Il suono della sveglia. L’ennesimo stupro in Italia. La tragedia di Palermo. Anche questa volta ci siamo scandalizzati, anche questa volta ci siamo indignati, anche questa volta abbiamo preso le distanze. Bestie, animali, non come me, abbiamo pensato, con rabbia, sdegno. Infine, ci siamo rimessi a dormire.
Di tutte le polveri sollevate dallo stupro avvenuto il 7 luglio scorso a Palermo, non un granello ha sfiorato il tema più critico: il silenzio degli uomini. Dalle storie di Instagram e in generale dalle reazioni dei contatti stretti è facile accorgersi che prassi segua la notizia di un abuso sessuale o stupro mediaticamente rilevante: gogna pubblica per gli esecutori, polarizzazione da parte degli esponenti politici e poi una esponente – spesso di matrice femminista – che porta la denuncia su un piano di riflessione superiore e accende la miccia del dibattito. Le donne si compattano intorno alla condivisione di contenuti sui social, formano dei network costruiti sulla solidarietà, l’informazione e la lotta. Tra repost di caroselli, articoli, video che rimbalzano da un account all’altro, c’è un buio che attira più di qualsiasi luce: l’omertà maschile: gli uomini assistono, senza la minima intenzione di volersi esporre direttamente, in un «non io» disgustato che, tuttavia, non assolve, ma coinvolge e responsabilizza ulteriormente.
Alla base di questo silenzio c’è una folle idea di normalità, legata alla sensazione che simili fenomeni siano confinati altrove, lontani dalla propria sfera e dunque ininfluenti. Eppure, la violenza sessuale in Italia è una sveglia che secondo i dati ISTAT suona in media 1400 volte al giorno: circa 500 mila casi di abusi sessuali all’anno, una denuncia ogni 131-132 minuti, una media quotidiana di 11 tra stupri e abusi non taciuti dalle vittime, in aumento nel 2022 del +16%. Il 31,5% delle donne – circa 7 milioni – è stata vittima di violenza fisica o sessuale nella propria vita; e se i dati sono solo numeri, basta domandare a persone vicine – una sorella, una fidanzata, o una cara amica – se hanno mai subito una qualche tipo di violenza e ascoltare le risposte.
Difficile credere che ancora non vi sia la piena consapevolezza di come la violenza non sia uno ‘sbandamento’ dalla normalità, ma al contrario rappresenti un carattere radicato nella quotidianità. Nel 1940, Walter Benjamin sosteneva che «la tradizione degli oppressi ci insegna che lo ‘stato di emergenza’ in cui viviamo non è più l’eccezione, ma la regola». Questo non sembra però turbare il sonno degli uomini. Il tema è strettamente legato al suo veicolo di diffusione: i media ogni giorno trasportano dei messaggi e giocano un ruolo importante nel processo di interpretazione della violenza. In parole povere, contribuiscono alla creazione di un senso. Se da una parte la diffusione mediatica fa da cassa di risonanza, i canali tradizionali mostrano una tendenza a privilegiare messaggi stereotipati, scorciatoie pericolose nella percezione del pubblico.
Ecco perché i social diventano il luogo in cui costruire il dibattito e una riflessione seria che coinvolga il singolo e permetta la formazione di reti coese. All’interno di questa arena, l’assenza di posizioni del genere maschile crea forme di denuncia unilaterale al femminile. Quella che manca è una movimentazione coesa, che tratti il tema per quello che è: umano, universale. Una questione cruciale per la società, prima che per l’individuo, che sia maschio o femmina, di destra o di sinistra. Se dividere in fazioni è di per sé l’errore alla base, trasformare il dibattito in tifoseria è una colpa imperdonabile.
La violenza sessuale non è un atto costruito sull’erotismo, ma sulla manifestazione di un potere dominante e sulla componente simbolica e comunicativa della violenza, che colpisce la dignità personale della vittima e il sistema valoriale di protezione, rispetto e socialità in cui è immersa. In altre parole, l’atto stesso dello stupro è simbolico: una prevaricazione fisica, un’invasione e la sottomissione dell’altro attraverso il corpo.
Per la sua portata e la sua valenza culturale, la violenza sessuale ha risvolti sociali per l’intera collettività, al pari di una guerra: eppure, il meccanismo che si applica mostra livelli di coinvolgimento ben diversi, limitati a una parte e distanti dall’universalità. Ne consegue un’evidenza inconfutabile: lo stupro, l’abuso, la violenza di genere, sono distanti dall’essere considerati un affare di uomini. Sono qualcosa di lontano, una sfortuna altrui. Una battaglia della donna, in cui la donna è lasciata sola, ‘sperando che la vinca’.
L’uomo all’interno del dibattito sembra vivere la condivisione di simili campagne come un attacco diretto alla propria mascolinità. Alla base, si sottolinea il problema identitario, all’interno di una società, in cui i rapporti di genere stanno cambiando e il sesso maschile si ritrova fuori dai propri canoni di autodefinizione. In relazione a ciò, un’esposizione sul tema rappresenta per l’uomo una discordanza nella narrazione di sé.
«Non siamo tutti così, non io, non mi riguarda»: ruffianerie, uscite facili che mischiano concetti diversi, perché nonostante non sempre vi sia un coinvolgimento personale diretto, ogni individuo è pur sempre legato a un carico collettivo. Non si chiede un’assunzione di colpa, ma di responsabilità. Se non esistono portavoce maschili è perché danno per scontate tutte queste dinamiche storicizzate, e perché la mascolinità in cui sono immersi è ancora talmente legata a concezioni antiche da impedirlo. In altre parole, non esistono portavoce maschili per l’incapacità di ripensare l’idea di mascolinità.
Ma abbiamo così bisogno di portavoce maschili? La risposta è sì, più di ogni altra cosa. La presa di posizione diretta di persone vicine interrompe l’idea dell’uomo spettatore, verso l’evoluzione in uomo-agente: nel sonno dell’uomo, assistere alla responsabilizzazione di un amico può equivalere a un brusco e necessario risveglio. In un mondo in cui le donne stanno facendo tutto il possibile, l’attività dell’uomo a contrasto del fenomeno è il passo successivo, imprescindibile, per distruggere i principi che reggono un sistema sessista che giustifica ancora un potere di genere e la conseguente disparità sociale.
Ogni individuo è parte del sistema che permette alla violenza di genere la sopravvivenza: considerarla un problema di altri – o di altre – e di interesse di un determinato genere, fascia sociale, fazione politica, significa alimentarla attivamente. Non esistono formule magiche che ribaltino nell’immediato la situazione. Esiste un percorso, fatto di prese di responsabilità e coraggio di esporsi, che porta a un cambio di mentalità e di percezione culturale, di un fenomeno che a oggi si costruisce sulle azioni di alcuni uomini e sulle non azioni di altri.
Il percorso non può dunque prescindere da un attivismo coeso. Un uomo che non si sente di doversi muovere in prima persona mina all’evoluzione e al benessere della società. L’uomo spettatore che leggendo la cronaca di Palermo non si sente vittima diretta non si può considerare un sostenitore silenzioso della causa, ma un coautore di una sconfitta della civiltà intera.
Un cambiamento radicale ci sarà quando sarà normale vedere uomini esporsi pubblicamente sul tema, quando non sarà più necessario parlare di femminismo, quando differenza di partecipazione tra uomini e donne al dibattito sarà azzerata. Solo allora, sarà progresso.
Nel frattempo, saremo tutti complici, non uno di meno, millequattrocento volte ogni giorno.
Di Alessandro Refrigeri e Filippo Maria Martini
Illustrazione di Lara Milani