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L’altra sera, ho vissuto una delle esperienze più felici della mia vita: ho cenato, mi sono messo una felpa comoda, ho preso l’ascensore, aperto il portone e sono entrato in un cinema. Nell’unica saletta di un edificio che assomiglia a una stazione della metro, ho scelto uno dei posti in prima fila e a luci spente ho aspettato che cominciassero a comparire sullo schermo le immagini del nuovo film di Todd Phillips, Joker: folie à deux. Stava andando tutto per il verso giusto, quando alle mie spalle un gruppo di ragazzi ha cominciato a parlare ad alta voce del film e delle opinioni sentite in giro, soprattutto online. «Preparatevi sarà bruttissimo»; «Come si fa a fare un musical»; «Perché uno svarione del genere», e così via. Questo fatto stava per rovinarmi la serata: mi ha ribadito di quanto i nostri occhi siano influenzati dai pregiudizi che non solo coltiviamo online, attraverso la fruizione di contenuti virali che ci omologano e appiattiscono il nostro pensiero singolare, ma anche dalle aspettative che nutriamo nei confronti di una data opera, come se fosse il prodotto di un supermercato. Ho cercato allora di ricordarmi che non ero al supermercato, ma in un cinema che vuole assomigliare a una stazione della metro. Ho aspettato con ansia la partenza e che i ragazzi alle mie spalle tacessero. Joker si apre con un corto meraviglioso di uno dei maestri dell’animazione francese e ho capito che la direzione era quella giusta: se il cinema – e io sono convinto che la pellicola di Todd Phillips appartenga a questa categoria – può ancora considerarsi una forma d’arte, non solo può e deve, se necessario, deludere le nostre aspettative, ma soprattutto ha la volontà, il compito, il coraggio, chiamatelo come volete, di donarci qualcosa di nuovo.

Incipit animato

Il regista scelto per realizzare il corto animato con cui Joker: folie à deux inizia è Sylvain Chomet, non un animatore qualsiasi. Chomet è un disegnatore con uno stile di fumetto alla francese che si è distinto nel tempo per aver realizzato alcuni capolavori del cinema di animazione, come Appuntamento a Belleville e L’Illusionista, due pellicole che vengono spesso citate da chi difende il cartone animato dall’etichetta del prodotto pensato per i più piccoli. Nella pellicola di Phillips, Chomet viene scelto per realizzare il proprio corto animato sulla base dei cartoni della Warner Bros, quelli dei Looney Tunes con Bugs Bunny, Daffy Duck e compagnia, ma con un protagonista unico, lo stesso che poi vedremo nel seguito del film: infatti, non è sbagliato considerare il corto di Chomet come l’incipit del film, la scena iniziale, quella che uno sceneggiatore sa essere fondamentale non solo perché è la prima, ma anche perché, se si è abbastanza bravi, si può condensare in essa l’intero significato del film. Che vogliate vederlo come il corto di Chomet o la prima scena madre del film di Phillips, le immagini animate ci raccontano con semplicità il plot: c’è il povero Arthur Fleck che combatte con un’ombra che scalpita. È un Arthur Fleck solo, legato e rinchiuso, mentre l’ombra si trucca il viso come un pagliaccio e si prende il palco, la luce dei riflettori. Non c’è lieto fine: Arthur muore per mano della sua ombra, il Joker.

Il Joker

Un duetto senza Batman

Riprendendo da dove era terminato il precedente capitolo, ritroviamo Arthur Fleck in carcere, dopo essere stato accusato degli omicidi di cinque persone, alcuni dei quali avvenuti in diretta televisiva, che lo hanno trasformato in un personaggio mediatico con dei seguaci pronti a difenderlo. Ma per come si comporta all’inizio, Arthur non sembra curarsi molto di questa fama: è un individuo scheletrico, spento in volto, vessato dalle guardie. La sua avvocatessa, invece, è convinta di poterlo salvare dalla pena di morte: se venisse dimostrato che Arthur possiede dentro di sé un’altra personalità, talmente forte da riuscire a prendere il sopravvento, se venisse dimostrato che quell’uomo non è solo Arthur Fleck, ma anche Joker, che non è solo uno, ma che ce ne sono due, allora forse il giudizio della corte potrebbe cambiare. Quel rapporto di scissione, reso già con le immagini animate di Chomet, tra il protagonista e la sua ombra, è il vero cuore della storia. Dualismo, rapporti duali, duetti sono espressi a ogni livello del conflitto del protagonista e rendono Joker: folie à deux un’opera complessa. 

