Relazioni. Dai modelli di coppia tradizionali alle nuove possibilità. L’era post-romantica pone fine al mito del «per sempre» e mette in atto la libertà, una forza tanto necessaria quanto imprevedibile: l’amore è davvero cambiato?
Tra le tante pagine social nate negli ultimi anni come archivi digitali di stati d’animo, eredi del vecchio Tumblr, ce ne sono alcune che racchiudono un preciso sentimento del nostro tempo, che un po’ ci accomuna tutti, anche se non vogliamo ammetterlo: lo potremmo chiamare il ‘romanticismo casuale’. È il mood che percepiamo, ad esempio, tra i post che compongono una pagina che porta proprio questo nome, in cui si alternano immagini di momenti apparentemente ordinari: una busta di plastica piena d’acqua con un fiore a mollo appesa al polso di una passante; mani rugose, antiche, che tagliano delle patate in una casseruola; ragazzi che si scambiano baci sfocati in metropolitana. E ancora: un cassonetto capovolto su una spiaggia grigia e desolata; animaletti di peluche stesi su un balcone ad asciugare; una spugnetta di alluminio a forma vagamente di cuore tra i piatti sporchi nel lavello. Stucchevole? Cliché? Forse. Ma dietro quello che può apparire un collage fatto apposta per i nostalgici si nasconde la potenza straordinaria di un nuovo sguardo, una nuova consapevolezza, più disincantata, sulle relazioni. Il romanticismo c’è, ma non è canonico: non appartiene ai grandi gesti. È più umile, ed è evocato dal bacio di due anziani in macchina. Rivela di una timidezza sacra e autentica. E, per questo, ci riguarda.
Sembra, infatti, che nessun aggettivo sia diventato più spaventoso di questo: dirsi «romantici», è quasi un’ammissione di colpa, un ritornare bambini e ammettere di credere ancora a quelle favolette, a cui, dovremmo ormai averlo imparato, è meglio non considerare. Tutto ciò che orbita attorno al concetto di «romanticismo» non sembra essersi slegato completamente dall’ingombrante tradizione che si porta dietro, letteraria prima di tutto: quella dei grandi gesti patetici degli eroi tragici dallo Sturm und Drang, dai grandi dolori del Werther di Goethe, al lacerante sentimento evocato dal fantasma di Catherine Earnshaw in Cime Tempestose. L’amore nella sua accezione «romantica» è, infatti, quel tipo di sentimento che porta con sé il pericoloso fardello dell’idealizzazione, che cancella il presente in nome di un immaginario futuro, intangibile e pericoloso. Ed è proprio dell’amore «romantico» che si è servito il sistema di produzione per vendere di più, permeando, dall’industria pubblicitaria all’happy ending hollywoodiano, ogni aspetto della società dei consumi, rendendoci schiavi inconsapevoli di modelli inscritti nella soffocante gabbia dell’eteronormatività. Senza tenere conto che quelli proposti non sono tutti gli scenari possibili. Oggi, che di modelli alternativi a quelli della famiglia tradizionale ne esistano altri, lo sappiamo bene (e menomale). Eppure, dal Simposio a Cenerentola sembra che le opere della cultura occidentale abbiano fatto di tutto per promulgare l’idea dell’anima gemella, e dell’incompletezza degli esseri umani, che da soli non si bastano e hanno bisogno dell’altro per inverarsi e diventare. La coppia, tuttavia, la vera e propria istituzione cristiana e poi borghese per eccellenza, sembra essere arrivata a un punto di non ritorno nelle relazioni amorose contemporanee. Nella società liquida post-liberazione sessuale, non stupisce che late Millennials e Gen Z si siano trovati di fronte alla necessità di fare nuove esperienze, e che, complici le dating apps, si siano diffuse nuove forme di relazioni, caratterizzate soprattutto da una necessità primaria, che vada di pari passo al rispetto e alla libertà: la mancanza di etichette. Al contempo, il rischio di oggettificazione è dietro l’angolo e non è un caso che gli ultimi anni abbiano visto fiorire una nuova sterminata fenomenologia di comportamenti e modalità discutibili a loro associati (dal benching al breadcrumbing, fino ad arrivare all’ormai notissimo ghosting). Si sa, innamorarsi è una faccenda, ancor prima che culturale, chimica, dettata dalla secrezione di ormoni, tra cui la dopamina e la noradrenalina, che ci rendono dipendenti dall’altro. Si è giunti quindi a un punto in cui romanticizzare i rapporti è diventato tanto pericoloso quanto rivoluzionario, perché se provare l’amore romantico non è più possibile, forse è necessario investire nel potere dell’innamoramento, una forza che arriva ben prima di inscrivere un sentimento entro limiti compatti e definiti, che rischiano di soffocare tutto ciò che un sentimento come questo può insegnare: conoscere l’altro e, attraverso di esso, conoscere se stessi. Queste nuove possibilità e della necessità di una nuova educazione sentimentale sono il centro di alcuni dibattuti e saggi appena usciti, sembra che la questione dell’amore sia più attuale che mai. In un mondo sempre più disilluso, dove la temporaneità dei rapporti non è vista come un disvalore, conoscersi in un momento di passaggio diventa un atto di autenticità. Del resto, come recitano i versi di un pezzo dei Cani «anche se non fosse amore, non per questo è da buttare»: la cruda sentenza sarcastica, riferita ai sex tape degli adolescenti della Roma bene, riflette un nuovo senso di romanticismo, forse l’unico possibile, in cui l’idealizzazione non esiste più. Intraprendere una relazione oggi significa provare a sfidare con irriverenza i falsi miti in cui siamo cresciuti, cambiare sguardo e riconoscere loro, «gli ultimi veri romantici».
