«La corona di spine che cinge la città di Dio»: la letteratura moderna ha fatto della periferia l’emblema delle contraddizioni. Innocenza e violenza, poesia e degrado. Dall’East End dickensiano al Pigneto di Pasolini.

Quando Oriana Fallaci, in un articolo del 1966, scrive per la prima volta di Pier Paolo Pasolini, non si sofferma sugli scandali, i processi, i pettegolezzi. Indugia, invece, sul suo interesse (quasi una vera e propria ossessione) verso le periferie. Sono già passati undici anni dalla travagliata pubblicazione per l’editore Garzanti del suo romanzo d’esordio, Ragazzi di vita, ambientato nella periferia romana e Pasolini si trova a New York per il festival del cinema. La giornalista lo descrive così: «La notte scappa agli inviti e se ne va da solo per le strade di Harlem, di Greenwich Village, di Brooklyn, oppure al porto, nei bar dove non entra nemmeno la polizia, cercando l’America sporca infelice violenta che si addice ai suoi problemi, ai suoi gusti, e all’albergo in Manhattan torna che è l’alba: con le palpebre gonfie, il corpo indolenzito dalla sorpresa d’esser vivo».

La periferia esercita su Pasolini un’attrazione morbosa. I ragazzi del Pigneto come i ragazzi di Brooklyn. Cosa accomuna queste due realtà? Non sono solo i forti contrasti sociali, c’è di più: è il fascino stesso della periferia che in letteratura diventa la dimora di tutte le antinomie: sociali, culturali, politiche. Infatti, i ragazzi che vivono tra la Prenestina e la Casilina rappresentano per Pasolini la permanenza di una forma di vita incontaminata che, pur con la sua volgarità, è in grado di salvarsi dalla tendenza omologatrice del capitalismo. La periferia è «la corona di spine che cinge la città di Dio»: racchiude, insomma, un crogiolo di tematiche di cui la letteratura moderna ha imparato a raccontare in varie declinazioni. Da Pasolini, a Dickens, da F. Scott Fitzgerald, a Jeffrey Eugenides, ripercorriamo le luci e le ombre di alcune ambientazioni letterarie in periferia. Ma quando nascono le periferie in letteratura?

West End e East End

XIX secolo. La rivoluzione industriale che investe l’Inghilterra comporta la nascita di una parte della città che prima non esisteva: è così che, insieme alle fabbriche, nascono anche nuovi quartieri destinati agli operai, gli outskirts, i sobborghi. È Charles Dickens il primo autore a sfruttare questo nuovo stimolo letterario: al lussuoso quartiere londinese del West End ora si contrappone, sulla riva opposta del Tamigi, un altro quartiere, l’East End, una zona popolata da criminalità e miseria. I contrasti sociali sono messi in luce nei romanzi, ma non solo: Dickens stesso era un assiduo frequentatore dei teatri e sale della musica di Hoxton, Shoreditch and Whitechapel. E il personaggio di Fagin, in Oliver Twist, sembra essere basato su un famigerato ricettatore di nome Ikey Solomon, che operò proprio a Whitechapel nel 1820. La periferia dickensiana intercetta i due volti della città: quello scintillante in cui si compra e quello grigio in cui si produce.

La valle delle ceneri

La letteratura, dunque, fa delle periferie un pretesto di critica capitalistica. A meno di un secolo di distanza dall’opera dello scrittore britannico, è un autore americano ad attribuire alla periferia un valore cardinale all’interno del suo romanzo. Si tratta di F. Scott Fitzgerald, che incarica questo spazio marginale di un ruolo narrativo centrale: l’unione degli opposti. Tra West Egg, il tranquillo quartiere borghese in cui abita Nick Carraway, e New York, la vicinissima metropoli, sorge una zona chiamata «valle delle ceneri». Ed è in questo spazio a metà tra due realtà ben distinte che domina il cartellone pubblicitario con gli occhi del dottor T.J. Eckleburg. Qui, tra i «residui pubblicitari sbiaditi», su un «terreno pieno di rifiuti» e un «fiumiciattolo sporco», in quella che è descritta come una realtà degradante, sono saggiamente ambientati due degli episodi cardinali del romanzo, Il grande Gatsby: è in questa terra di mezzo che Tom Buchanan incontra l’amante Myrtle ed è sempre in questo luogo di passaggio che si consumerà il fatale incidente d’auto che provocherà la morte dell’amante e la fine della storia d’amore tra Daisy e Gatsby. La «valle delle ceneri» coincide con il disvelamento emotivo dell’inconsistenza del sogno d’amore e delle conseguenze sulla realtà; allo stesso tempo sembra anche suggerire una mancanza di connessione tra due mondi distanti, la quiete di West Egg e la frenesia di New York.

