Allontanarsi dal centro delle cose vuol dire vederle meglio e vedere di più; significa sedersi da qualche parte, stringere un po’ gli occhi e incominciare a osservare qualcosa – che sia materiale o spirituale – scontrandosi con i suoi limiti e non rassegnarsi a loro, ma provare a trasumanare, cioè a travalicare le periferie dell’insufficiente umano con la facoltà più affascinante, appagante – seppur a primo impatto – e misteriosa di cui dispone l’uomo: l’immaginazione, da cui ci si dà la spinta a rompere con uno scalpello, a poco a poco, il finito, e a fare un tuffo nell’indefinito. Leopardi ne ha parlato in modo limpido e straordinariamente accurato nello Zibaldone e in particolare in quella che è una delle poesie più delicate ed evocative della letteratura italiana: L’infinito, quasi una fenomenologia della fantasia.
Ma che cos’è questa forza? Da cosa nasce e cosa la nutre? Perché in certi momenti la nostra mente e i nostri sensi incominciano a vagare, alla scoperta di chissà cosa e, senza nemmeno accorgercene, ci troviamo a navigare fra immagini e pensieri senza nemmeno sapere come siamo arrivati tanto lontano? E soprattutto: abbiamo bisogno della fantasia?
«Fantasia» deriva dal greco phaínō, «mostro»: è strumento attivato dalla non-vista delle cose, che entra in gioco quando la realtà è insufficiente, sta troppo stretta all’uomo e non ha nulla da offrirgli, quindi è necessario oltrepassarla e andare alla ricerca di un suo compimento; lavora per amplificare sensazioni appena accennate, permette di completare immagini interrotte, visualizzare scenari logici o fantastici dove tutto può accadere e tutto è legittimo. Citando Leopardi: «Esiste nell’uomo una facoltà immaginativa, la quale può concepire le cose che non sono, e in un modo in cui le cose reali non sono […]. L’anima cercando il piacere in tutto, dove non lo trova, già non può esser soddisfatta. Dove lo trova, abborre i confini. […] In luogo della vista, lavora l’immaginazione e il fantastico sottentra al reale. L’anima s’immagina quello che non vede, che quell’albero, quella siepe, quella torre gli nasconde, e va errando in uno spazio immaginario, e si figura cose che non potrebbe se la sua vista si estendesse da per tutto, perché il reale escluderebbe l’immaginario».
È un’esperienza totalizzante e personale che taglia i confini tra il fisico e il metafisico, il possibile e l’impossibile. Con la fantasia quello che prima era lontano, ora è tutto intorno all’uomo che si perde volentieri in qualcosa di vago che sfiora l’eterno, come il poeta recanatese che, guardando un filare di alberi (la «siepe») che gli impedisce di osservare il paesaggio nella sua interezza, si lancia oltre quello che è sì l’ostacolo visivo, ma anche l’elemento senza il quale l’immaginazione non avrebbe ragione di attivarsi. Scatta, così, un meccanismo che vede agire due componenti: quella fisica dei sensi finiti della vista e dell’udito, e quella psichica della memoria che, nel momento stesso della rimembranza, è capace di attualizzare e si rivela potente a tal punto che «per poco / il cor non si spaura»: il vagare nell’immaginazione lascia l’umano sbigottito ed estasiato contemporaneamente perché da un lato non riesce a superare mai totalmente le periferie della materia e a raggiungere quel che desidera, quindi si sente impotente, ma dall’altro gli permette di percepire all’interno quello che all’esterno non riesce ad avere. Tuttavia, conduce in una dimensione in cui si rischia di perdersi ed è, in effetti, quel che capita a Leopardi. L’esperienza del poeta si conclude in un dolce naufragio permesso dalla poesia, capace di soccorrere il pensiero che ha vagato troppo riportandolo a qualcosa di amato e conosciuto e che è l’infinito reale e terreno per antonomasia: il mare, che non è l’Infinito per noi irraggiungibile, ma «L’infinito» su scala umana.
All’anima, insaziabile ed errante, è chiaro che qualcosa manchi e mancherà sempre, ma la fantasia è un buon compromesso tra la vita e l’infinito, è salvezza dove c’è condanna e permette di trovare soluzioni ‘altre’, riscrivere finali, cancellare i punti e mettere le virgole: è un modo per far sì che nessuna parola sia mai l’ultima. ♦︎