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Il Colibrì è il nuovo film di Francesca Archibugi uscito nelle sale il 14 ottobre e attualmente in vetta in quanto a incassi. Tratto dall’omonimo libro di Sandro Veronesi vincitore del premio Strega 2020, il film racconta la vita di Marco Carrera interpretato da Pierfrancesco Favino. Un cast pieno di nomi altisonanti, che generano un film corale (alla mo’ di quelli di Muccino) in cui però tutto quello che succede è legato sempre e comunque al protagonista. Marco viene soprannominato dalla madre Letizia “colibrì” perché era sempre stato il più piccolo di statura, ma col tempo questo vezzeggiativo assume un’accezione diversa e più malinconica.

Della durata di circa due ore, è un film molto scorrevole (cosa non di poco conto), che fa riflettere e commuovere. La vita di Marco è costellata di traumi che seguono traumi, lutti, tradimenti e illusioni, e la nostra attenzione rimane fissa su di lui. Straordinaria è la performance di Kasia Smutniak, che interpreta Marina, la moglie di Marco. Già sulla loro coppia potremmo dire molto: due superstiti di un incidente aereo che proprio per questo motivo si avvicinano. Ma è davvero con altro dolore che si può guarire un dolore? La narrazione si svolge tra passato e presente, in un continuo andirivieni di eventi, di cui capiamo le cause e conosciamo lo svolgimento solo in un secondo momento.

Immagine di tutti i personaggi con i loro corrispettivi sè da giovani.
Un film “impegnato” che tratta temi spigolosi

I temi affrontati e toccati sono stati scelti con cura, primo tra tutti quello della salute mentale. Diversi personaggi come Marina (sopracitata) ma anche Adele (la figlia di Marco) e Irene (la sorella di Marco) vengono ritratte alle prese con evidenti problematiche. Il messaggio che vuole essere trasmesso è fondamentale soprattutto visti i tempi che corrono: le malattie mentali, i disturbi psicologici devono essere curati, non possono essere ignorati o considerati non importanti. Ognuno di questi personaggi vive delle difficoltà che inevitabilmente si ripercuotono non solo sulla loro vita ma anche su quella di coloro che li circondano. Insegnare alle persone il peso e il valore di questi malesseri speriamo porti a una maggiore consapevolezza collettiva.

Come spesso accade nelle produzioni di questo periodo ci sono gli amori impossibili, coppie che per un motivo o per un altro non riescono a stare insieme. È il caso di Marco e Luisa, innamorati da ragazzini e poi separatisi per il suicidio di Irene, tragedia inaspettata. Ancora poi divisi dai rispettivi matrimoni e da un senso di colpa persecutore, ma sempre legati da incontri “clandestini” e lettere d’affetto. Perché la rappresentazione di questi amori che non si concretizzano ci affascina tanto? Stanno forse aumentando nella nostra realtà? Non sappiamo più vivere un amore con tutto il coraggio a nostra disposizione? Abbiamo forse sempre paura di perdere qualcosa o far male a qualcuno?

Cosa vuole insegnarci la storia di Marco Carrera?

La parentesi del gioco d’azzardo si aggiunge nell’ultima parte del film, nonostante questo si fosse mostrato un hobby di Marco sin dalla gioventù. È un’aggiunta che può sembrare futile perché tutto il resto era già sufficiente, ma riesce comunque a rinforzare la morale che possiamo trarre da questo racconto: la vita va amata e non disprezzata, qualunque piega prenda, qualunque cosa succeda. Il finale non è da meno: Marco decide di porre fine alla sua vita con l’eutanasia. Sebbene si possa facilmente pensare il contrario, si dimostra essere l’ennesimo gesto di amore per la vita, un gesto con cui Marco vuole mantenere integra la sua dignità e il ricordo di sé. Il film si chiude con il buio della morte, buio in cui Marco e sua figlia Adele sembrano ritrovarsi lasciandoci con un sorriso tra lacrime amare.