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Thanks for the dance
I’m sorry you’re tired
The evening has hardly begun

Leonard Cohen

Fiction?

Gasparino è un macchinista che lavora a Roma. Per lui il cinema è prima di tutto una cosa pratica. È una macchina che deve funzionare, una questione di misure, delle luci da posizionare, delle richieste da soddisfare, per quanto possano essere le più vaghe e ideali, Gasparino ha imparato con l’esperienza a renderle reali. Lui sa dove vanno messe le cose per sortire l’effetto richiesto, per creare l’illusione voluta dal regista o dal direttore della fotografia. È uno degli uomini dalle soluzioni tecniche, per questo odia che si riduca il suo mestiere a quello di un semplice operaio. Anche se non saprebbe bene spiegarlo a parole, Gasparino sa che il suo lavoro è ciò che permette alla potenza di trasformarsi in atto. È anche la ragione per cui il cinema per lui, a volte, si rivela un inferno, una parolaccia masticata, un terribile mal di schiena che si trascina fino a casa. A casa però ritrova sua moglie Renata che sbaraglia tutta quella fatica con il sorriso. Si amano molto, sin dalle prime volte in cui Gasparino faceva il figo masticando con mistero le parole «sto nel mondo del cinema» e la portava in sala a vedere una qualsiasi pellicola a cui aveva lavorato. Renata ne stima il mestiere, ancor più quando viene a sapere che lui lavorerà al nuovo film di Federico Fellini dal titolo . Ma per quanto lei cerchi di indagare, Gasparino non ha grandi risposte da darle. Quando gliene hanno parlato, forse complice l’emozione, non ci ha capito niente. Comunque non c’è da preoccuparsi, le dice, sarà di sicuro un capolavoro. Poi viene il giorno del compleanno, Renata ha preparato la borsa con la bottiglia di spumante e i pasticcini perché il marito festeggi con i colleghi, ma non le basta. Vuole lasciargli un ultimo consiglio: se si trova negli studi di Cinecittà, invita anche Fellini a festeggiare. Gasparino non le risponde che lo farà. Prende la borsa, dà un bacio a Renata e si avvia verso il posto di lavoro. Però continua a pensare a quelle parole. Un po’ si vergogna a presentarsi nell’ufficio del regista, disturbarlo dai suoi impegni per bere un bicchiere. Chiede parere a un altro collega, Menicuccio, che con una vociaccia gli grida: «Ce penso io», e poi si allontana lasciando Gasparino con il battito accelerato e i colleghi che cominciano a radunarsi intorno a lui per il brindisi. Ma Menicuccio, che è uomo di parola, ritorna accompagnato proprio da Federico Fellini. Gasparino in quel momento non sa fermare la mente: pensa a sua moglie, a quanto sia bello far parte del mondo del cinema, pensa soprattutto al film che verrà. Fellini ci metterà le sue idee, lui lo aiuterà a realizzarle nella pratica. Ed è a questo che Gasparino capisce che bisogna brindare: «Questo sarà un gran film dottore, alla salute. Viva ».

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Autofiction?

C’era una volta un regista che voleva fare un film, ma non sapeva che film voleva fare. Intorno a lui, gli amici, i colleghi, fino ai produttori seguono e assecondano questa sua idea, sebbene i contorni e il nocciolo della storia restino molto nebulosi e confusi. Se quel regista sente la necessità di girare questo film, allora si può già pensare alla produzione, a scegliere gli attori, a preparare la troupe e stabilire i giorni delle riprese. Nessuno ha considerato l’eventualità che il regista fallisca perché non ha ancora chiaro che voglia fare. In quel momento il film è un insieme di immagini, di scene e dialoghi sporadici nella sua mente. E immagini, scene, dialoghi non sono cose, ma possibilità. Il passaggio dal possibile al reale avviene nel momento dell’osservazione: nel cinema, avviene quando una macchina da presa cattura queste possibilità e le imprime irreversibilmente sulla pellicola. Finché rimangono nello spazio interiore dello sguardo del regista, appartengono più al vuoto che al resto. Ma proprio nel momento in cui il regista stesso sarebbe pronto ad ammettere l’orrore di quel vuoto e fare i conti con il fallimento, l’amore e la fiducia delle persone che ha intorno, persone che credono e amano il suo cinema, lo aiutano a trasformare quell’orrore in meraviglia. 

era solo un ammasso di idee confuse. Fellini voleva che c’entrassero le terme e un uomo in bilico, ma non gli era chiaro ancora chi fosse quell’uomo: un ingegnere, un avvocato, un giornalista? La scrittura della sceneggiatura va a rilento e si interrompe bruscamente. Fellini si trascina fin quasi all’inizio delle riprese senza un copione valido e decide così di scrivere una lettera a Rizzoli, il produttore, per spiegargli che il film non esiste. Si trova a metà della lettera, quando viene invitato a bere un bicchiere di spumante per festeggiare il compleanno di un macchinista. Il brindisi, però, lo fanno in suo onore. Tutti i presenti applaudono e il regista si sente sprofondare nella vergogna. Non sale più nell’ufficio per completare la lettera, ma si va a sedere su una panchina, in mezzo a un andirivieni di operai, tecnici e attori di altre troupe.

