è il trauma di un abbandono, di cui invece soffre Will Bloom il quale pensa di essere stato ingannato e di poter trovare la verità del padre al di fuori delle sue storie. Telemaco sta guardando dalla parte giusta, all’orizzonte, il suo desiderio è vivo, cerca di trovare un ordine al caos che ha invaso la sua terra. Will, invece, guarda dalla parte sbagliata. Will continua a pensare alle streghe, al gigante, alle fantasie e per quasi tutto il film non si accorge che dovrebbe guardare da un’altra parte. Alla fonte, che poi è il principio di tutte le storie, reali o immaginarie. Se siamo per il linguaggio significa che siamo per l’altro, significa che la nostra parola è una domanda rivolta all’altro. Se vogliamo intrattenere un linguaggio dobbiamo accettare questa distanza dell’altro da noi. Se vogliamo abbracciarci con i corpi, dobbiamo però prima farlo con le nostre parole e dobbiamo anche accogliere quelle storie il cui immaginario rompe con il nostro. Dobbiamo accogliere quel immaginario senza ragionare sulle differenze, ma sullo scarto. Lo scarto genera una tensione dinamica, si può esplorare e usare come risorsa perché produce un ‘tra’ l’io e l’altro, unica condizione possibile perché vi sia un vero abbraccio. Non è nelle cose, persone, situazioni straordinarie che sono capitate al padre, ma nella possibilità che esistano come qualcosa di altro, come un altrove. «La domanda di padre», questo Telemaco che osserva l’orizzonte in attesa, scrive ancora Recalcati, «non è più domanda di modelli ideali, di dogmi, di eroi leggendari e invincibili, di gerarchie immodificabili, di un’autorità meramente repressiva e disciplinare, ma di atti, di scelte, di passioni capaci di testimoniare, appunto, come si possa stare in questo mondo con desiderio e, al tempo stesso, con responsabilità. Il padre che oggi viene invocato non può più essere il padre che ha l’ultima parola sulla vita e sulla morte, sul senso del bene e del male, ma solo un padre radicalmente umanizzato, vulnerabile, incapace di dire qual è il senso ultimo della vita ma capace di mostrare, attraverso la testimonianza della propria vita, che la vita può avere un senso».

Father and son

Now there’s a way / And I know that I have to go away / I know I have to go

Cat Stevens, Father and son

Edward Bloom con le sue storie non ha mai cercato di trasmettere al figlio il segreto ultimo della vita, semmai ha cercato di offrirgli l’esempio di un uomo che,  non sapendo fermarsi alle apparenze, è sempre pronto a osservare le cose da un’altra prospettiva e a seguire le strade tracciate dal suo desiderio. È significativa la battuta di Edward al gigante: «Hai mai pensato che magari non sei tu ad essere troppo grande, ma che è questa città ad essere troppo piccola?», o della sua riflessione dopo essere stato aggredito dal lupo mannaro: «Fu quella sera che scoprii che quasi tutte le creature che consideriamo malvagie o cattive sono semplicemente sole. E magari mancano un po’ di buone maniere». L’uomo che Edward Bloom cerca di incarnare, la cui eredità viene affidata alle storie raccontate al figlio, è un esempio che non dobbiamo dimenticare. Il rischio che corriamo oggi è di abitare ‘l’inferno dell’uguale’, il conformismo radicale e l’omologazione, di vivere per un godimento sfrenato seguendo la furia cieca dei proci consumisti che non intendono lasciare il nostro palazzo. Invece il valore della storia di Edward Bloom risiede in questa sua capacità di alterarsi. Di accogliere lo stravagante, il diverso, il buffo, il malinconico e di vedere tutto come qualcosa di straordinario. Suo figlio Will rischia di fermarsi alla superficie di questi racconti, alla loro esteriorità ricavata dalle differenze con la mera realtà empirica. Non può esistere una strega nel cui occhio si scorge il giorno e il modo in cui si morirà, eppure Edward è così sicuro che non si spegnerà su un letto d’ospedale perché lo ha visto. Questo dettaglio è l’unico segreto inconfessabile al figlio, perché il figlio non è ancora stato in grado di immaginarlo. Se Will rimanesse ancorato al suo modo di vedere la realtà come se fosse l’unico modo possibile, Edward non potrebbe lasciare il mondo come lo vorrebbe lasciare, con la consapevolezza di aver trasmesso al figlio il desiderio di un altrove. 

Big Fish father and son

L’esteriorità si constata, l’alterità si costruisce.

