Oggi, 19 luglio 2023, ricorre il 31° anniversario dalla morte di Paolo Borsellino. Ucciso, materialmente, dalla mafia nella strage di Via d’Amelio nel luglio del 1992, mentre era a far visita alla madre. Il tritolo è esploso 57 giorni dopo un’altra strage, quella di Capaci, avvenuta il 23 maggio 1992 e in cui è morto Giovanni Falcone insieme alla moglie Francesca Morvillo. Tornava da Roma, dall’ufficio degli affari penali in cui lavorava da un po’ di tempo, dopo essere andato via da Palermo. In entrambi le stragi morirono quasi tutti gli uomini della scorta. Qual è l’eredità di Falcone e Borsellino?
A distanza di 31 anni la domanda da porsi è: cosa abbiamo imparato dai due giudici?
Il loro sacrificio è stato vano o qualcosa è cambiato da allora?
Il lavoro compiuto durante la loro carriera è straordinario. Con il pool antimafia ideato da Rocco Chinnici agli inizi degli anni Ottanta, Falcone e Borsellino hanno messo in crisi il sistema mafioso siciliano.
In quegli anni la mafia viene finalmente condannata in quanto tale, grazie all’introduzione dell’articolo 416 bis su proposta del deputato Pio La Torre. E nel 1986, grazie al lavoro del pool, inizia il processo alla mafia più grande mai realizzato: il cosiddetto maxiprocesso. 475 imputati, 2265 anni di carcere inflitti, 19 ergastoli. A oggi rimane il processo più grande svolto in Italia. Un aiuto a istituirlo è stato dato dai pentiti, tra i quali spicca Tommaso Buscetta.
Le tecniche investigative messe in campo da Falcone e Borsellino sono state una svolta nel modo di combattere la mafia e il maxiprocesso è solo uno dei tanti risultati. Una delle tecniche era quella di seguire il denaro: Falcone e Borsellino avevano le scrivanie piene di assegni con i quali riuscivano a ricostruire i rapporti tra persone; impararono ad analizzarli da soli, senza nessun corso, senza nessun aiuto.
Anche l’ascolto dei pentiti ha avuto una funzione importante. Falcone con Buscetta ha svolto un lavoro mai visto prima. Si conoscevano già da prima, entrambi provengono dal quartiere Kalsa di Palermo e da piccoli hanno giocato insieme. Da adulti si sono trovati davanti a una scrivania con ruoli contrapposti, ma con un rispetto reciproco ammirevole. Il giudice durante gli interrogatori ha riportato tutto a mano per non minare la fiducia guadagnata, dato che Buscetta gli aveva chiesto di non registrare.
Una qualità che ha influito molto nel lavoro svolto è stata quella di sapersi adattare al contesto. Spesso quando Falcone si confrontava con i mafiosi utilizzava il loro stesso linguaggio, conosceva i loro codici. Giuseppe Ayala ha raccontato un episodio, PM del Maxiprocesso: quando Falcone e Ayala sono andati in America per parlare con Buscetta, Falcone ha presentato Ayala come ci si presenta tra mafiosi, pronunciando la frase: «Questo è la stessa cosa». Tra tutti i pregi che però hanno contraddistinto i due giudici spiccano la tenacia e la passione per il loro lavoro.
Hanno avuto ritmi di lavoro estenuanti, lavoravano per più di 20 ore al giorno chiusi in ufficio, eppure il sorriso non mancava mai.
L’eredità…
Quella dei due giudici, l’eredità di Falcone e Borsellino, è una eredità morale importante. Ci hanno insegnato ad avere paura senza però farla predominare sugli altri sentimenti, anzi affrontandola con coraggio. Ci hanno insegnato che di mafia bisogna parlarne, parlarne ovunque, non esiste un luogo ideale.
Hanno trasmesso la speranza in un futuro migliore, un futuro senza mafia, una società in cui prevale la cultura, non l’omertà e la mentalità mafiosa: perché è soprattutto con la cultura che si combatte la mafia, non solo con le sentenze.