Mi trovo in una situazione senza via d’uscita. Sono un regista che voleva fare un film che non ricordava più. Ecco, proprio in quel momento si è risolto tutto; sono entrato di colpo nel cuore del film, avrei raccontato tutto quello che mi stava accadendo, avrei fatto il film sulla storia di un regista che non sapeva più qual era il film che voleva fare.

Federico Fellini

La genesi di è evidentemente legata a un momento biografico della vita di Fellini, ma questo dettaglio non deve farci propendere per considerare l’opera una pratica di autofiction. La sua riflessione riguarda qualcosa di più ampio del segmento di vita di un singolo uomo. È legata al nostro rapporto con il vuoto, alle sue diverse declinazioni e possibilità. Del vuoto come esperienza di cui avere orrore. Del vuoto come intuizione di un’autentica pienezza.

Horror vacui

It was fine, it was fast
We were first, we were last
In the line at the 
Temple of Pleasure

Leonard Cohen

Nella scena iniziale di Fellini decide di condensare l’intero nucleo del suo film: il protagonista è bloccato nella sua macchina, bloccata a sua volta in un traffico così fitto che non esiste spazio vuoto tra le automobili. Rischia di rimanere asfissiato dai gas del veicolo, poi riesce a fuggire dal finestrino, ma non in un modo qualunque: volando. Si libra nell’aria come qualcosa di leggerissimo. Un palloncino? Un aquilone? Ma qualcuno lo ha acciuffato con una corda e all’improvviso lo tira giù. Il protagonista cade in picchiata, verso il mare, negli abissi più profondi e si risveglia da quell’incubo. Guido Anselmi è un regista che ha deciso di soggiornare per un po’ di tempo in una stazione termale. Intende recuperare le energie necessarie per le riprese imminenti del suo nuovo attesissimo film. Forse in realtà si trova lì per guarire da una malattia. Una malattia chiamata cinema.

Faccio un film come in fuga, come fosse una malattia da scontare. Insofferente e pieno di rancore guardo al film, come a un malanno di cui liberarmi; e mi illudo che la salute sia il momento nel quale mi allontanerò dal film; salvo poi a sentirmi nuovamente e diversamente malato quando dal film io sono fuggito, quando l’ho consegnato ad altri, quando cerco di riammalarmi con un film nuovo e diverso che mi dia necessità di liberarmi nuovamente, di guarire nuovamente, e di una nuova e piú ambigua complicità con me stesso.

Federico Fellini

I timori di Guido sono legati tanto alla sua creatività quanto alla sua identità di uomo. Per essere più precisi, è nella creatività che Guido ha costituito la sua identità. Ma se non avesse più nulla da raccontare? Se la prima si fosse estinta, cosa ne rimarrebbe della seconda? Sta cercando le risposte a queste domande in un luogo isolato, ma alle terme non ha un attimo di tregua: attori e addetti ai lavori soggiornano lì anche loro, e gli chiedono assiduamente informazioni sul film. Nessuno sa di cosa parlerà, né gli attori conoscono ancora la parte che interpreteranno. Il caos aumenta con l’arrivo dell’amico, dell’amante e della moglie, che lo allontanano ancor di più dalla sua ricerca di pace e amplificano il suo smarrimento. Stava cercando un luogo svuotato di tutto, ma lo ha scoperto affollato, proprio come il traffico della prima scena, proprio come lo è stata finora l’intera sua vita. Una metafora che rende alla perfezione il sentimento dell’horror vacui: un concetto fondamentale nella fisica aristotelica che sosteneva l’inesistenza di spazi vuoti. La natura aborre dal vuoto e così riempie ogni spazio. Dobbiamo immaginare che allo stesso modo sia trascorsa l’esistenza di Guido; che abbia vissuto per moltissimo tempo l’orrore di quel vuoto e abbia tentato di riempire ogni attimo della sua vita con qualcosa: piaceri e doveri, dagli incontri reali fino ai sogni. Il rischio però è che rimanga soffocato. E, mentre soffoca per i gas velenosi di una simile abbondanza, percepisce che questa è come il vuoto.

