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L’8 maggio è fallito l’ennesimo tentativo di accordo fra Egitto, Sudan ed Etiopia per la realizzazione dell’immensa diga ed ora la polveriera pare pronta ad esplodere

A chi appartiene il Nilo? La domanda potrebbe suonare retorica, quasi assurda se si pensa che stiamo parlando del secondo fiume più lungo al mondo, il cui corso attraversa ben otto Stati diversi. Eppure di questi tempi la risposta pare non essere troppo scontata, almeno per quelle popolazioni che dalle sue acque dipendono per la loro sopravvivenza.
Tre, in particolare, sono i Paesi che si stanno contendendo negli ultimi mesi i diritti allo sfruttamento del Nilo, da una parte l’Etiopia, dall’altra Sudan ed Egitto, unitesi in sodalizio contro il comune nemico. Al centro della disputa una diga, la Gerd, Great Etiopian Renaissance Dam. Un progetto mastodontico lanciato dal governo di Addis Abeba già nel 2011 e ormai prossimo alla fase conclusiva e alla messa in funzione. Una diga della lunghezza di 1800m, alta 170 m e dalla capacità di 10 milioni di m3. (Webuild, 19/06/2021)
La tensione tra i tre Stati è salita negli anni, raggiungendo il culmine prima nel 2020, con l’avvio da parte di Addis Abeba del primo riempimento del bacino, per poi sfociare ulteriormente nei mesi scorsi con il mancato raggiungimento di un accordo in occasione dell’incontro a Kinshasa dell’8 maggio sotto gli occhi dei rappresentanti dell’Unione Africana. L’Etiopia ha, infatti, dichiarato di voler procedere con la fase due del riempimento del bacino, dando il via al funzionamento della diga e delle due centrali elettriche ad essa collegata.


Il grande sogno dell’Etiopia

La Gerd è stata, infatti, progettata con il fine di incrementare il processo di modernizzazione e sviluppo dell’Etiopia, consentendole di diventare il principale produttore ed erogatore di energia elettrica dell’area. Addis Abeba spera di arricchirsi notevolmente con gli introiti derivati dalla vendita di elettricità prodotta da quello che, una volta terminato, rappresenterà il più grande centro di distribuzione di energia elettrica di tutto il continente africano, con una produzione di 15.000 gigawattora (Scipione A., Indsideover del 18/06/2021). Un vero motivo di orgoglio nazionale, capace di riaccendere le speranze di un Paese che sta vedendo il suo sogno di sviluppo e trasformazione in grande potenza dileguarsi sempre più, costringendo la popolazione a risvegliarsi quasi in un incubo, con un’economia stagnante e arrancante, ben lontana dalle cifre ipotizzate solo qualche anno fa e che avevano valso all’Etiopia l’appellativo di Cina d’Africa.

La grande diga parrebbe capace, non solo di far uscire gli etiopi dal tunnel della crisi, ma anche di mettere, forse per la prima volta, d’accordo tutte le diverse etnie presenti sul territorio del Paese.

Già, perchè non è solo la delusione per il mancato raggiungimento degli obiettivi sperati a travagliare il popolo etiope. Anche se spesso passata in sordina e taciuta a livello internazionale, l’Etiopia sta, infatti, vivendo l’incubo di una guerra civile, esplosa nel 2020 con la ribellione della Regione del Tigray per le mancate elezioni politiche, e che da allora si protrae, corrosiva come un acido, e fatale per la minoranza etnica tigrina. Gli organismi internazionali denunciano da mesi i soprusi e le stragi che stanno subendo i ribelli, ormai ridotti allo stremo dalla violenta politica repressiva del governo di Addis Abeba. Una repressione che sta mostrando la grande inventiva del premier in carica Abiy Ahmed nel trovare sempre nuovi strumenti di tortura, da ultimo quello della carestia, e che ha portato buona parte dell’opinione internazionale ad avere il coraggio di pronunciare quella breve ma pesante parola: genocidio.

Un tracollo definitivo quello del primo ministro Abyi, insignito, non di meno, del Nobel per la Pace nel 2019, eletto a furor di popolo ma poi dimostratosi poco all’altezza, anche lui, delle aspettative dei suoi concittadini, e, secondo alcuni, tra cui proprio i ribelli del Tigray, costretto ad inventare numerose scuse per posticipare le tanto temute elezioni, dalle quali uscirebbe quasi certamente sconfitto.

Ecco dunque giungere il Gerd come ultima ancora di salvataggio per il premier, l’avvio della centrale da presentare come grande successo in campagna elettorale e sperare, così, di risollevare la sua immagine.

Ed ecco, dunque, spiegato il motivo dei fallimenti delle varie trattative con Egitto e Sudan e la tenacia dell’Etiopia nel proseguire le sue mire, rimanendo completamente sorda agli appelli dei due vicini preoccupati.

Tenacia ancor più giustificata se si pensa che gran parte dei lavori di costruzione della diga è stata finanziata con i soldi dello stesso popolo etiope, a seguito del rifiuto della Banca Mondiale, e di altri organismi internazionali, di investire nel progetto.