Il primo caso di dualità è quello con il carcere, con le guardie, e in particolare con il loro capo, in un gioco di bastone e carota dove Arthur è costretto a sopportare esperienze traumatiche, ma non c’è solo questo: finché riesce a mantenere il controllo di se stesso, il carcere risulta un’esperienza traumatica più per lo spettatore che per lui. Arthur è uno sconfitto, privato di ogni desiderio, pronto solo a morire. E poi avviene quello che ai suoi occhi pare un miracolo. Una donna, internata in un’altra ala, si innamora di lui e soprattutto gli dona una speranza. Solo che c’è un fatto, che Arthur all’inizio non capisce: Quensel, interpretata da Lady Gaga, non sogna di trascorrere la propria vita con lui, ma con il Joker, e tutte le sue azioni hanno le scopo di far emergere l’ombra del suo amante. Lei sogna di poter duettare con il Joker perché sa che è quella la personalità capace di rubare la scena in televisione, quella è la personalità carismatica, pronta a dichiarare guerra al mondo se necessario. Ma non c’è nessuna guerra da combattere fuori, solo all’interno di un’aula di tribunale: il terzo rapporto duale, infatti, è quello espresso davanti alla corte di giustizia, che deve decidere se Arthur è un colpevole o una vittima, se effettivamente Arthur e Joker possono considerarsi due personalità distinte. Il conflitto sale perché da una parte c’è il desiderio di Arthur di essere finalmente visto e amato da qualcuno – ma per essere davvero visto e amato deve uscire fuori Joker – dall’altra parte c’è un’udienza in corso dove, paradossalmente, se a prevalere sarà questa seconda personalità non potrà esserci nessuna speranza di salvezza. Tutti gli amanti dei cinecomic, i nostalgici della trilogia di Nolan, tutti coloro che si aspettavano una comparsata di Batman durante il corso della storia sono rimasti e rimarranno delusi dal film. Perché Joker: folie à deux non intende posizionarsi all’interno di quel filone: semmai gli è necessario staccarsene completamente, per dimostrare che è possibile creare del nuovo. Non c’è nessun Joker che prepara un piano per piegare il mondo, ma una personalità folle, capace di divenire dominante: l’unico vero grande antagonista del film è dentro il protagonista stesso.

Cinéma à deux 

Una delle critiche più massicce mosse contro Todd Phillips è legata alla scelta di inserire le parti cantate: agli occhi dell’opinione pubblica, il film deve considerarsi un musical e persino di scarsa fattura. Io non scriverò qui che questo giudizio è sbagliato, ma vorrei cercare di spiegare come questa scelta non solo sia la più coerente, ma anche la più efficace possibile. La musica ha un ruolo centrale nel film, ma quale? Di sicuro, all’inizio sembra terapeutico. Quando Arthur incontra Quensel, comincia a provare piacere nel cantare, nell’affrontare i suoi traumi attraverso una terapia musicale. Il problema è che Quensel vuole duettare con Joker e non con Arthur: l’unica scena in cui i due si trovano su un reale palco a cantare è emblematica per cogliere il loro conflitto. Arthur ama Quensel, ma poi comincia a temere che lei ami di più ciò che Joker può portarle, come la notorietà, le luci del palcoscenico puntate addosso. Solo attraverso Joker Quensel può aspirare ad arrivare a ‘Broadway’. E così la musica diventa un elemento stesso della sceneggiatura, una necessità della storia. La musica crea quella fantasia che spacca una realtà tetra e opprimente, ma è solo una fantasia – «E tu l’hai rotta», dice alla fine Quensel -, il rifugio dove Arthur trova speranza e amore per la vita, ma dove al tempo stesso finisce per alimentare la propria follia: è attraverso la musica che l’ombra del Joker viene risvegliata. Il thriller psicologico, genere sotto il quale era stato catalogato il primo capitolo, è mantenuto e spaccato dal musical; non viene costretto da una forzatura della sceneggiatura, ma è necessario in virtù di una coerenza della storia e dei suoi personaggi che anche il genere partecipi a una folie à deux. Todd Phillips non si risparmia alcune citazione ai grandi musical del passato, sempre tuttavia mantenendo la propria coerenza con ciò che si è preposto di raccontare, una scissione che non si manifesta al di fuori, nello spazio di un palco, che non coinvolge quasi mai tutti i personaggi in scena, ma solo Joker e Quensel, e che avviene proprio lì, mentre la realtà scorre intorno a loro con le sue regole, la sua cupezza, la sua rigidità.