François Jullien, Contro la comparazione

È il figlio che deve completare l’ultimo pezzo della storia del padre e deve usare le proprie parole. Will si avvicina all’orecchio di Edward e gli racconta come morirà: aveva ragione che non sarebbe avvenuto su un letto d’ospedale, ma sulle rive di un lago, e che sarebbero stati presenti tutti quegli altri che aveva incrociato durante la sua odissea per un ultimo saluto. E all’improvviso quando il figlio porterà in braccio il padre dentro il lago, il corpo di quest’ultimo si sarà trasformato in quello del pesce più grande e astuto, il Big Fish. Sfuggirà dalla presa delle mani e potrà nuotare libero verso l’orizzonte. Che fossimo Will Bloom o Telemachi sfrenati nell’impeto, quando ci siamo messi alla ricerca di nostro padre pensavamo di star inseguendo un uomo e non un pesce. Non un pesce-gatto, un pesce-uomo è il padre. La metafora del pesce è cruciale per molte significazioni: non solo perché se cerchiamo di portare il pesce a terra con la lenza, se lo allontaniamo dall’acqua, se cerchiamo di farne una conquista, uccidiamo il suo mistero inglobandolo nel nostro, ma anche perché il senso di questo suo essere sfuggente e di difficile cattura mantiene il nostro desiderio sempre vivo. Lo afferma lo stesso Edward nel monologo iniziale quando parla della ragione per cui ha rinunciato alla cattura:

Era il caso di privare mio figlio della possibilità di pescare un pesce del genere? La signora pesce ed io… Beh avevamo lo stesso destino. Facevamo parte della stessa equazione.

Edward Bloom, Big Fish

Così un padre non deve mostrare la propria vita al figlio come la conquista di un preciso oggetto che gli attribuisca senso, per esempio il pesce. Edward non è il padre che detiene l’ultima parola sulla vita e sulla morte, ma colui che ha saputo portare la parola fino al figlio e che sa anche detenere il potere di perdere l’ultima parola. È Will che deve costruire l’ultima tappa della sua alterità. E se il figlio ha capito come risolvere l’equazione, sarà lui stesso a trasformare il padre nel pesce che non si può catturare.

Altri abbracci

Se il figlio avrà capito l’equazione, allora la trasmissione della legge del desiderio potrà avvenire ancora. Will infatti sta per diventare lui stesso un padre. Mentre il vecchio padre lascia, arriva il nuovo figlio. Riuscirà Will a educarlo a desiderare un altrove, a desiderare un’altra cosa, a essere limite e soglia? Il film si chiude con questo interrogativo. È la domanda che poniamo a ogni padre del mondo attendendone sulla riva il ritorno. Una cosa curiosa della realizzazione di Big Fish è che le riprese affidate a Tim Burton sono iniziate poco tempo dopo la morte di entrambi i suoi genitori.

Big Fish ultima

Ho ripensato al rapporto con mio padre. Per quanto alla fine fosse un brutto rapporto, all’inizio era stato quasi magico. […] Anche se finisci per dimenticartelo, e invece è importante ricordare. Per un lungo periodo ho perso mio padre, me lo sono dimenticato. È dal momento in cui vai via di casa e diventi indipendente che quelle esperienze ti tornano fuori. Erano momenti molto forti, magici, quasi irreali.

Tim Burton

Ma poi Ulisse torna mai davvero? Se è tornato, è per andarsene ancora, questa volta per sempre. Si può ereditare solo quando si diventa orfani, quando non ci sarà più Ulisse. Allora Telemaco percepirà tutto il peso dell’eredità: dovrà portare avanti la memoria di un altro, senza confonderla con la sua, dovrà vivere il presente del suo desiderio senza affogare nei ricordi. Non è facile il rapporto dei figli con l’eredità perché non è chiaro cosa sia giusto conservare e cosa si possa invece dimenticare per avere un’immagine fedele di chi sono stati i padri, non solo per noi, ma anche per se stessi. Tim Burton, in un’intervista, ha confessato che la realizzazione di questo film è stata un’esperienza catartica, quasi come andare dall’analista. Forse gli ha permesso di dare a suo padre un altro abbraccio. Magari si erano lasciati con qualcosa di non detto, di inespresso. Proprio come in quella storia che vi ho raccontato all’inizio, la sola ragione per cui sono riuscito ad arrivare alla fine del pezzo. Perché credo che gran parte del potere che affidiamo alle storie sia questo: a volte la vita non si accorda con i nostri desideri, a volte la vita finisce con un padre e un figlio che non sono riusciti ad abbracciarsi, ma ci riusciranno altrove. ♦︎


Illustrazioni di G