Il cuore a spicchi
Ma si può ancora parlare di romanticismo? Non in modo convenzionale. Uno studio pubblicato su Sexuality and Culture ha analizzato il termine situationship, sempre più diffuso nel web e nelle conversazioni tra under 30. Dietro al vasto filone di video su TikTok che trattano la natura di questi rapporti con un’ironia terribilmente bidimensionale e spesso celando un melenso vittimismo (una delle caption più usata sotto l’hashtag situationship è proprio «what doesn’t kill you, texts you 6 months later»), si nasconde un identikit più o meno accurato di quella che potrebbe essere l’esperienza di una relazione del questo tipo.
Coniato nel 2017 da Carina Hsieh senior editor per Cosmopolitan, il termine è stato approfondito dal Dr. Langlais, che ha indagato le ragioni della sua popolarità tra i giovani nella fascia 18-29 anni. Servendosi anche della Teoria Triangolare dell’Amore di Sternberg il Dr. Langlais ha rilevato in base ai dati raccolti nelle interviste effettuate le caratteristiche principali di queste non-relazioni, cercando dei tratti comuni: la mancanza di etichette, esclusività e confini. Il rischio di inciampare nella fatidica domanda «Cosa siamo?» è alto, ma pronunciarla ne decreterebbe la fine, invalidandone la natura fluida e momentanea del rapporto che entrambi i partner condividono.
Ma è un modello tossico? Potenzialmente sì. Il Dr. Langlais evidenzia come le situationships sfocino spesso in one-sided love, amori unilaterali, ma sottolinea che il rischio è evitabile. Il fenomeno riflette una presa di coscienza collettiva: il sentimento non è più unidirezionale ma si frammenta in spicchi tra legami fluidi e affetti multipli. Già negli anni Trenta dello scorso secolo la necessità di avere più partner era stata descritta da Mura aka Maria Assunta Giulia Volpi Nannipieri, la scrittrice di romanzi rosa, con il simbolo del ‘cuore a spicchi’, in una metafora perfetta di questa necessità, del tutto umana.
Non riducibile a un rapporto pari alla one-night stand o friends with benefits, la situationship, spiega sempre il Dr. Langlais, incarna la quintessenza di tutto ciò che può sopravvivere delle relazioni giovanili nel XXI sec. E se da un lato questo nuovo modello relazionale promette libertà ed elasticità, allineandosi ai bisogni degli individui, dall’altro può diventare un terreno fertile per dinamiche tossiche. Alla domanda «Why does ending a situationship hurts more than a breakup?», la risposta più comune è che sembra assurdo soffrire per qualcosa che non è mai stato reale. E ancora una volta, torna lo spettro dell’idealizzazione.
Ma può davvero finire qualcosa che non è mai iniziato?
