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C’erano una volta le favole della buonanotte, le chiamavamo così perché di solito non erano ancora arrivate alla fine che già ci eravamo addormentati. Erano storie grandiose, di animali parlanti, draghi mostruosi, storie di streghe e cavalieri. Ma chi avrebbe mai pensato che potessero esistere favole di pistoleri, cowboy e fuorilegge? Poi ci siamo imbattuti nelle prime civiltà e abbiamo scoperto i miti. Erano storie altrettanto grandiose, storie di dei, di semidei, di creature come Pegaso e l’Idra, ma chi avrebbe mai pensato che si potesse inventare una mitologia su pistoleri, cowboy e fuorilegge? 

Nel 1964, l’anno in cui gli Stati Uniti d’America cominciano la vera e propria guerra in Vietnam, nelle sale dei cinema italiani viene proiettato a ripetizione un western dal titolo Per un pugno di dollari. È un lunedì e ci si aspetterebbe l’incasso più basso della settimana, invece contro ogni previsione il conto al botteghino è di un milione e mezzo di lire. La gente esce dopo la proiezione e continua a canticchiare le canzoni, qualcuno cammina con l’andatura del pistolero, qualcun altro gioca con l’amico a chi estrae più veloce la pistola immaginaria dalla loro immaginaria fondina. Non hanno piena consapevolezza di ciò che hanno appena visto, ma sono sicuri che questo film non assomigli a nessuno dei western precedenti, con cui sono cresciuti gli stessi soldati americani ora impegnati in guerra. Doveva passare un po’ di tempo, non tanto per apprezzare i film di Sergio Leone, ma per comprenderne la portata. Non solo perché influenzarono i grandi futuri cineasti americani ed europei, ma anche per il loro valore di miti e per la loro poesia. 

Il mito di Leone 

Il cinema è il mito che si fonde sulla favola. Non è l’industria dei sogni. È la fabbrica dei miti.

Sergio Leone

Il cinema di Leone è stato spesso definito epico, ma cosa voleva intendere con «il cinema è il mito, la fabbrica dei miti»? Perché la mitologia nel suo significato più estensivo, designa un complesso di idee che assumono, nella coscienza collettiva di una società, il valore di simbolo. Per comprendere questa relazione, dobbiamo pensare alla definizione che del mito è stata data dall’antropologo Lévi-Strauss: il modo in cui una certa cultura organizza la sua visione del mondo all’interno di una struttura fondata su delle opposizioni di base. Noi non affidiamo più la nostra completa visione ai miti, ma non li abbiamo accantonati del tutto. Quelle contraddizioni non le abbiamo ancora superate. Dunque, una possibile interpretazione della frase di Leone è che il cinema sia l’arte per eccellenza che può inventare nuovi miti, come se da una tradizione in cui i miti venivano trasmessi oralmente fossimo giunti a un’altra società in cui, credeva lui, la trasmissione sarebbe avvenuta attraverso le immagini. Il meccanismo del cinema potenzia l’immagine catturata dalla telecamera, la proietta su uno schermo con una grandezza che non rispetta la realtà. I volti e i corpi dei personaggi non sono di dimensioni umane, il che potrebbe portarci a interrogare se, pur assomigliando in tutto a degli uomini, quei personaggi rappresentino versioni alternative degli uomini, proiezioni di uomini fuori da sé stessi, uomini di fantasia, ma non per questo fasulli. Degli dei forse? Dato che sono fisicamente più grandi degli uomini, potrebbero anche portare significati più grandi di loro. Il cinema ha la capacità di rappresentare certe verità che altrimenti sarebbero nascoste o distorte dai mezzi tradizionali di rappresentazione.  Anche il mito ha la capacità di comunicare in maniera più sintetica e intuitiva, ovvero più comprensibile, certi concetti complessi. Platone, per esempio, non rigettò i miti, ma li integrò nella sua dottrina utilizzandoli ora per semplificare e rendere accessibili certi concetti, ora per spiegare altri che andavano oltre l’indagine filosofica/razionale. 

Il cinema per me è prima di tutto uno spettacolo immenso, dove si ripropongono fatti della vita mascherati. È un veicolo per raccontare esperienze proprie, esperienze storiche, psicologiche, sempre attraverso la favola, attraverso il mito.

