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Un filo d’erba mi solletica l’orecchio, chinato da un alito di vento che si posa sul mio viso: scivola sulla curva del mio naso un po’ troppo all’insù, delineando i contorni morbidi di un profilo ancora giovane, e poi si perde lontano, lasciando dietro di sé il profumo del verde che si allarga nel parco e si allunga in alto, verso il tepore ancora incerto del sole di fine aprile. 
Socchiudo le palpebre. Sopra di me ciuffi di nuvole sfumano e si sfilacciano in un cielo che pare consumato: attraverso le lenti degli occhiali vedo l’azzurro intriso di un colore caldo, come nella proiezione di una vecchia pellicola cinematografica.
Affondo i gomiti nell’erba e mi sollevo. Poco lontano da me uno scoiattolo mi osserva, immobile, stringendo tra le zampette una noce sfilata timidamente dalle dita di qualche turista. Il suo sguardo attento mi apre sul viso un sorriso divertito, mentre lo vedo correre via e scomparire tra i cespugli. 
«Dovremmo tornare a studiare».
Mi volto. Lo avevo lasciato sdraiato sul prato, la giacca stesa scrupolosamente sull’erba per non sporcare la camicia. 
«Adesso andiamo, lascia finire la playlist però», rispondo con un sorriso convincente, sperando di ritardare ancora di qualche minuto la fine della pausa. Intuisco dietro i suoi occhiali scuri uno sguardo di dissenso misto a rassegnazione, e sfuggo a quel rimprovero muto spostando gli occhi verso un gruppetto di bambini che, in lontananza, si rincorrono lungo i sentieri del giardino roccioso.
«Quale canzone vorresti sentire più di tutte stasera al concerto?», gli chiedo poi.
Lo vedo mettersi a sedere e lo osservo irrigidirsi, per qualche secondo, in quella sua compostezza silenziosa che ho imparato a conoscere da quando eravamo bambini. Poi, ancora dubbioso, socchiude le labbra e risponde: «Ricordi, e tu quale vorresti?»
«Antartide. Mi rispecchio nel testo della canzone».
«In cosa? “Che rubi l’uva all’MD?”», mi chiede divertito.
Gli riservo una smorfia scherzosa: «No, però che aspetto ancora la mia lettera per Hogwarts è vero».
Poi, qualcosa sul prato richiama la mia attenzione. Nascosto tra i fili d’erba giace un tappo di sughero, sigillo di una festa di laurea da poco conclusa. 
Lo raccolgo, me lo rigiro tra le mani, e lascio che un’immagine sfumata prenda forma nella mia mente: scorgo una bottiglia di spumante ancora chiusa, poi vedo una mano dalle dita sottili stringerne il collo; un applauso mi risuona nelle orecchie e poi Tap! – il tappo salta. 
La scena si arresta per un attimo, sbiadisce e poi riacquista colore dall’inizio: di nuovo, una mano afferra la bottiglia, ma questa volta riconosco lo smalto lucido steso con cura, questa volta vedo le mie dita, con alcuni di quei piccoli tagli che le mie stesse unghie incidevano, ormai per abitudine, sulla pelle.
Indosso un completo di un lilla vivace, i raggi di luce giocano con il tessuto traslucido a disegnare ombre leggere sui miei fianchi e poi scendono dritti, lungo le pieghe della stoffa, fino a terra. Sotto l’orlo dei pantaloni spunta un tacco sottile che mette alla prova il mio equilibrio.
Sposto lo sguardo sul mio viso, incorniciato da una corona di alloro che inquadra un’espressione di soddisfazione e felicità. 
Il mio naso all’insù è lì, ostinato anche oggi a rendermi ancora un po’ bambina, in contrasto con gli zigomi e i lineamenti lievemente più duri e affilati di una volta. 
Attorno me si raccoglie un gruppo di figure con cui ho condiviso i miei sei anni di studio. 
Mi sforzo e riesco a mettere a fuoco alcuni volti che conosco così bene: davanti a tutti riconosco il viso degli amici con cui avevo perso il conto delle ore trascorse in aula studio, dietro scorgo quelli che incontravo più di rado, solo agli esami. E poi, ecco che poco più in là vedo i compagni con cui avevo condiviso qualcosa di più delle pagine di un libro, amici che con me avevano organizzato viaggi e urlato ai concerti, persone che avevano imparato a capire i miei silenzi e a condividere le mie incertezze.
Scorro lo sguardo da uno all’altro, più volte, riportando alla mente ricordi di molti anni prima, eppure, tra quei tanti volti che vedo, ne cerco altri che non riesco a trovare. 
Ognuno di quei visi di cui percepisco l’assenza mi ha lasciato un ricordo, un segno: qualcuno di loro si nasconde tra gli angoli del mio sorriso, altri, invece, si sciolgono nelle lacrime che ancora oggi, dopo tanto tempo, colano a bagnare le mie labbra di notte.  
Di ognuno di quei visi che oggi non riesco a trovare mi rimangono solo sagome vuote, figure che si sono dissolte nel tempo e disperse lontano, come un alito di vento che sfiora il viso per poi affievolirsi fino a scomparire.
Stringo il tappo tra le mani, poi sollevo lo sguardo e vedo che lui mi sta osservando, in silenzio.
«Hai qualcosa per scrivere?» gli chiedo.
Lui apre lo zaino e mi porge un pennarello blu: «Cosa stai facendo con quel tappo?»
«Shhh, aspetta un attimo». Scrivo ancora per qualche secondo, poi, soddisfatta, gli porgo il tappo. 
Lui lo prende, lo ruota tra le dita e legge: «Dall’amica di scuola che ti rubava le biglie: il tuo tappo sarà più bello». Poi mi guarda, in attesa di una spiegazione. 
«Il giorno della tua laurea non voglio essere una sagoma senza un volto, non voglio perdermi nella tua storia. Con questo so che allora, in un modo o nell’altro, ci sarò. Tienilo».
Lui non mi risponde, rigira ancora una volta il tappo tra le dita e poi se lo infila nella tasca della giacca. 
Distolgo lo sguardo e butto la testa all’indietro, un soffio di vento mi sfiora il viso: percorre la fronte, scivola lungo la curva del mio naso un po’ troppo all’insù, mi sfiora le labbra umide e poi si perde lontano, nel cielo terso di un pomeriggio di fine aprile. ♦︎


Illustrazione di Viviana Furlan

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