Da Calvino alla vita reale, basta passare per le “città invisibili”
Il gradino si spezza sotto al mio piede. Sento il vuoto, è inebriante. È inebriante. Ma non perpetuo. Il mio corpo cade, precipita in mezzo alla città rovinosa. I ponti di scale sono ovunque, salgono? Scendono? Difficile a dirsi, le scale sono tutte uguali. Il mio corpo nell’aria si rovescia, facendomi vedere un bellissimo cielo grigio-dorato, tutto incorniciato dalle scale di Ottavia la città tra le montagne. Ma anche la caduta è imperitura. atterro dolcemente sopra un cumulo di foglie, tutte raccolte ai piedi di un bellissimo storace. Alto, storto e antico, con le radici che scavano nel terreno e scavando finiscono per uscire dal terreno, finiscono per forare la terra e farla sbriciolare sotto la grande mole dell’Albero.
La vita continuava, le radici tessono sentieri da seguire, e si uniscono a scale da salire. Ma salire verso dove? Verso l’alta Ottavia. Le scale si intrecciano, si separano. Salgono e scendono repentine, ma non se ne conosce lo scopo ne la destinazione. È tutta una incognita, una città basata sulle domande e sulle silenti risposte che ululano le folate di vento e gli scricchiolii. Il mondo da quella posizione era speculare a quello che avevo visto cadendo, una voragine nella realtà, uno squarcio aperto sul nulla e nel nulla. Un ripetitivo loop alla Escher, ma così ripetitivo da non essere mai uguale e mai per l’appunto ripetitivo. Ogni volta si scorge un particolare, un dettaglio che si è scordato o si è appena notato. In un mondo che è un eterno neonato mi ritrovo a camminare, perso, non sapendo quale strada percorrere, se scendere o salire.
Vago per l’aerea Venezia, chiedendomi se stia percorrendo la strada corretta, se stia seguendo il gradino giusto. È più corretto scendere o salire? Se scendo potrò risalire? Verso dove sto andando? In che luogo ci stiamo dirigendo io e le rampe? Perché anche loro non sembrano sicure della direzione che hanno preso, sembra che gli piaccia cambiare, che sia uso cambiare direzione con una fugace rapidità. Passato un ponte sospeso questo cambia. Ci deposita dolcemente come un Caronte sulle rive dello Stige celeste e ci fa proseguire mutando. Tuttavia non con movimenti palesi e chiari, ma con illusoria fissità. Talvolta rimangono fissi, come in attesa del ripensamento, di un mio ripensamento.
Sono nella stretta piazza della urbe, di una città che è sospesa, che è in standby. In una eterna caduta. Siamo forse un po’ tutti fermi in una eterna caduta? Siamo forse vittima del nostro tempo? Fermi in una pausa involontaria, bloccati dall’ovatta e dalla realtà che ci avvolge come la mascherina che ci cinge il naso? Siamo tutti fermi, immobili all’interno della viscida amuchina, che ci permette libertà di movimento ma per timore non ci muoviamo, rimaniamo dove siamo in attesa che qualcosa migliori. In una attesa che sembra ormai perpetua. Ma nostro malgrado la nostra inazione non è altro che un freno di tale miglioramento tanto agognato. Dobbiamo solo sapere quale ponte seguire, quale scala ascendere o discendere, quale isola cercare.
La città di Ottavia vuole insegnare a ragionare. E la sua ragione sta nella sua leggiadra essenza, nella sua eleganza senza tempo e senza immobilità. Nei suoi silenzi racchiude più parole di quelle che si sciorinano in una vita intera. Nelle sue grida gelide di vento sussurra quale via è la più propizia, ma il vento è infingardo, può aiutare come ingannare. Ottavia vuole far riflettere il suo abitante prima che precipiti, prima che cada da i suoi fragili e stretti ponti.