Sergio Leone

Queste interviste dimostrano come fosse interesse di Sergio Leone fondare le sue storie su un terreno favolistico. La favola, osserva Strauss, è un mito in miniatura, in cui le opposizioni sono riportate in scala ridotta. Ma se prima eravamo abituati a ben altro tipo di favola, il vero colpo di genio di Leone fu quello di intrecciarle con il genere western. 

sergio leone copertina

Il mito del West

Il West è già di per sé un mito, non designa solo un territorio fisico dell’America, ma soprattutto un terreno metafisico in cui l’uomo americano proiettò sogni e contraddizioni della società in cui viveva. Era il territorio selvaggio che chiamava a essere colonizzato, dove spesso l’unica legge in vigore era quella del più forte. Ma al tempo stesso rappresentava uno spazio immaginario in cui era possibile vedere sia il riflesso di ciò che l’America avrebbe dimostrato di essere come potenza colonizzatrice – l’immagine di un’America violenta – e poi di come voleva apparire al mondo o di come credeva di apparire – l’immagine di un’America garante di sogni e di giustizia. Gli eroi dei primi western erano incarnazione dell’uomo senza macchia, integro moralmente che antepone la giustizia a ogni altro precetto, catapultato in un mondo avverso, senza regole, si deve fare strada con le colt dimostrando di essere il più veloce e preciso a sparare. Ma soprattutto è espressione del mito della frontiera: un orizzonte così vasto dove sarebbe stato possibile non solo costruire nuove città, ma anche proiettare le proprie aspirazioni e il proprio avvenire. In termini metafisici: riflettere sulla relazione tra l’uomo e l’ignoto. 

I personaggi di Ford, se aprivano la finestra, lo facevano per guardare il paesaggio sconfinato, i miei invece, se aprivano la finestra, rischiavano solo di beccarsi una pallottola.

Sergio Leone

Prima dei film di Leone, il cinema western stava faticando. Gli eroi impeccabili dei film di John Ford, che dovevano rappresentare dei modelli per la società, cominciavano a stare stretti al pubblico. Il Vietnam portò sicuramente a una progressiva disillusione dell’ideale dell’eroe americano che agiva sempre secondo giustizia. Il lavoro di Sergio Leone sul mito cominciò quando decise che le sue storie non sarebbero assomigliate a quei western americani che aveva apprezzato da piccolo. Così la mitizzazione del suo cinema comincia con una demitizzazione dell’America. Le sue favole western non erano americane, conservavano semmai lo sguardo di un italiano che aveva guardato all’America come fosse un mito e che certamente era stato influenzato nel suo immaginario. Ma dovevano essere più crude e poi dovevano conservare il suo sguardo italico e pieno di poesia. Così lo spettacolo del cinema hollywoodiano, riprodotto con una tecnica assoluta, veniva a legarsi con la volontà di raccontare storie dal senso stratificato, nascosto in maniera magistrale sotto un cappello, un cinturone e degli stivali. 

La Trilogia del dollaro

Ora immaginate che gli Achei e i Troiani, invece di chiamarsi così, si chiamassero Rojo e Baxter, immaginate che in questa versione del mito, Ulisse non si sia schierato né dall’una né dall’altra fazione, ma che debba cercare con la sua astuzia di farle ammazzare tra di loro, e che questo Ulisse non abbia nome: un signor nessuno, lo straniero. Questo è l’inizio di Per un pugno di dollari, il primo film che assieme a Per qualche dollaro in più e Il Buono il Brutto e il Cattivo, compongono la Trilogia del dollaro. Tre storie che si possono ridurre mitologicamente a due opere epiche: l’Iliade, il racconto di guerra (Per un pugno di dollari) e l’Odissea, il racconto del viaggio (Per qualche dollaro in più) e una fusione di Iliade e Odissea, il racconto del viaggio in un racconto di guerra (Il Buono, Il Brutto e il Cattivo).

Ho sempre sostenuto che il più grande scrittore di western è Omero, e che i suoi personaggi non sono altro che gli archetipi degli eroi del West. Ettore, Achille, Agamennone non sono altro che gli sceriffi, i pistoleri e i fuorilegge dell’antichità.

Sergio Leone

Delle storie western americane Leone conserva alcuni elementi e caratteri, come la situazione iniziale di disequilibrio che il pistolero è chiamato a risolvere (una città soggiogata dalla violenza di due famiglie, una vendetta da compiere, un tesoro nascosto sotto terra), che ha come conseguenza il finale in cui deve andarsene perché l’equilibrio da lui ristabilito possa essere mantenuto. Ma se prima nei film americani i temi della violenza e della morte erano attutiti per confortare il pubblico, con la ‘Trilogia del Dollaro’ vengono riproposti in primissimo piano.

