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Con Killers of the Flower Moon, Martin Scorsese dà vita a un affresco monumentale e funereo, un’opera-saggio dove il regista italo-americano indaga le origini comunitarie dell’America, riflettendo sul suo modo d’intendere la settima arte. Reduce dal primo dopoguerra, l’ingenuo Ernest Burkhart (Leonardo DiCaprio) giunge a Fairfax, Oklahoma, per lavorare a fianco dello zio, mefistofelico latifondista, William Hale (Robert De Niro). Qui entra in contatto con gli Osage, indiani divenuti ricchi grazie alle ingenti quantità di petrolio celate sotto la loro terra. Ernest diverrà presto pedina di Hale il quale, interessato al denaro delle concessioni petrolifere, ordirà una meticolosa operazione di sterminio nei confronti dei nativi. Ma l’amore di Burkhart per la moglie indiana Molly (Lily Gladstone) complicherà la riuscita del massacro. Un film-documento in grado di raccontare la Storia attraverso una doppia tragedia: quella di un genocidio dimenticato e di un cinema esteticamente destinato a morire. 

Ciò che più colpisce di quest’ultimo Scorsese è la posatezza fotografica e cimiteriale delle immagini, che sembra avvalorare le inquadrature di veridicità e attendibilità. Tutto si despettacolarizza e, malgrado la diluizione fluviale dei tempi, Killers of the Flower Moon non indugia su niente, esponendo i fatti senza parteciparvi. A inaugurare il film è un documentario (falso) in bianco e nero 4:3 sui membri della nazione Osage. In questo artificioso docu-simulacrum si trasfigura emblematicamente il saggio di David Grann alla base del film. Dopo alcuni minuti l’aspect-ratio si allarga e l’interno del quadro si satura di colore, presentando il personaggio di DiCaprio. Dalla volontà di addentrarsi nelle pieghe di questa effige si dipana così il processo di fictionalization, carico dell’ambizione di voler assolvere a un compito superiore: il desiderio del lungometraggio di farsi cine-testimonianza, portatrice del ricordo di un’America ormai dimenticata.

Una fotografia

Sotto quest’aspetto, è interessante che nel film emerga una particolare predilezione per la dimensione fotografica. In particolare per la fotografia post-mortem e il ritratto di famiglia, usanze diffusissime negli anni in cui si svolge la vicenda. Le scene di omicidio sono sempre affiancate dai ‘necrologici’ ritratti delle vittime, compresa la famiglia di Molly, anch’essa presentata attraverso una serie di scatti. Addirittura, in una delle prime scene, alcuni avidi fotografi convincono degli Osage a farsi immortalare. Come un occhio che uccide, il dispositivo fotografico assume una connotazione demoniaca: tutti i soggetti fotografati nel corso del film figureranno nella lista dei deceduti. Solo la morte pare capace di convalidare l’esistenza di questi personaggi.

In generale Scorsese è sempre stato attratto delle macchine fotografiche e dai suoi flash abbacinanti. Si pensi a Toro Scatenato, dove il pugile Jake La Motta viene paparazzato in posa da combattimento in diversi momenti, oppure a The Aviator, al red-carpet cui è sottoposto Howard Hughes in occasione della proiezione di Hell’s Angels. Il volto del miliardario è ‘epiletticamente’ illuminato dall’esplosione dei flash al magnesio, mentre i suoi piedi avanzano lungo un tappeto di lampade frantumate e carbonizzate. Se qui la fotografia serviva per amplificare l’importanza pubblica dei personaggi-divi, in Killers of the Flower moon assume una connotazione più legata alla dimensione privata.

Fotogramma di Killers of the Flower Moon © 2023 Martin Scorsese / Apple Studios, Paramount Pictures

Killers of the flower moon: un ritratto di famiglia

Scorsese dedica ampio spazio all’aspetto domestico, rendendo lo spettatore partecipe di funerali, visite mediche, matrimoni, pranzi e cene con amici e parenti. Sovente la cinepresa esplora le abitazioni dei protagonisti, mostrandone i vari ambienti tramite lunghi piani sequenza – la casa di Ernest e Molly su tutti. C’è un qualcosa di intrusivo, qualcosa che sa di infiltrazione e privacy violata, nell’insinuarsi visceralmente nelle vite altrui, in questa pubblica immersione nel privato. Ritornando alla fotografia, è conturbante vedere questi ritratti di famiglia, destinati alla contemplazione di pochi intimi, spiattellati su uno schermo alla mercé di una platea. Queste immagini, assieme ai movimenti di macchina, circoscrivono, sondandola in modo sinistro, un’unità destinata al totale disfacimento.

Da questo punto di vista, Ernest incarna perfettamente e inconsapevolmente il ruolo di entità disgregatrice. Burkhart, in bilico tra il lasciarsi andare all’amore per la moglie e il rimanere succube del timore reverenziale nei confronti dello zio, finirà per portare entrambe le sue famiglie allo sfacelo. Le musiche del compianto Robbie Robertson, che mescolano sapientemente i canti tradizionali indiani con il country-folk, esemplificano questa condizione. Bloccato in un’impasse, il personaggio di DiCaprio prende in prestito i costumi di diverse figure archetipiche, senza risolversi in alcuna di esse. Lo si vede nelle vesti di reduce, di cowboy, poi come tirapiedi di un gangster e infine nel ruolo di marito e padre. Con il volto instupidito, perennemente contratto in una smorfia, che rimanda a una versione volutamente babbea della mimica sopra le righe di Brando e Nicholson, Ernest, mancando d’identità, non è in grado di trovare e capire il proprio ruolo all’interno della vicenda. E proprio come il suo protagonista, il film attraversa diversi generi senza mai seguirne uno per davvero.

Un lapidario necrologio

Si passa dal western, al gangster movie, al poliziesco, al dramma giudiziario: Scorsese sfrutta tutti i generi cinematografici distintivi degli anni coperti dalle vicende del film, differendo da tutte le situazioni cliché di questi ultimi. Dai residui delle guerre indiane della scena iniziale si passa al primo dopoguerra, arrivando alle soglie della Seconda Guerra Mondiale. C’è una scena in cui Ernest, nelle vesti di gangster, va da un uomo per impartirgli ordini a proposito di un criminoso atto da compiere. Dovrebbe essere la tipica scena in cui il fuorilegge tutto d’un pezzo minaccia un suo sottomesso, ma Burkhart non riesce a farsi rispettare e l’uomo gli risponde in modo blando e seccato. Il risultato è quasi comico, e questo breve battibecco denota l’impossibilità di tornare a una matrice classicamente hollywoodiana.

Killers of the Flower Moon è pregno di momenti che smembrano situazioni-tipo che hanno segnato la storia del cinema. Non è un rimpiangere i film degli anni d’oro, ma la difficoltà di Martin Scorsese a identificarsi e riconoscersi nel cinema d’oggi.