Il pregresso è regresso.
L’ha affermato tante volte mia mamma, la quale però tanto desiderava l’efficientissima aspirapolvere di ultimo modello. O mio padre, che avrebbe voluto l’ultimo computer Apple, anche se la tecnologia non lo fa impazzire, ma gli agevola il lavoro.
Mio nonno e mia nonna provano da anni a imparare le varie funzionalità del cellulare, ma proprio non ci riescono. L’ultima volta che sono andata a trovarli, mio nonno ha imprecato contro il suo umile LG.
Non hanno un bel rapporto con la tecnologia, non gliene frega un ca**o di comprare l’ultimo modello dell’auto o della padella antiaderente. Usano ancora il telefono fisso per avere un contatto con le persone che amano. Per i miei nonni questa è la felicità.
Mentre i primi riconoscono che il pregresso è regresso, comprano i modelli di ultima generazione. Si sentono soddisfatti nel mostrare che hanno di più.
Ormai tutto è una continua guerra all’ultimo sangue a chi è più sano, più muscoloso, più ricco, più felice, più produttivo, più popolare. È una guerra a chi possiede più cose, a chi acquista più in fretta, a chi è il migliore. A chi ha più followers, chi raggiunge più visualizzazioni, chi pubblica più stories.
È una guerra, e chi si arresta è perduto, coloro che si fermano a pensare e quelli che si concedono due minuti per riprendere fiato, non arriveranno mai al traguardo.
Ci sentiamo soddisfatti se riusciamo ad ottenere ciò che i giganti della produzione ci consigliano, se acquistiamo, cioè, quello che ci manca, perché le solite pubblicità positive non fanno altro che mettere in risalto le nostre mancanze e i nostri fallimenti.
Almeno questo è quello che ci fa credere la nostra spietata occidentale società capitalista, che ha influenzato i tre quarti delle generazioni presenti sul pianeta. Sfido a leggere il capolavoro di George Orwell e a non ritrovarsi dentro: le pubblicità catturano la nostra attenzione anche quando non vorremo. Il marketing ha fatto passi enormi.
La verità è che i social sono progettati sulla nostra attenzione. Ci distolgono dall’obiettivo perché siamo bombardati da milioni di selfie (not real) e interazioni che pongono in discussione il nostro essere e le ambizioni a cui siamo abituati a dare importanza.
Ci sono parecchie testimonianze di ragazzi o adulti che hanno provato a rinunciare ai social e l’impatto è talvolta positivo. Come se fosse un segno del destino, durante il mio ultimo viaggio, ho avuto la possibilità di parlare con un ragazzo che non usava il cellulare da un mese. Aveva più concentrazione, e invece di utilizzare il telefono in ogni momento morto della giornata, aveva imparato ad ascoltare le persone che lo circondavano e a guardare negli occhi gli amici al bar.
Forse ciò che manca oggi è l’autenticità. Basti pensare a come ci sentiamo quando abbiamo una giornata no. Sembra non avere mai una fine. Perché invece di focalizzarci sul traguardo e tornare a lavoro, pensiamo alle false vite perfette altrui. I nostri nonni si convincevano che qualsiasi giornata avesse la stessa durata, di 24h, e sarebbe passato anche il giorno di down.
È quello che dovremmo imparare a fare noi. L’ossessiva ricerca della felicità ci rende depressi, perché tentiamo, invano, di eliminare la negatività. Piuttosto, per riuscire ad essere sereni, bisogna imparare a familiarizzare con la negatività, apprezzando i fallimenti, la tristezza e le insicurezze.
Le emozioni, i pensieri, i sentimenti, hanno tutti una doppia faccia. È importate conoscere e riconoscere entrambe e imparare a conviverci senza che predano il sopravvento sulla nostra vita.