Non è che nei film americani la gente non morisse. Moriva male, in campo lungo, e il pubblico quasi non si rendeva conto dell’idea della morte. La morte, invece, deve rappresentare una reale paura, e puo’ farlo soltanto attraverso l’esistenza fisica. Il personaggio che muore deve urlare, lo sparo deve essere amplificato. I miei film sono favole, e le favole non possono essere rappresentate con bonarietà. Perché i film di Disney, quelli con attori in carne e ossa, sono brutti? Perché fin dal primo momento si capisce di assistere a una favola non vera, a qualcosa di artificioso e di banalmente edulcorato.

Sergio Leone

Le favole leoniane, proprio come i miti più antichi, non sono una rielaborazione di fatti reali, ma visioni spontanee. Sono storie vere in cui l’uomo proietta se stesso per conoscersi. Di questa proiezione non si devono cercare allegorie: dietro la favola c’è già la realtà. Non sono edulcorate, sono vicende che amplificano quelle umane. È come se guardassimo alla realtà con una lente d’ingrandimento. Il West pieno di contraddizioni, di incanto e disincanto, il West come terra di violenza è il luogo dove la lotta tra bene e male assume contorni più sfumati e viene narrata in forma grottesca ed essenziale. Siamo catapultati in un mondo dove regnano la vendetta e i dollari, dove la febbre dell’oro non risparmia neppure il protagonista, il cui obiettivo principale rimane quello di arricchirsi. Anche nel momento finale dello scontro con il cattivo, il protagonista non è mai motivato da una vera sete di giustizia, ma dai dollari che otterrà con la sua vittoria. C’è una sovrapposizione tra la giustizia (intesa come l’equilibrio ristabilito a discapito della sconfitta del cattivo) e la volontà del pistolero, ma questa volontà viene investita di una giustizia assoluta a posteriori, dalla nostra moralità di spettatori. In Per un pugno di dollari Clint Eastwood sconfigge Gian Maria Volontè non perché vede giusta la sua azione in senso assoluto, ma perché la ritiene necessaria al fine di raggiungere il suo obiettivo di guadagno. La conseguenza di tale gesto produce certo una giustizia perché libera la comunità dalla tirannia del cattivo, ma l’unico ideale che l’ha resa possibile è quello dei dollari. Il tradimento, tema ricorrente nei miti e nei poemi omerici, è una delle cifre stilistiche di Leone, così come lo spazio lasciato all’elemento comico e al momento di commedia. Se la vita è un continuo scontro di forze opposte, se nella vita si ride, si piange, si sta in tensione, i film, quelli che sono una proiezione mitica della vita, devono far ridere, piangere e tenerti in tensione nell’arco di novanta, centoventi minuti. Devono coesistere diversi piani, non bisogna eliminare le contraddizioni, ma esaltarle. Nel terzo film, un personaggio come Tuco, il Brutto, risulta così riuscito perché contiene dentro di sé tutte le contraddizioni: non è cattivo, ma è opportunista, non è buono, ma neppure è malvagio, non può essere bello e nemmeno così scaltro come gli altri due; in tutto il corso della vicenda è quello che subisce di più e subendo scatena il nostro riso e si conquista la nostra simpatia. È proprio nel senso che al mito attribuì Lévi Strauss che dobbiamo interpretare le favole leoniane:  i miti sono elaborati nel tentativo di affrontare le opposizioni e le contraddizioni di una particolare società in un determinato periodo storico. La complessa struttura del mito mette in relazione le varie coppie di opposti, nel tentativo di superare le loro contraddizioni che però non si possono mai risolvere del tutto. Il mito può, dunque, offrire una narrazione che renda questo problema insolubile, un problema più accessibile. Pertanto, era necessario giocare con le sfumature: così nel buono vi è anche il male, nel cattivo esiste un lato affascinante e il brutto ha una sua bellezza.

