La prima mostra d’arte di NoSignal all’interno della Fiera nazionale dell’artigianato di Mondovì
Susanna Galfrè e Emanuele Ligorio
Orme nel tempo
Corre veloce il tempo, scivola via
come granelli di sabbia che scorrono tra le dita.
Futile il tentativo dell’essere umano
di afferrarlo, di controllare il suo corso.
Eterno viandante che va e che ritorna,
invidiato dall’uomo il cui viaggio è di sola andata,
e non dura che un istante nell’infinità del tempo.
Ma l’essere umano sa che anche lui può vivere per sempre
se capace sarà di lasciare ai posteri
un indelebile ricordo di se,
se la sua opera sarà grande abbastanza
da superare i confini del tempo.
Perché il viaggio del tempo sarà pur eterno,
ma effimera è la traccia che il suo passaggio lascia.
Mentre quella che il cammino dell’essere umano lascia
può essere profonda,
le generazioni future potranno avanzare
sulle orme di chi in questo tempo non vive più
riaccendendo il suo ricordo e,attraverso il loro viaggio,
permettendogli di viaggiare ancora.
Giovanni Gastaldi e Antonella Di Palma
Sono vivo quando sto nel vuoto.
Esisto quando precipito
e scavo il nulla
e mi prendo uno spazio
che per un attimo è tutto mio
solo mio
e che conosco solo io
e con confidenza ci scrutiamo
come due nemici
che hanno bisogno di conoscersi
per disarmarsi.
Le mie cadute
conoscono i movimenti dei miei occhi
i miei respiri e il ritmo dei sospiri
che a volte sembrano una marcia funebre.
Loro sole conoscono i miei segreti
e parlano di me
come il peggior nemico
e il più caro amico.
Non provate a proteggermi.
Non voglio salvataggi.
Se salto nel vuoto,
chi dice che io cada o voli?
Matteo Galasso e Roberto Ruben Ganzitti
Perché non mi dai un po’ delle tue paure,
delle tue fiduce
Poi siediti qui e lasciami fare
Ho parole capaci di essere
Capaci di segnare.
Hai ascoltato.
Sembrava giusto.
Gianzo e Sofia Calvo
Niente da vedere
Roosen era rimasto a casa. Si era comprato una bella confezione di sushi e il programma proponeva qualsiasi gara olimpica che passasse in tv. Avrebbe guardato anche il ping-pong, piuttosto di seguire Gill e gli altri. Si era stufato dei suoi stupidi calcoli. Che andassero pure: non c’era niente da vedere. Da più di un anno lui e Gill sprecavano i weekend dietro quella teoria e regalavano il loro tempo a quel professore. Nessuno nell’ateneo gli credeva, perché loro si erano fatti abbindolare? Per un po’ era stato elettrizzante, al corso di meccanica celeste avevano indagato la possibilità di quell’avvicinamento, ma quando il direttore del dipartimento aveva fatto le sue verifiche, aveva concluso che non si trattava che di una eventualità assai remota: tagliati tutti i fondi, aveva vietato agli studenti di collaborare ancora nella ricerca. Roosen aveva aperto gli occhi: la percepivano solo loro tre quell’urgenza. Aveva provato a farlo capire a Gill, ma a lui non lo ascoltava. Aveva tirato fuori quel suo atteggiamento di sufficienza che faceva arretrare Roosen nell’immediato. Non si erano più parlati. Gill non gli aveva neanche detto che si era portato dietro i suoi compagnucci del club degli scacchi. Prima che uscisse, quel venerdì sera, Roosen non aveva resistito: con un fare forzatamente sbruffone, gli aveva augurato buona fortuna. Tanto lo sapeva anche Gill: non c’era proprio niente da vedere.
Lorenzo Miola e Gaia Valesano
Onde
La puntina di un giradischi scivola lungo i solchi di un vinile, liberando dietro di sé una nota dopo l’altra, vibrazioni leggere aleggiano nella stanza a comporre la melodia di un vecchio album.
