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Dopo le parole di spregio nei confronti di Macron della giunta militare che ha preso il potere in Mali, la Francia decide di ritirare le sue truppe dal Paese, seguendo l’esempio di altri Stati Europei

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Sono trascorsi 9 anni da quando la Francia ha dato il via alla missione Barkhane, e ora l’Eliseo ha annunciato la ritirata delle truppe da uno dei Paesi coinvolti.

La Francia si prepara, infatti, a lasciare il Mali, seguendo l’esempio di altri Stati Europei. La decisione arriva a seguito delle forti critiche della giunta militare al potere a Bamako. Il generale Assimi Goita, salito al potere dopo il colpo di Stato del 18 agosto 2020https://nosignalmagazine.it/oltre-le-nebbie-che-avvolgono-mali-golpe-elezioni-keita-ndow/, aveva più volte affermato, negli ultimi tempi, che gli ex colonizzatori europei non erano più graditi nel loro territorio.
Parole feroci che erano state pronunciate in risposta alle accuse lanciate da Macron ai soldati del Mali per aver instaurato una dittatura illegittima e l’invito a indire libere elezioni nel breve periodo. Ma, anche, frasi che non si limitano a prorompere dalla sola bocca dei militari.

Non si tratta di un sordo mormorio, ma del boato di una folla inferocita e stanca. Il disprezzo verso gli occidentali è stato manifestato più volte in tutto il Paese dalla popolazione che gli stessi europei avrebbero dovuto aiutare a crescere e migliorare. Il risultato è stato, invece, il malcontento comune. I militari ora al potere non sono visti come il vero problema da debellare. I maliani ritengono, piuttosto, che siano i francesi i reali dittatori, giunti sulle loro terre per instaurare nuovamente il colonialismo e con il solo fine di sfruttarli.

La nascita della missione

La missione Barkhane vede i suoi albori nel 2013, quando la Francia intervenne proprio nello Stato del Mali per fermare l’avanzata di un gruppo di jihadisti che stavano conquistando il territorio.
L’operazione fu, inizialmente, un successo e i terroristi furono cacciati.
L’esito positivo della missione e l’eco che portò a livello internazionale spinsero l’allora presidente francese Hollande a decidere di farsi portabandiera di un nuovo obiettivo: estirpare la radice infestante del jihadismo dal territorio del Sahel. La striscia centro africana del Sahara, che comprende gli Stati di Ciad, Niger, Mali, Senegal, Mauritania Burkina Faso, Sudan, Eritrea e Algeria, era, infatti, stata presa di mira dai terroristi filo islamici. Un’onda di uno tsunami che rischiava di travolgere quella zona del Continente Nero. Zona assai ricca di risorse e le cui popolazioni parevano finalmente aver trovato il modo di liberarsi dalla miseria per giungere allo sviluppo. Così, il primo agosto 2014, nacque la missione Barkhane, con sede operativa a N’Djaie, capitale del Ciad. Oltre ai militari francesi, l’operazione vede l’impegno di forze autoctone provenienti dai vari territori che compongono il Sahel, e truppe inviate da altri Paesi europei.

Il vero scopo della missione

L’operazione Barkhane nasce sicuramente con un nobile scopo, proteggere l’integrità degli Stati africani del Sahel. Ma è veramente questo l’intento della Francia?
O forse il vero interesse è, ancora una volta, lo sfruttamento delle risorse offerte da questi territori?
La brama di possesso del colonialista è, effettivamente, ancora viva nei cuori degli occidentali?
L’interesse degli europei è quello di controllare i Paesi attraverso governatori fantocci? È questo che li spinge a difendere dittatori che al bene del popolo sovrappongono la loro sete di potere e di ricchezza, ubriacati dalle concessioni fatte loro dai ricchi partner occidentali?

Tante domande alle quali dare risposta è impossibile.

Il grido unanime del popolo del Sahel: via i colonizzatori!