Sergio leone Clint Eastwood

Con questa faccia da straniero

Si potrebbe obiettare che questi personaggi mitici, in quanto proiezioni non siano reali, che rischiano di essere delle caricature, non rintracciabili nell’esperienza quotidiana, valide solo al cinema; si potrebbe obiettare infine che non esistono e mai esisteranno, ma solo in parte è così.
C’è una poesia di Pessoa, molto enigmatica, tratta l’argomento del mito e in particolare del mito di Ulisse. La leggenda vuole che Lisbona sia stata l’ultima città fondata dall’eroe prima di spingersi oltre le colonne d’Ercole. La poesia recita:

Il mito è il nulla che è tutto.

Lo stesso sole che apre i cieli 

 È un mito brillante e muto, 

Il corpo morto di Dio,
Vivente e nudo.

Questi, che qui approdò,
Fu per non essere esistito.
Senza esistere ci bastò.
Per non esser venuto venne
E ci creò.
 Così la leggenda scorre
Entrando nella realtà.
E a fecondarla decorre.
In basso, la vita, metà
Di nulla, muore.

Il richiamo a Ulisse non è ingenuo. Il nome viene citato solo nel titolo, ma Pessoa gioca con le contraddizioni: il nulla che è tutto, l’essere per non esistere e così via. Con l’uso delle contraddizioni vuole che si rifletti su questa figura, che nonostante la sua assenza dalla comune esistenza, anche testuale, detiene la potenza di essere il segno che dà valore alla nostra presenza. Ulisse è lo straniero per eccellenza, colui che nell’immaginario vaga alla scoperta dell’ignoto, ma è anche la figura che identifica il navigatore errante, quella parte dell’uomo che desidera conoscere ciò che sta oltre il porto della sua esperienza. La leggenda vuole che Ulisse fondi Lisbona, la realtà è che Lisbona diventerà nel tempo una città di navigatori. La sua leggenda è ciò che feconda la realtà e poi passa, i personaggi di Leone sono come Ulisse: sono per non esistere. Vanno e vengono da un luogo ignoto e a noi inaccessibile. Non sono gli eroi dei precedenti film americani, sono piuttosto segni e simboli di ciò che significa, con tutte le contraddizioni annesse, essere un semidio/uomo in un sistema di relazioni dove prevalgono il cinismo e la violenza. Se i greci proiettarono negli dei vizi e le virtù della loro civiltà fino all’estremo, allo stesso modo dobbiamo riferirci ai personaggi leoniani; se possiamo leggere quella civiltà attraverso i suoi miti perché i miti sono visioni spontanee della realtà, possiamo guardare questi film e capire qualcosa della civiltà di cui hanno costituito una mitologia. Non troveremo mai nella vita vera una persona che sia la copia identica dello straniero di Clint Eastwood. Questo straniero non esiste, ma ci basta. Per non essere venuto, venne e dimostrò che quando un uomo con il fucile incontra un uomo con la pistola, l’uomo con il fucile è un uomo morto. 

E’ un personaggio che viene dal nulla e nel nulla va, e che nel frattempo diventa arbitro tra due nuclei di potere. In fondo, e’ questa l’essenza vera del mio cinema: una favola ricca di agganci con la realtà’ contemporanea.

Sergio Leone

La prima volta che vidi questi film in sequenza, pensai che il personaggio incarnato da Clint Eastwood fosse lo stesso in tutti e tre, poi ho capito che non era frutto della mia disattenzione di bambino quanto di una scelta voluta dall’autore. Questo personaggio non ha nome e la sua innominabilità, il fatto che ci si riferisca a lui attraverso epiteti (biondo, lo straniero), la sua vaghezza consolidano il legame con l’ignoto e con la leggenda che va a costituire nell’immaginario. Nel terzo film, l’unico altro nome con cui ci si riferisce al Cattivo è Sentenza, un altro epiteto: la parola “sentenza” identifica il personaggio come un pistolero infallibile, il più cattivo dei cattivi. Per Tuco, il Brutto, dobbiamo pensare alla parola ispano-americana «tuco-tuco», che si riferisce a una specie particolare di roditori sotterranei, quindi a una bassezza di costumi, in generale a un’idea di bruttezza e sporcizia. È lo stesso valore degli epiteti nei poemi omerici: identificare un personaggio attraverso una delle sue qualità (per esempio Ulisse è il multiforme, Achille è piede veloce). E così i personaggi leoniani finiscono per assomigliare più a degli dei (o semidei) che a degli uomini. Attraversano le vicende umane, talvolta cercando di stare in disparte per raggiungere i loro obiettivi personali, talvolta intrecciandosi con tali vicende, sempre per i propri scopi: un caso eclatante è Il Buono, il Brutto e il Cattivo. I tre protagonisti sono stranieri alla guerra di secessione che sta infuocando l’America, il loro unico interesse è recuperare l’oro da una tomba, eppure nel corso del loro viaggio la incrociano continuamente, e la guerra chiede loro di giocare dei ruoli e poi di scambiarseli. Ma noi spettatori sappiamo che la guerra non potrà portarceli via prima del finale, che intorno gli uomini moriranno atrocemente, ma loro proseguiranno il cammino. Sono immortali, o quasi: un dio può essere ucciso solo da un altro dio. E Sergio Leone ha preparato tutto perché si giungesse all’unico finale possibile, duello o triello che sia.