Un alito d’aria tiepida si infila dalla finestra: smuove le ombre della camicia sbottonata, mi scosta i capelli e soffia lungo il collo, insinuandosi nello spazio sottile tra il tessuto e la pelle. Socchiudo gli occhi e lascio che questo tocco impercettibile disegni i miei contorni fino a sfiorarmi le cosce, per poi dissolversi nella calura immobile di una sera di agosto.
Fuori, il sole al tramonto ritaglia raggi di luce lungo gli spigoli affilati della Mole che si allargano nel mio soggiorno: li vedo spandersi sui muri e giocare con le frange del tappeto, li osservo arrampicarsi sulle mensole e annegare nel liquore scuro di una bottiglia di rum cubano.
Lo sguardo scivola lungo il ripiano e segue i bordi graffiati di una cornice che inquadra gli orli consunti di una vecchia fotografia. L’inchiostro ha impresso sulla carta lucida un contrasto di colori che, ancora vivi, tracciano le linee di un paesaggio remoto, ricalcando il contorno di un ricordo che gli anni avevano coperto di polvere.
Eppure ora, reggendo tra le mani la foto, la memoria di quel viaggio lontano mi travolge; sfiorando con le dita quei colori stampati, sento di nuovo il sole bruciare la pelle e asciugarmi il viso dalle gocce salmastre dell’oceano, vedo ancora il muschio umido bagnarmi la suola delle scarpe.
Avevo catturato quell’immagine lì, dove la roccia scura crolla a strapiombo nell’oceano. Sotto di me, la schiuma delle onde si arrampicava alla parete verticale e si allungava in alto con esili schizzi di acqua gelata, mentre lontano, all’orizzonte, una linea netta si separava il blu del mare dall’azzurro brillante del cielo irlandese.
Lì, dove i flutti che si infrangono sugli scogli marcano i secondi e il vagabondare delle nuvole nel cielo dà misura alle ore, un nodo mi aveva stretto lo stomaco: mi aveva strozzato il respiro e poi era salito su, in alto, a soffocare un singulto tra le lacrime che colavano a bagnarmi i capelli spettinati dal vento.
Avremmo dovuto essere in due seduti sulla scogliera quel giorno.
Era un caldo pomeriggio d’estate e i nostri corpi si sfioravano appena, stesi tra le lenzuola stropicciate del mio letto.
Con un fruscio si era avvicinato a me, ricordo le sue dita infilate tra i miei capelli e le parole con cui mi disse che, un giorno, mi avrebbe portata su quell’isola a vedere l’oceano.
Così, quando mi ero trovata, anni dopo, seduta sulla roccia tagliente a picco sull’acqua, sola, senza la sua mano a districare le mie ciocche mosse dal vento, avevo riportato alla memoria la sua promessa rimasta aggrovigliata tra le lenzuola stropicciate in camera mia: l’avevo ripetuta dentro di me una, due, tre volte, l’avevo consumata, invano, perché sapevo che il tempo era fuggito lontano, sapevo che, ormai, le mie cosce nude non avrebbero più potuto sfiorare le sue.
Una lacrima mi riga il viso e scende lungo le guance mentre la luce calda del tramonto è scemata nell’ombra della sera.
Sollevo lo sguardo e vado alla finestra: seduta sul davanzale lascio che un alito di vento smuova le pieghe della camicia. Sotto di me, una distesa di luci illumina le vie di Torino; lontano, nel cielo terso della sera, uno spicchio di luna rischiara il profilo delle montagne all’orizzonte.
Qui, mentre osservo dall’alto i fanali delle auto incrociarsi tra le strade del centro, ripenso a quella promessa, ai frammenti di un tempo passato che ho scelto di relegare con l’inchiostro sulla carta lucida di una fotografia. Immagino a quante cornici graffiate ci sarebbero sulla mensola, oggi, se solo fossimo stati insieme a scattare foto al cielo, quel giorno.
Poi, guardo fuori la luce tremolante delle stelle, vedo la città bruciare i minuti e le ore accalcata attorno ai tavoli dei bar: sorrido, e intanto osservo il mondo sotto di me vivere il tempo che ci rimane.