Sebbene non ci siano risposte certe, per gli abitanti del territorio del Sahel quella del buon occidentale giunto per portare pace e prosperità in Africa é solo una maschera.
Le promesse da marinai, annunciate dagli europei in occasione del loro intervento in questi Paesi, sono state svelate.
Facile approfittare della fama ottenuta a seguito del buon esito di una singola missione. Facile ottenere il consenso popolare nel breve periodo.
Ma poi cosa resta nel lungo termine?
Eccessivi costi. Difficoltà a trasmettere valori e sistemi. Impossibilità a trovare governatori non corrotti. Questi fattori portano i salvatori giunti dall’Occidente a stancarsi in fretta di investire risorse nei territori in difficoltà e a guardare altrove. E la situazione dei Paesi illusi dalle belle parole rimane invariata.

Il popolo del Sahel, però, non è più disposto a stare a questo gioco. Si è stufato a sua volta. E ora scende in piazza per chiedere che gli occidentali se ne vadano.

Il ritorno ai golpe militari

Quelle stesse polverose vie nelle quali la gente si é ribellata e ha fatto sentire il suo grido per cacciare i dittatori che l’avevano soggiogata per anni, ora riecheggiano dei passi delle persone che manifestano contro i presunti salvatori europei.
Ora tocca agli occidentali. Ora la dittatura militare non pare più così negativa. Tra tutti i mali sembrerebbe il minore.

E così, a poco a poco, si sta assistendo ad un ritorno degli eserciti al potere in tutto il Sahel. I colpi di stato militari sono iniziati nel 2020 in Mali e si sono diffusi in rapida successione lungo tutta la striscia centrafricana. Dal Ciad nell’aprile del 2021, alla Guinea a settembre 2021, al Sudan in ottobre, e, per finire, nel Burkina Faso a gennaio 2022. Nel Mali ve ne è stato addirittura un secondo nell’aprile del 2021.
La pandemia degli ultimi due anni ha solo accelerato un processo già in corso, accentuando i gravi problemi che già affliggevano il territorio del Sahel e, in generale, tutto il Continente Nero.
La popolazione è stanca di sentirsi promettere utopie di ammodernamento e sviluppo che si rivelano sabbia nel vento.

Le tre bibliche piaghe non hanno mai abbandonato questi Paesi. Guerra, carestia e peste continuano a regnare sovrane.

La ricchezza continua a rimanere appannaggio di pochi governatori corrotti, per nulla inclini a condividerla con la gente comune. E così lo sviluppo viene costantemente ostacolato dalle crisi economiche.
Il problema della fame non è stato risolto, anzi la siccità, amplificata dalla crisi climatica, sta devastando ancor più una terra già arida.
Il Covid si è aggiunto ai già numerosi problemi sanitari e al lungo elenco di malattie per le quali le persone non hanno accesso a cure.
E infine, l’incapacità dei governatori di gestire le situazioni critiche non fa che aprire la strada a lotte interne, ma soprattutto al terrorismo.

Queste le tre cause che accomunano i colpi di stato militari nei diversi territori del Sahel.
Questo il motivo che spinge il popolo africano ad affidarsi alla rigidità di un regime retto dall’esercito. La promessa di ordine e pace dei militari pare più concreta di quella fatta dagli occidentali.

L’Europa è, ora, alle prese con la guerra in casa. Ma fino a poco tempo fa la gente si era quasi dimenticata di cosa fosse la guerra. Questa parola sapeva di eco lontana, di terre selvagge e distanti. Ora, invece, è tornata più reale che mai, dando la possibilità di capire cosa significhi vivere costantemente sotto la cortina di un conflitto.
La speranza è che questa terribile esperienza possa servire a ricordarsi più spesso di quei popoli lontani che sono ogni giorno soggiogati al terrore e far si che il mondo occidentale si impegni veramente e non si dimentichi che esistono persone anche al di la dei suoi confini.