Tu il gioco lo conosci

Il western è già dato, è lì, è una specie di scacchiera con i pezzi, quello che fai tu è giocare la partita, in questo caso inventarsi pezzi che non esistono, mosse che nessuno ha mai pensato prima.

Alessandro Baricco

Tutti e tre i film della trilogia del dollaro conducono a un finale epico, il momento in cui questi esseri mitologici devono scontrarsi a duello. La musica, che per tutto il corso della storia, mischiandosi assieme alle immagini e ai dialoghi taglienti, ha contribuito a fondare l’epicità della vicenda, raggiunge l’apice assieme alle inquadrature che si susseguono con un ritmo serrato e fanno crescere la tensione in attesa dell’istante dello sparo. Con lo sparo il passaggio continuo delle inquadrature si arresterà assieme alla musica. Sergio Leone ci tiene lì, incollati alla poltroncina in sala, potremmo aver visto quel finale cento volte che ci lascerebbe comunque con il fiato sospeso, sovrastati dall’atmosfera epica del duello finale. Si spara solo quando la musica è finita ed è essenziale per mantenere la tensione del racconto mitico/epico proiettato sullo schermo. La musica e le immagini sono tutte pensate per arrivare alla sequenza finale del duello con le pistole. Se non c’è il duello non c’è il western, ma Leone riesce a essere ancora più originale e aggiunge il terzo uomo, così nel secondo e nel terzo film assistiamo a un triello (anche se alla fine tutto si riduce sempre a un duello a due). In Per qualche dollaro in più, Clint Eastwood garantisce che il duello tra gli altri due pistoleri avvenga regolarmente, nel Il Buono Il Brutto e il Cattivo, anche il terzo uomo può sparare, ma Tuco non ha pallottole nella pistola e quindi l’arma gli si inceppa. Il duello epico tra due personaggi è un elemento ricorrente anche nei miti e in particolare nel poema omerico dell’Iliade. «Ogni bravura ricorda; ora sí che tu devi esser perfetto con l’asta e audace a lottare!» grida il furioso Achille contro Ettore, che nel western si traduce in «al cuore, Ramon, mira al cuore, per uccidere un uomo devi mirare al cuore». Abbiamo visto questi pistoleri uscire indenni da ogni altro scontro a fuoco, ma ora che si trovano di fronte devono battersi per decretare il migliore tra i migliori.

Io non a caso ho detto che il più grande scrittore di western è Omero, avendo scritto di personaggi che sono egocentrici, personaggi che affidano alla loro valenza, alla loro bravura l’attimo fuggente della vita né più né meno come un cowboy lo affida all’estrazione rapida della pistola.

Sergio Leone

Il culmine dell’azione epica nell’Iliade coincide con il duello finale tra Ettore e Achille così come il culmine nella Trilogia del dollaro e più in generale nel western si raggiunge con il duello tra i due pistoleri. Un duello tra sceriffo e bandito sarebbe un richiamo esplicito al bene che si batte contro il male, ma nel poema omerico come nelle pellicole leoniane i contorni sono più sfumati. Nella trilogia del dollaro c’è il cattivo, ma si batte in un mondo di cattivi dove anche il buono non è mai buono fino in fondo.

Fanciulli, cinema e dinamite

Il mondo dell’infanzia, della fanciullezza, in fondo se vuoi i miei film sono il mondo giudicato da un bambino.