Fantasia d’innocenza


America, anni ’70. Un quartiere della periferia americana, nello stato del Michigan, fa da sfondo al dramma delle sorelle Lisbon. Nel romanzo di Jeffrey Eugenides, Le vergini suicide, la periferia diventa simbolo del provincialismo opprimente di una cittadina americana che rifiuta di far penetrare le ondate rivoluzionarie e oppone un netto conservatorismo. Cresciute in una famiglia dai valori rigorosi, e una madre che le tiene sotto sorveglianza, le sorelle Lisbon hanno un solo vero nemico: il sobborgo di periferia che ha prodotto quelle persone opache e abitudinarie che le opprimono. In uno dei momenti più significativi del romanzo, l’emblema della necessità di evasione di fronte alla reclusione reazionaria dei sobborghi è incarnato da Cecilia, la più giovane delle sorelle, che tenta il suicidio tagliandosi le vene nella vasca da bagno con l’immaginetta di un santino. A raccontare la loro storia sono i ragazzi, una voce collettiva, che le raffigurano come oggetto proibito del desiderio, una fantasia d’innocenza tanto più desiderabile quanto non può essere resuscitata. È solo con la morte che le sorelle possono rivendicare la propria libertà: infatti dopo i loro suicidi anche i coniugi Lisbon lasceranno la periferia, trasferendosi e lasciando la villetta suburbana che ormai versa in uno stato di incuria e disordine e verrà messa in vendita con tutto ciò che contiene.

La speculazione edilizia


Dall’America all’Italia. L’espansione delle città dopo il miracolo economico italiano cambia la fisionomia delle periferie. Non più solo quartieri residenziali, ma veri e propri quartieri-dormitori iniziano a popolare le cinture più esterne delle città. Italo Calvino riflette su questo tema precocemente, in un romanzo del 1957, La speculazione edilizia. Quinto Anfossi vive una crisi di pensiero che lo conduce a prendere una decisione drastica ispirata dal ruolo che vuole avere nella società: pur sapendo che con la sua scelta collaborerà ad ingrigire lo spettacolo paesaggistico della riviera ligure, decide di diventare socio di un impresario di cattiva fama dedito alla speculazione edilizia. La periferia diventa quindi uno spunto fondamentale per riflettere, secondo Calvino, sui tempi corrotti che sta vivendo.

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Il fascino esercitato dalla periferia nel romanzo moderno

Le periferie operaie

Torino. Anni ’40. Nel Mestiere di vivere e in altri scritti Cesare Pavese, a differenza dello spirito critico di Calvino, tesse un elogio delle periferie cittadine. Per Pavese la periferia torinese di fabbriche e di operai e dei nuovi quartieri sorti prima e dopo la guerra rappresenta la gioia del diverso e la possibilità di sfiorare la vita di un mondo da cui si è sempre sentito a distanza. Per Pavese è il piacere di entrare in un caffè di periferia è di trovare l’ispirazione per scrivere.

Un altro Pigneto

Torniamo a un caffè, ma di un’altra periferia. Di nuovo, si tratta di una periferia romana. «Nel bar dove vado a fare colazione ci sono solo vecchi, vecchi rompicoglioni che non hanno mai incontrato Pasolini […] e passano il resto della giornata a spacciare nella bisca sotto casa, dove Pasolini al massimo è considerato una zecca pederasta». Sono gli anni ’20. Ma del XXI secolo. L’eco della periferia pasoliniana ritorna in un racconto di Veronica Raimo contenuto nella raccolta La vita è breve eccetera. È un’eco lontano perché il Pigneto rappresentato dalla Raimo non è più portatore di elementi legati al mito della purezza e della conservazione di uno spirito primitivo e necessario che Pasolini riscontrava nella periferia e nella vita delle classi indigenti. Il Pigneto della Raimo è un luogo in cui «ogni settimana qualche arguto giornalista viene in missione […] e qualche ispirato fotografo lo segue per immortalare giovani fighetti che riconvertono garage, scrivono sceneggiature sulle sventure dei migranti dal twist romantico, fanno la spesa in bici e installazioni rigorosamente site-specific». Il tono ironico e disincantato associa la periferia a un luogo scialbo e sopravvalutato, che ha perso ogni valenza letteraria. Non c’è spazio per metafore ma solo per la realtà disillusa di cliché: il capitalismo è penetrato fino a qui e il sogno pasoliniano si è infranto. ♦︎


Illustrazione di Matteo Galasso

Rebecca De Vecchi
Amo la provincia, i libri della biblioteca e il caffè d'orzo. Scrivo poesie. Colleziono tazze commemorative della Regina Elisabetta II. Sono un'inguaribile romantica. Il mio sogno è tornare indietro nel tempo per frequentare i caffè letterari nella Parigi degli anni '20.

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