Le conseguenze per Egitto e Sudan

Ma andiamo, ora, ad analizzare quali sarebbero i reali effetti della messa in funzione della diga e quali danni subirebbero le due Nazioni che più si ritengono lese dalla realizzazione del Gerd.

La grande diga è stata eretta lungo il corso del Nilo Azzurro, effettivamente uno dei più importanti affluenti del Nilo e le cui acque contribuiscono per quasi l’84% alla portata del suo fratello maggiore.

Una deviazione di questo affluente per permettere il riempimento del bacino della diga rischierebbe di provocare, quindi, un effetto importante sulla quantità d’acqua disponibile per i Paesi a valle, malgrado le rassicurazioni di Addis Abeba, la quale garantisce un impatto zero sulla portata del Nilo da parte della Gerd.

Sicuramente la situazione preoccupa notevolmente le Regioni che dalle acque del Nilo dipendono, e che hanno denunciato già l’anno scorso, a seguito del primo riempimento del bacino della diga, una notevole diminuzione della quantità d’acqua a disposizione della popolazione. Un gravissimo effetto, se si pensa a quanto scarso e importante sia questo bene per le genti di quei luoghi, la cui sopravvivenza è particolarmente legata ancora all’agricoltura, e per le quali l’acqua rappresenta già di per se una ricchezza e una rarità.

Inoltre si deve tenere conto dell’attuale situazione politica di questi territori, distrutti dal perdurare di guerre interne, costantemente oppressi dal terrorismo jiahdista e impossibilitati a svilupparsi e ad uscire da uno stato di estrema povertà a causa di un governo permanentemente in mano a despoti poco preoccupati per il benessere del loro popolo, ma più attenti al proprio tornaconto. In una situazione di questo tipo diventa difficile pensare che Paesi come il Sudan siano in grado di attuare politiche di riparo e trovare metodi alternativi per far fronte all’eventuale drastica riduzione della propria disponibilità idrica.

Malgrado ciò, le attenzioni di Kathoum, attualmente nelle mani di una giunta militare, paiono più rivolte verso possibili strategie politiche, che non interessate all’effettivo fabbisogno idrico del Sudan. Il Paese, infatti, era rimasto inizialmente neutrale, anzi addirittura favorevole alla realizzazione della diga, per poi cambiare improvvisamente opinione e schierarsi di fianco ad un alleato strategico di maggior peso e sicurezza quale il Cairo. Sembra, inoltre, che il rifiuto ad appoggiare il progetto di Addis Abeba sia attualmente dovuto anche all’incrinarsi del rapporto fra i due governi per questioni sullo sfruttamento di territori di confine mai risolte e ora ripresentatesi con rinvigorita asprezza.

Identica appare essere la situazione per Il Cairo. Malgrado abbia fatto sentire la sua protesta da subito, sottolineando come l’Egitto dipenda per il 55% dal Nilo per il suo fabbisogno idrico, il governo di al Sisi ha tranquillizzato subito i suoi cittadini, attraverso le parole del ministro per l’agricoltura, affermando che erano state prese contromisure per far fronte alla minor portata del fiume causata dal primo riempimento della diga, e che il Paese avrebbe le capacità di far fronte anche ad un’eventuale secondo riempimento.

Dunque anche per il Cairo le ragioni che spingono il governo ad apporsi fermamente al progetto Gerd paiono essere più di stampo politico e storico.

L’Egitto ha, infatti, tentato più volte di dirimere ogni questione facendo leva su un trattato sulla suddivisione delle quote per lo sfruttamento del Nilo stipulato con Sudan e Regno Unito nel 1959, il quale non teneva conto degli altri territori attraversati dal lungo corso del fiume. Inoltre il Cairo ha tentato di far valere anche i suoi maggiori diritti di possesso sul Nilo legati al simbolo che questo fiume rappresenta per la civiltà egizia, essendone stata la sua culla.


Le conseguenze della crisi

La situazione nell’area si sta scaldando sempre più, con Egitto e Sudan già impegnati in manovre militari viste come minacce dall’Etiopia, e il governo del Cairo che ha stipulato negli ultimi mesi svariati accordi con altri Paesi interessati allo sfruttamento del Nilo, in particolare Burundi, Uganda e Kenia. All’avvicinarsi del mese di luglio e dell’avvio al secondo riempimento della diga, la tensione si fa crescente ed elettrizzante. Egitto e Sudan, malgrado la volontà di Addis Abeba di risolvere la questione all’interno dell’Unione Africana, stanno da tempo pressando per coinvolgere le autorità internazionali. Al momento, però, queste ultime paiono cieche a quanto sta accadendo, impantanate nel solito impasse che non permette loro di schierarsi e prendere decisioni. L’augurio è che i segnali che stanno provenendo dalla zona contesa non restino inascoltati, e che non si ripeta quanto visto con il Tigrai, con l’Etiopia, considerata troppo grande per cadere (Ipsi) e il suo leader, Abiy, che pare l’ennesimo despota troppo conveniente al mondo occidentale per essere detronizzato.