Sergio Leone

Il bambino che ascoltava sognante la favola raccontata dal genitore s’è addormentato prima del finale, proprio come mi accorgo che in sala Soldati del Cinema Massimo di Torino le palpebre di qualche spettatore hanno ceduto davanti al Il Buono, il Brutto e il Cattivo di Sergio Leone. Questo fatto non mi meraviglia né mi porta a credere che si siano annoiati. Non deve meravigliarci che gli spettatori si siano addormentati sotto il fragore della dinamite o i bambini mentre Cappuccetto Rosso si trovava nella pancia del lupo. È proprio perché sono favole che ci fanno sognare, sono miti perché ci fanno accedere alla parte più primitiva di noi, di quei primissimi e antichi popoli che per fare proprio il mondo sentirono il bisogno di poetare delle leggende. GiamBattista Vico scrisse che i primi popoli furono popoli di poeti, il che equivale a dire che i primi popoli furono popoli di bambini. Saggi fanciulli che sentivano la verità ancora prima di conoscerla con la ragione. Prima ancora che una ragione collettiva potesse formarsi, avevano fondato una collettività estetica. Se, come scriveva tra gli altri anche Montaigne, i giochi dei bambini non sono giochi, ma devono essere considerate come le loro azioni più serie, allora anche le favole devono essere interpretate in tal senso. Lo stato di indeterminabilità di un bambino (ovvero lo stato di poter ancora abbracciare tutto il possibile) è uno dei punti sui quali Friedrich Schiller costruisce il suo pensiero sull’estetica. E anche Sergio Leone, mentre pensava e poi girava questi film, deve essere riuscito a tornare bambino, o almeno a comunicare con quella parte fanciulla che non invecchia col trascorrere del tempo. È dello stesso parere Martin Scorsese che risponde così a una domanda postagli sul regista italiano: «Guardando i suoi film ho capito che quell’uomo era ancora un bambino dentro e fuori, un bambino che gioca ai cowboy, che ama divertire i suoi amici».

La scelta di Leone di affidare il suo cinema al meccanismo della favola e del mito deve essere letto anche in tal senso. Questo genere di racconti è popolare, a un primo livello accessibile a tutti, è una scelta di chi spera che il suo cinema arrivi a un gran numero di persone e non solo a un’élite che possa compiacersi di essere l’unica in grado di comprenderlo. Tuttavia, il fatto che i suoi film siano così popolari, non esclude che nascondano altri livelli di senso. Leone non si è mai esposto fino a quel punto, ha preferito che fossero gli altri a parlare al suo posto, lui invece ha sempre ribadito il legame tra il suo cinema e la favola. Dunque, non ho a disposizione altre interviste che possano attestare direttamente quanto segue, ma vorrei dirvi che in parte Sergio Leone stava mentendo quando disse quella frase sulla differenza tra i suoi film e quelli di John Ford. Non era bugiardo nell’ammettere che fossero molto più crudi e violenti, ma stava mentendo sulla finestra: la finestra intesa come soglia da cui qualcuno guarda o spia, non l’orizzonte vasto, ma l’azione più vicina. In questo gesto, presente anche nelle pellicole leoniane, è nascosta una riflessione del cinema su se stesso, sul potere che il cinema ha di fabbricare miti attraverso immagini che guardiamo proiettate. In quel personaggio che spia oltre, c’è la metafora del regista, che ha guardato il mondo da un obbiettivo e anche la metafora dello spettatore che lo sta osservando da una grande telo a parete. Ma c’è ancora di più, vorrei dirvi che, mentre li guardiamo, questi film hanno il potere di guardarci. I primi piani sugli sguardi dei pistoleri non puntano dritti solo l’uno contro l’altro, ma anche verso lo spettatore. Quello sguardo che mi coglie nel buio della sala, grande come lo sguardo di un dio, non vuole solo fondersi con il mio in modo che mi goda appieno lo spettacolo dell’immedesimazione, ma anche che mi accorga della posizione in cui mi trovo: io sto guardando. Il piacere dello spettacolo inteso come il piacere della vista delle cose belle è solo la metà di un percorso. L’altra metà è la consapevolezza della costruzione in continuo divenire dei significati che si attribuiscono partendo dallo sguardo. I significati delle immagini si costruiscono tra gli sguardi di una collettività, ed è la ragione per cui al cinema il significato non è solo opera del regista, ma vi contribuisce anche lo spettatore. Lo spettatore si affaccia a una grandissima finestra e all’inizio non si accorge che le immagini proiettate vanno e vengono dall’ignoto. ♦︎


Illustrazioni di G