È la storia di un uomo come ce ne sono tanti: la storia di un uomo giunto a un punto di ristagno, a un ingorgo totale che lo strozza. Io spero che dopo i primi cento metri lo spettatore dimentichi che Guido è un regista, cioè un tipo che fa un mestiere insolito, e riconosca in lui le proprie paure, i propri dubbi, le proprie canagliate, viltà, ambiguità, ipocrisie: tutte cose che sono uguali in un regista come in un avvocato padre di famiglia.

Federico Fellini

Tra i filosofi contemporanei, dobbiamo a Byung Chul Han un’importante riflessione sul concetto di horror vacui e sulla sua presenza nell’esperienza quotidiana. Per Han l’orrore del vuoto è anche il terrore di annoiarsi. In una società di prestazione come la nostra, dove gli imperativi sono divenuti godere e poter fare, la noia genera una forte inquietudine. Raramente viviamo il tempo libero come un dolce far niente, invece si rivela una pratica angosciante. Perché in una società dove la libertà e l’imperativo sono arrivati a coincidere nel desiderio impossibile di raggiungere il massimo di se stessi – e delle proprie prestazioni -, non c’è, letteralmente, spazio per il vuoto. Allora come fare per librarsi in aria? Bisognerebbe essere estremamente leggeri, capaci di saper lasciare andare tutto.

Fellini_vuoto_copertina

Tra l’8 e il 9

Thanks for the dance
Bride of the inspired
One-two-three, one-two-three, one

Leonard Cohen

Il vuoto, per quanto possiamo cercare di fuggirlo e negarlo, sembra essere parte di noi. La società occidentale ha sviluppato l’horror vacui, ma in oriente esistono molte filosofie che ne hanno ricavato un’idea positiva: è concepito come la realtà che soggiace a tutti i fenomeni transitori, che trascende le forme e sfugge ogni determinazione. Aristotele e Platone non sarebbero stati capaci di figurarsi un universo simile, loro legavano il vuoto al concetto di non essere. La vacuità ipotizzata dal pensiero orientale, invece, è l’essenza di ogni cosa, è dove tutto va e viene. Neanche Guido si sarebbe mai aspettato di appartenere al vuoto. Ma deve farci i conti: il giorno dell’inizio delle riprese è arrivato, ed è chiaro che lui non abbia ancora in mente il film che vuole fare. Il cinema potenziale del suo sguardo non ha fatto altro che balzare da fatti reali a sogni e ricordi, ma ora che si trova in conferenza stampa davanti ai giornalisti non gli resta che ammettere il suo fallimento: il film non si farà. Sembrerebbe una storia senza lieto fine. Se non fosse che, proprio nel momento in cui le maestranze stanno smontando e distruggendo il set, Guido ha un’intuizione che trasforma il suo fallimento in un momento di autentica pienezza. Si trova nella sua auto, accanto c’è un critico cinematografico che si è appena lanciato in un monologo dove, in sostanza, gli dice che ha fatto bene ad abbandonare il film, perché sarebbe risultato mediocre e avrebbe comportato una fine tragica. Invece può aspirare a una fine diversa, come alcuni poeti del passato che hanno deciso di smettere di scrivere, perché se non potevano dire tutto, allora tanto valeva non dire nulla. Il vuoto del critico è ancora un’esperienza negativa, vissuta come una sconfitta alla quale non si giunge perché è arrivata prima la resa. È un invito a lasciarsi dominare dall’orrore. Ma all’improvviso Guido ha un’intuizione diversa e questa intuizione lo rende leggerissimo. Tutte le forme che il cinema assume nella sua immaginazione provengono da un informe vuoto. Nell’abbracciare l’esperienza di un’autentica pienezza, generata dal dire di no a realizzare il film a tutti i costi, si svincola dalla società della prestazione e potrebbe volare così in alto che nessuna corda sarebbe in grado di acciuffarlo. Ma questa volta Guido resta a terra e, nell’accettare lo spazio vuoto tra l’ottavo film e il nono che deve ancora arrivare, non solo salva il suo cinema, ma scopre anche la felicità. Ed ecco che al finestrino della macchina si affaccia uno degli attori, sorridente e pronto per le prime riprese. Ma quali riprese? Davanti al regista cominciano a comparire tutte le persone che ha conosciuto, reali e immaginarie, forse tutte immaginarie, ma che fanno parte di lui. Insieme si tengono per mano, in un girotondo circense che lui prima dirige e a cui poi si unisce, fino a rivedersi bambino.

