I consumatori sono spesso soggetti vulnerabili che bisogna proteggere, soprattutto dai tranelli del marketing che potrebbero dirottare le loro scelte. Devono essere tutelati dai ‘mostri’ che tessono tele intrise di interessi economici, pronti a ingannare pur di trarre profitto. Noi, così deboli e ignari, crediamo ciecamente che le istituzioni, l’antitrust, il codacons, eccetera ci difendano a spada tratta, stanando i mostri dai loro nascondigli e smascherandoli.
Ma i mostri odierni ti guardano negli occhi e sorridono, non si nascondono mica aspettando il favore delle tenebre per i loro meschini obiettivi: a loro piace la luce, ancora meglio se è quella dei flash. A loro piace apparire e farsi fotografare nel loro travestimento migliore: quello total green. Stendono rassicuranti tappeti verdi su cui far sfilare cantanti e personaggi famosi: e se queste passerelle sono finanziate dagli stessi che, lontano dai riflettori, sono responsabili di devastazioni ecosistemiche, è davvero poi così rilevante?
Non facciamo quasi più caso se grandi eventi nazionali sono organizzati in partnership con il mondo industriale, è ormai una prassi collaudata che nell’immaginario collettivo non potrebbe essere altrimenti. Questi sponsor che, girato l’angolo, finanziano crisi climatica e sfruttamento, approfittano dei grandi eventi mediatici per mostrarci quante tante (altre) cose belle fanno, quanti centesimi dei loro miliardi investono in fonti rinnovabili, proponendo un ampio ventaglio di iniziative green.
E c’è proprio un termine per parlare di questa strategia. Tra leggenda e narrativa reperita sul web, sembra che abbia origine attorno a metà degli Anni ‘80, ad opera di un giovane studente che si ritrovò a leggere l’indicazione di un albergo che incoraggiava i propri ospiti a evitare di chiedere il lavaggio degli asciugamani a loro dedicati in stanza, così da risparmiare risorse e contribuire a salvare il pianeta. Quell’attenzione all’ambiente sembrò così tanto di facciata, smentita dal resto della gestione dell’albergo ben poco green, da ispirare nel giovane (tale Jay Westerveld) l’uso del termine greenwashing, oggi molto utilizzato per denunciare la tattica che la Treccani definisce «di comunicazione o di marketing perseguita da aziende, istituzioni, enti che presentano come ecosostenibili le proprie attività, cercando di occultarne l’impatto ambientale negativo».
E negli anni è andato oltre il verde, e si è iniziato a parlare anche di welfare-washing, humane-washing, animal-washing. Per queste espressioni non c’è una definizione univoca, ma tutti si riferiscono all’occultamento delle condizioni di vita degli animali allevati, proponendo al pubblico una visione idilliaca molto lontana dalle reali sofferenze negli allevamenti intensivi. The Ecologist considera il welfare-washing come una risposta strategica ai desideri contrastanti delle persone: consumare grandi quantità di prodotti animali a un prezzo che possono permettersi, senza avallare i grandi compromessi sul benessere animale necessari per produrli su larga scala. Qui il dilemma è duplice. Da una parte i consumatori non approfondiscono la tracciabilità di ciò che comprano, perché digiuni di qualsiasi nozione di educazione alimentare e perché si fidano di chi precede la filiera che porta loro il prodotto finale (essendo giustamente soggetti vulnerabili, come dicevamo all’inizio); dall’altra l’industria è diventata bravissima a far passare un’idea di allevamento ben diversa da quella che è poi in realtà, ingannando il consumatore. Questa terminologia è diventata il nome di una campagna nel Regno Unito contro uno dei principali marchi di certificazione del benessere animale britannici, smascherato da indagini che mostravano in molti allevamenti da esso certificati sfruttamento e pratiche ben lontane rispetto ai parametri pubblicizzati ai consumatori.