Joker: folie à deux copertina
Joker: folie à deux. In difesa d’un pagliaccio

Che tragica visione!

Morire vuol dire solo non essere più visti

Fernando Pessoa

Il protagonista va incontro a un finale tragico: la corte lo dichiara colpevole degli omicidi perché lui stesso ha ammesso la propria colpevolezza. Il gesto di Arthur di assumersi la responsabilità di quel male sottolinea la sua evoluzione, dimostra che lui non vuole più essere Joker. Se lo devono vedere e giudicare, che lo vedano e giudichino in quanto Arthur Fleck. Questa scelta comporta la fine della fantasia con Quensel e il suo conseguente abbandono, perché lei aveva occhi solo per il pagliaccio. La giustizia ordinaria, coinvolta in un processo dai continui colpi di scena, deve adeguare la propria visione ai fatti: con una tale ammissione di colpe, il verdetto sarà il più duro possibile. La morte di Arthur ha aleggiato per l’intero corso della pellicola e alla fine arriva in carcere, ma non con una sedia elettrica: viene accoltellato da uno psicopatico con la scusa di raccontare una barzelletta e, mentre vediamo lentamente il nostro protagonista cadere sporco di sangue in un’ultima macabra e scoordinata danza, alle sue spalle l’omicida ride e sembra disegnarsi ai lati della bocca un sorriso con l’arma del delitto. La sua è una risata che riconosciamo, quella del Joker. A giudicare dall’opinione pubblica, la sua tragedia verrà anche molto rapidamente dimenticata. Joker, invece, resta e tornerà sotto altre forme, magari fedele alle aspettative degli amanti dei cinecomic, magari in un modo che non riusciamo ancora a immaginare. È anche per questa ragione che esiste l’arte: tracciando percorsi che non erano ancora stati esplorati, mantiene il diritto di deludere le aspettative dei nostri sguardi se cerchiamo di ridurla o di omologarla. Todd Phillips ha voluto donare una visione più psicologica del Joker, più lontana dai fumetti e più vicina alla realtà, e per questo molto più spaventosa. Ha voluto riflettere su cosa significhi non essere visti per così tanto tempo, diventare degli emarginati senza aiuti sociali, senza la cura o l’amore di nessuno, e poi all’improvviso avere su di sé gli occhi del mondo intero. Per essere visto, amato, difeso, dovrebbe scegliere Joker, ma Joker è un ruolo, un personaggio, l’ombra di un’etichetta, il risultato di una società fallita che non ha occhi né soluzioni per gli ultimi. Anche gli spettatori, delusi dalle scelte della sceneggiatura, aspettavano che Joker soppiantasse Arthur una volta per tutte e cominciasse a terrorizzare le strade di Gotham City. Allora la delusione montata nei confronti del film per tutte le ragioni elencate è la controprova che Joker: folie à deux ha la sua ragione d’essere. E che la poesia di Pessoa conserva una tremenda verità. ♦︎


Illustrazioni di G