Cristina Maggio e Rebecca De Vecchi
Memoria
Memoria non tradirmi mai
tu che sei assoluta
cullami curami mostrami
tutto – prima che sia perduto.
E io mi aggrapperó
al ricordo scomposto
di un momento taciuto
lo scarteró come latte scaduto
lo guarderò come un film muto
mi accontenterò
perché di te – nient’altro
mi resta.
Memoria non tradirmi mai
tu che sei come sabbia
che scivola cola se ne va
via
dalle mani: restano solo
ricordi liquidi
mescolati – ma tu
abiti nelle mie stanze
e sopravvivono le tue ombre.
Memoria non tradirmi ancora
tu che sei un’onda di vento
nel viola dell’aurora
inimmaginabile
ma immaginata
mi muovi nel mondo
con la storia creata
dalla nostalgia salvata.
Memoria
tu che mi tradisci sempre
è una scelta
casuale – pensaci bene –
restare. Decidi tu
per me
cosa conservare.
Ma io
attendo:
è effimero pensare al prima
ora che tutto
sta accadendo.
Christian Romano e Marta De Cesare
«La vuole piantare?! Mi sta otturando le orecchie non la sopporto più! Ha fatto il nido, non vede?!»
«Salve sig. Zanellato! Questa sembra funzionare eh…» «Glielo ripeto, sta covando un uovo!»
«Ah, sì ho capito certo, ma non posso mica tirargli le pie…»
«Oh, per carità, le pietre… ma lasci stare! »
«Sì sì ma infatti come le ho detto le pietre non gliele tiro però qualc…» «Ma la smetta solo con quella bacinella! Belin, non riesco più a sentire la mia televisione!»
Il sig. Zanellato tiene la TV in terrazzo da tutto l’anno, ha teso due teli per la pioggia e «vi dico che non c’è pericolo» è quello che dice solitamente alle riunioni di condominio.
Il terrazzo del sig. Zanellato è più grande della media dei terrazzi genovesi del centro storico ma, come tutti, ben incastrato tra i palazzi e pendente verso il mare. Orlato alla cieca da piante indomite e senza dubbio indomate. Al centro la TV, poggiata su un plasticaccio, una pesante poltrona blu e un tavolino con delle cuffie, un taccuino e un paio di penne e matite colorate. Alla TV il sig. Zanellato guarda solo i suoi filmati. Gliel’ha insegnato la figlia, a collegarci la videocamera. Così passa il suo tempo a scrivere racconti davanti allo schermo, guidato da ciò che filma quando va in giro per la città: si infila le cuffie, prende penna e taccuino e fa partire i video, poi avvia ad alto volume la registrazione di un vecchio telegiornale delle venti, per tenersi al segreto.
Io il tempo, invece, nell’ultima settimana lo passo a cacciar via i piccioni che provano ad alloggiare senza sosta sul mio terrazzo, che dal basso guarda appena quello del sig. Zanellato. Applausi, stracci contro il muro, girandole riflettenti, cd, versi d’aquila e un costoso dissuasore ottico e ad ultrasuoni per volatili non mi sono serviti a nulla.
Oggi ho tentato tirando grandi schiaffoni a una bacinella e sembra funzionare ma il sig. Zanellato ne è inspiegabilmente disturbato nonostante le enormi cuffie e il telegiornale a tutto volume.
Gli ho detto che devo trovare una soluzione prima che io e Olivia partiamo per le vacanze e mi rimane poco tempo ma lui sorvola la questione alla grande. Mi ripete da giorni che non deve importarmi del tempo che mi rimane, ma piuttosto di cosa mi rimane del tempo.
Viviana Furlani e Maria De Carolis
Caro cuore,
vagabondo e fragile,
colmerò d’oro le tue ferite
per ritrovarti e mostrarti che
la perfezione è un’illusione.
Non puoi fuggire
dai sentimenti che ti abitano.
Vivi intensamente,
abbi coraggio,
sei libero.
Dipingi le tue pareti
di fragilità e bellezza,
trasforma il dolore in arte.