Il maestro del body-horror torna ad esplorare le trasformazioni del corpo di identità sempre più fluide e deterritorializzate.
Saul Tenser (Viggo Mortensen) è un performer-artist che “coltiva” nuovi organi dentro di sé, questi vengono estratti in vivisezioni pubbliche ed esposti come vere e proprie opere d’arte. Ad aprire e ricucire il corpo dell’artista è Caprice (Léa Seydoux) che lo assiste nello sviluppare inedite appendici tumorali, sulle quali imprime la propria firma tatuandole durante la rimozione. In attesa del loro prossimo spettacolo i due si aggirano per i sobborghi fatiscenti di un’Atene desolata, ascoltando le idee e intrattenendo colloqui con i loro ammiratori, cercando ispirazione per l’imminente esibizione.
Cronenberg: Arare il corpo
Il regista canadese descrive un mondo dominato dall’affezione per il dolore. Un universo in cui la gente gode nel lacerarsi la carne e penetrarvi fino all’osso con lame affilate, un dolore che si sostituisce al sesso come quello raccontato da Kim Ki-duk in Moebius. La crudeltà a cui i protagonisti sottopongono le proprie carni è tutta scritta sulla superficie, nelle cicatrici, nelle membrane tatuate: segni terribili che arano i corpi. In questo c’è la disperata ricerca di qualcosa di antico, il sogno di recuperare quel contatto con la vita che si è perso da tempo. È emblematico che il film si apra con dei dettagli di organi tatuati che la macchina da presa indaga come se fossero pitture rupestri. Anche le musiche di Howard Shore in questa sequenza esprimono lo stupore di un archeologo di fronte al ritrovamento di qualcosa di primordiale.
“Io sono solo un meccanico, installo porte e finestre sul futuro” dice il Dr. Nasatir a Saul installandogli una cerniera a zip sullo stomaco per consentire all’artista un accesso facilitato alle sue interiora. Con queste parole il corpo, per i personaggi, è davvero la soglia di qualche apertura verso l’infinito. Il protagonista assume il valore di una galassia, dove gli organi che lo costituiscono sono sistemi solari. Ciò si riflette nella struttura della sceneggiatura, in cui i comprimari nel loro interagire col protagonista paiono costituirne e strutturarne l’organismo stesso. Fornendo consigli e feedback su nuove mutazioni a cui sottoporsi e su cosa donare al pubblico nelle nuove performances.
La densità del vuoto.
Ogni cosa importa solo in quanto assale la carne dei protagonisti, coincide con essa nel punto in cui la sconquassa, e non oltre. Niente gli tocca o li interessa se non si rivolge direttamente alla loro carne. Provare dolore dà a Saul e Caprice la conferma di essere vivi, di sentire ancora qualcosa. Mentre rimestare e affondare nei propri tessuti, dà loro la sensazione di avere una profondità, di essere pieni di significato. Il solo fatto di coltivare tumori, organi inutili, appendici superflue che vengono subito asportate è la manifestazione di un’ansia di riempimento portata al parossismo. Ciò conferisce ai due la convinzione di avere qualcosa da restituire al mondo.