Dalle sogliole alle confezioni dello yogurt
Una cosa però è certa: tutte le nuove possibilità relazionali si fondano su un presupposto essenziale – bastare a sé stessi, senza alcuna Cinderella Syndrome. Eppure la massima platoniana per cui «ciascuno di noi è una frazione dell’essere umano completo originario» esercita ancora qualche effetto. Nessuna frase più di questa ha attecchito al sostrato culturale occidentale in modo così profondo, tanto che dal Simposio è arrivata a Cenerentola senza che ce ne accorgessimo. Infatti, nella versione Disney della fiaba firmata Jacob e Wilhelm Grimm, la scarpetta che il principe riporta a Cenerentola come prova dell’avvenuto riconoscimento, non è molto diversa dal symbolon che nella cultura greca antica rappresentava l’esatta metà di un oggetto (una tessera o un dado) e serviva come segno di riconoscimento dell’oggetto intero. In pochi ricordano che sempre nel Simposio nel dialogo di Aristofane viene usato un paragone ironico: Aristofane dice che gli uomini sono stati divisi in due, «come le sogliole». E il mito dell’anima gemella per cui «per ciascuna persona ne esiste un’altra che le è complementare, perché quell’unico essere è stato tagliato in due» trova riscontro nel mito dell’amore Disney diventato parte dell’educazione sentimentale di quella generazione di baby boomers ma anche di late Millennials che sono cresciuti con l’idea di una predestinazione romantica. Secondo la visione propugnata dal cartone che tutti conosciamo, Cenerentola diventa se stessa solo quando il principe con la sua azione salvifica la sottrae dal destino a cui pensava di essere relegata. Con lo smantellamento di queste convinzioni in seguito ai tumulti sessantottini e una nuova libertà, la scrittrice Eva Illouz ha notato che proprio quella libertà sessuale tanto agognata e giustamente conquistata, è stata però la causa di una nuova tendenza che sembra andare di pari passo con la cultura consumistica. C’è un rischio alla troppa libertà? Per Illouz sì. La sociologa individua nelle relazioni negative (in cui negativo non indica un giudizio ma un polo) un tipo di relazione tanto presente nella modernità: connessioni effimere, prive di reciprocità, che si possono interrompere senza conseguenze. Strumenti come Tinder o altre app di dating rafforzano, secondo la Illouz, questa dinamica, trasformando la scelta del partner in un processo rapido e cumulativo, più simile alla logica di mercato che alla ricerca di un legame stabile.
Eppure, nonostante l’esplorazione di nuovi modelli relazionali (dalle coppie aperte al poliamore) un recente sondaggio rivela che la Gen Z continua a preferire la monogamia tradizionale. Forse perché, in un’epoca di precarietà economica, condividere un affitto diventa un’esigenza concreta. D’altronde, come canta Coez, «è un mondo fatto per due, come le confezioni dello yogurt»: una metafora più plasticosa e attuale delle sogliole di Aristofane. Evoca un’altra esigenza delle relazioni attuali: la coppia non è solo la metà di una scelta sentimentale, ma è, purtroppo, anche un affitto da dividere, una strategia di sopravvivenza.

L’amore è cambiato?
«Innamorarsi è nella gran parte dei casi inevitabile e non cambia. A cambiare, invece, sono le forme dell’amore, i miti in circolazione, le consuetudini che lo riguardano». Che sia tempo di archiviare una volta per tutte l’amore romantico lo sostiene Annalisa Ambrosio nel saggio ‘L’amore è cambiato’ (Einaudi, 2025) in cui addirittura arriva a rivalutare uno dei sentimenti che si è meno disposti a sperimentare quando c’è di mezzo l’amore: la sofferenza. In un’ottica di ridefinizione dei concetti di gelosia e territorialità, e abbracciando una visione che consideri anche la mancanza di esclusività all’interno di una relazione, Ambrosio riorganizza le tre fasi descritte da Helen Fisher partendo proprio dall’amore romantico. Il contenuto rivoluzionario del saggio di Ambrosio sta proprio in questo: l’emancipazione della sofferenza amorosa che non è fine a se stessa ma parte integrante dell’esperienza e prezioso mezzo per la conoscenza. «Certo, ci sono dei casi in cui l’amore fa male e basta, ma, nella nostra rielaborazione di ciò che abbiamo vissuto, spesso amare è stato un bene. Anche se stiamo soffrendo perché ci pare di non poter vivere senza la persona che non ci vuole più, alla fine ci innamoreremo di qualcun altro: saremo liberi di farlo, nessuno potrà impedircelo». Ancora una volta, il dito è puntato contro il mito romantico, che ci ha insegnato a considerare l’innamoramento come un viaggio con una meta precisa: un finale, lieto o tragico che fosse. Dal matrimonio idilliaco di Elizabeth Bennet e Mr. Darcy in Orgoglio e pregiudizio, alla fine drammatica della passione di Julien Sorel e Mathilde de la Mole ne Il rosso e il nero.
È normale se in quest’epoca di transizione, di revisione necessaria dei rapporti tradizionali, può capitare di sbagliare, può capitare di scontrarsi con la realtà e capire di non aver ancora capito niente. «L’innamoramento ha il merito di ricordarci la nostra vera natura, di renderci plausibile e concreta l’evidenza di noi, anche se ci rappresentiamo diversi, in realtà assomigliamo al mare o al cielo», scrive Ambrosio: forse, allora, «gli ultimi veri romantici» sono quelli che, pur avendo abbandonato i falsi miti, hanno ancora il coraggio di vivere un sentimento rarefatto e casuale. Un amore che si manifesta senza aspettative, un incontro notturno. Gli ultimi veri romantici sono quelli che posano lo sguardo sulle mani di una signora su un tram con un vaso di primule sul grembo. Sono quelli che si chiedono, vedendola scendere: chissà dove sta andando? ♦︎