Perché il punto è proprio questo: raccontare a chi potrebbe acquistare una favola ambientata in un vasto prato verde e in fiore, con animali felici che quando arriva il loro ultimo viaggio verso il macello non ne sono poi così tristi perché, in fondo, la loro bella vita a pascolare e mangiare l’erba fresca se la sono vissuta. E il consumatore si fida di questa narrativa perché suppone che qualcuno abbia approvato quelle pubblicità, che un’autorità superiore impedirebbe l’immagine di animali felici se fossero invece costretti nelle gabbie: se hanno così a cuore la tutela della nostra vulnerabilità, sicuramente non permetterebbero che giunga sulle nostre tavole un ingrediente frutto di sofferenza e danneggiamento dell’ambiente.

Eppure, tutto questo è ben documentato, con dati scientifici, rapporti, video-inchieste arrivate perfino sui grandi schermi, che denunciano un sistema diffuso di sfruttamento degli animali destinati al nostro consumo e utilizzo. Testimonianze che a volte è difficile persino guardare, figuriamoci pensare poi di essere chi lo fa in prima persona. Ma il mostro spesso non è da identificare nei soggetti che lavorano con gli animali in condizioni degradanti. In buona parte, infatti, gli operatori sono persone in condizioni economiche fragili, costretti a questi incarichi e che ne patiscono le conseguenze, come testimoniano i numerosi studi che denunciano l’impatto sulla salute mentale (ansia, depressione, disturbi post-traumatici) di chi ha lavorato in macelli o in allevamenti intensivi.
Fa parte del sistema di distorsioni della filiera alimentare fomentato dalla grande distribuzione organizzata. Ne siamo ignari perché sulle etichette non troviamo alcuna informazione sul tipo di allevamento da cui provengono quei prodotti, o spesso sono fuorvianti e giocano sulla nostra scarsa conoscenza. Pensiamo a una confezione di uova con una gallina immersa nel verde che riporta la dicitura «allevate a terra»: questo può significare che le galline hanno vissuto tutta la loro vita in un capannone sovraffollato da cui non hanno mai visto il cielo né il sole, con una quasi perenne luce artificiale e ventilatori sempre accesi. Non esattamente quello che il consumatore potrebbe immaginare leggendo allevate a terra, no? Questa espressione può essere definita «falsa rassicurazione», una tecnica per far sentire le persone più tranquille, convincendole che la loro è una scelta consapevole.
Perché in fondo si gioca tutto su questo: ingannare il consumatore. Le pubblicità con gli animali liberi nella natura, il conforto del leggere che l’animale è a terra (lasciando a chi acquista immaginare se era un prato o il pavimento di un allevamento intensivo) sono fatti per distrarci, per placare le nostre ipotetiche preoccupazioni, evitando l’indignazione dell’opinione pubblica che altrimenti non comprerebbe più.
Siamo ancora fermamente convinti di essere tutelati e concordiamo quando si appigliano alla tutela della nostra sovranità alimentare italiana, ed è a tal punto socialmente accettato che questo ci impedisce spesso di vedere oltre le belle maschere dei mostri che fingono di tutelare il benessere degli animali. Che ci impedisce di indignarci se compagnie petrolifere e industriali sono partner di importanti eventi nazionali, mentre collettivamente ambientalisti e animalisti ci hanno un po’ annoiato e infastidito (anche se gennaio 2025 è di nuovo il gennaio più caldo mai registrato, ma in fondo il freddo non disturba un po’ tutti?).
A inizio 2000 il movimento no-global era contro le multinazionali, che oggi seguono ogni passo della nostra vita. E lo sto scrivendo da un computer con componenti elettroniche di cui ignoro la provenienza, collegata all’hotspot di un cellulare con metalli che sicuramente non arrivano dall’artigiano dietro casa, quindi sono ben consapevole che nessuno è immune. Ma oggi il green-washing, il welfare-washing, funzionano perché questi mostri camuffati ci danno conforto e ci illudono che la via che finanziano è il giusto modello da seguire. La pubblicità e il marketing ci tranquillizzano che i mostri non esistono, anzi peggio: forse sì, esistono, ma comunque, come si suol dire, hanno fatto anche cose buone. E allora vale la pena chiudere un occhio su tutto il resto. ♦︎