Ma che cos’è questo lampo di felicità che mi fa tremare, mi ridà forza, vita? Vi domando scusa, dolcissime creature; non avevo capito, non sapevo. Com’è giusto accettarvi, amarci. E come è semplice! Luisa, mi sento come liberato: tutto mi sembra buono, tutto ha un senso, tutto è vero. Ah, come vorrei sapermi spiegare. Ma non so dire…Ecco, tutto ritorna come prima, tutto è di nuovo confuso. Ma questa confusione sono io, io come sono, non come vorrei essere adesso. E non mi fa più paura dire la verità, quello che non so, che cerco, che non ho ancora trovato. Solo così mi sento vivo, e posso guardare i tuoi occhi fedeli senza vergogna. È una festa la vita: viviamola insieme! Non so dirti altro, Luisa, né a te né agli altri: accettami così come sono, se puoi. È l’unico modo per tentare di trovarci.

, Federico Fellini

Superato l’orrore di quel vuoto comincia una vita contemplativa, e la contemplazione può rivelarsi una festa. La società della prestazione e del consumismo non smetterà mai di proporre la sua abbondanza, ma il regista adesso può andare e venire da quel vuoto, senza timore che il suo cinema percorra una rotta diversa: tutto ciò che va nel vuoto, dal vuoto può ritornare. L’identità e la creatività di Guido sono salve.

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Five easy pieces

Thanks for the dance
It was hell, it was swell, it was fun
Thanks for all the dances
One-two-three, one-two-three, one

Leonard Cohen

Ma la riflessione che implica un capolavoro come non si riduce alla vita di un singolo uomo. Quando il film è finito, le luci della sala si sono riaccese e noi abbandoniamo le poltroncine, il segmento della vita di Guido dovrebbe portarci a pensare al nostro. Il grande potere dell’arte è di metterci nelle condizioni di affrontare l’universale dal particolare e viceversa. Di tornare alle nostre vite dopo che le abbiamo prestate per due ore alle vite di altri. Come se lo sguardo di un singolo uomo aprisse uno squarcio per permettere anche agli altri di guardare.

All’inizio un film cos’e? Un sospetto, un’ipotesi di racconto, ombre di idee, sentimenti sfumati. Eppure in quel primo impalpabile contatto il film sembra già essere tutto se stesso, completo, vitale, purissimo. La tentazione di lasciarlo cosí, in questa dimensione immacolata, è grandissima.

Federico Fellini

Se un regista decidesse di trattenere per sé quello sguardo, se decidesse di non affrontare tutto ciò che la praticità del cinema comporta – lo scontro con la produzione, la stesura della sceneggiatura, la scelta degli attori, dei set, «questo bisogno che il film ha di trasformarsi in qualcosa di esatto e ritmato secondo scadenze» -, se un regista non accettasse il patto che il film che sta realizzando non sarà mai identico a quello che voleva fare, allora uno degli ultimi rituali che ci sono rimasti cesserebbe di esistere. 

Voglio dire che quando un certo numero di persone si raccoglie in un solo luogo, dove, alzandosi un sipario o illuminandosi uno schermo, appare qualcuno che racconta una storia, avviene di fatto la comunicazione di un messaggio. A teatro o al cinema questo rituale piú o meno sciattamente ha la possibilità di verificarsi; in altre parole il «luogo di raccolta» diventa una chiesa, un luogo adatto per accogliervi la comunicazione, il messaggio.

Federico Fellini

Quando con Gabriele, direttore della rivista che ha ospitato Five Easy Pieces, ho deciso di iniziare questa rubrica che si conclude oggi, il mio primo pensiero era quello di riuscire a comunicare la bellezza di prendere parte a questo rito. Ho parlato di film del passato, ma la mia speranza è che possa ancora esistere un cinema del futuro. Un cinema come lo è stato quello di Fellini. Perché il rito possa mantenersi vivo, però, non è solo necessario il coraggio di un regista. Senza gli spettatori nelle sale, senza un governo che creda nel valore del cinema e del teatro, senza un’educazione che dovrebbe partire dalle scuole per avvicinare i giovani alla scoperta del vuoto-pieno alla base di ogni relazione con l’arte, il nostro destino sarà quello, delineato anche da Byung Chul Han, di assomigliare sempre di più ad automi e di allevare generazioni dominate dal narcisismo e dalla depressione. Sembra una contraddizione, ma dovremmo affollare le sale, riempire tutti gli spazi vuoti dei seggiolini per ritrovare un altro vuoto in uno schermo di sei metri per tre. Un vuoto che non potremo mai superare, da cui tutto va e viene, e imparare a stare in questo vuoto tenendoci per mano nel grande girotondo della vita.

Five easy pieces, come le cinque dita di una mano. Ti saluto e ti ringrazio, lettrice o lettore. Ringrazio Gabriele e l’intera squadra di NoSignal Magazine per la fiducia. Vorrei infine ringraziare il misterioso artista che ha accompagnato questo breve viaggio con i suoi disegni.

Ora e sempre,
Viva il Cinema!


Illustrazioni di G