2021: un’annata che, sulla nostra montagna, ha portato un numero notevole di vittime in alta quota. Quali sono le cause di queste scomparse che paiono costantemente in crescita, e che sembrano non risparmiare neanche coloro che, apparentemente, dovrebbero essere esperti e navigati nel cimentarsi nell’attività alpinistica?

E se facessimo un rapido conto? Quante vittime, la nostra montagna, ha chiamato a sé durante gli ultimi anni? Non poche sicuramente. Perché la montagna è un essere splendido e ribelle, un animale potente e libero, ed in quanto tale, non è addomesticato né mai sicuro. Rifugge dalle regole che, all’uomo, paiono norma. È un ambiente selvaggio ed indomabile che tende la mano solo a coloro in grado di conoscerla e assecondarla . Solamente se viene rispettata, la montagna, accompagna l’alpinista, e solo se questi si adatta ai suoi schemi ed alle sue regole.

Regole inappellabili e immutabili. Perché la montagna si può conquistare, ma mai ci appartiene: noi, semmai, le apparteniamo, in balia delle sue asperità e dei suoi capricci.

Un ambiente, allo stesso tempo, quello della montagna, che impietosamente tradisce, pugnala alle spalle e non perdona al minimo fraintendimento, al primo dubbio. Ecco perché, quello di non superare il proprio limite, è un principio da tenere bene fisso in mente.

Massiccio dell’Argentera: la grande regina delle Alpi Marittime. Molti hanno trovato la morte su queste aspre, quanto cristalline, rocce.

Superare quell’asticella che invita ad andare oltre, che porta l’uomo a chiedere di più a sé stesso può costituire la via del non ritorno, la death zone, per prendere in prestito un termine all’alpinismo himalayano. Per molti, questo fa banalmente parte del gioco: la conquista passa necessariamente attraverso al rischio di non tornare giù, è sorella dell’eventualità della morte bianca.

Così, però, non è certamente per il dilettante, per colui che cerca la sua bella giornata fra le alte vette, che tenta di emulare le imprese altrui, che cerca di raggiungere quelle cime che lo renderanno a proprio agio con sé stesso, tramite un pizzico di arroganza e superbia, vezzi tipici di quello che ce l’ha fatta.

Quanti principianti ho visto su terreni che non avrebbero dovuto neanche essere nei loro più astrusi pensieri. Molti sono i ragazzi, le ragazze, gli uomini maturi che ho visto inerpicarsi sui versanti del Malinvern, del Monviso, del gruppo dell’Argentera armati di inconsistente preparazione, di scabrose vesti, di calzature improponibili esibendo un atteggiamento tracotante ed irrisorio. Quanti ho portato personalmente giù dalla vetta, in preda al panico, al terrore di chi ha visto la morte in faccia, di chi è conscio di essere scampato alle grinfie del non ritorno.

Perché è questa la realtà, inutile negare. È fuorviante limitarsi a generalizzazioni, stupido è l’atteggiamento di chi si nasconde dietro a frasi di circostanza, all’empio egoismo di chi afferma: succede, ma non è capitato a me.

Eppure, non capita. Non è una roulette che afferra il primo malcapitato. Sono le cause, le motivazioni a priori che vanno affrontate. Sono le ragioni dietro all’errore che vanno analizzate, perché dietro ad una caduta c’è sempre l’errore, tecnico, di paura, o di disattenzione che sia. Sempre un errore è.

Pic de Rochebrune: l’oscuro signore dell’Izoard.

Il problema, spesso, risiede in una fondamentale misconcezione a proposito della difficoltà tecnica, delle insidie della montagna e in una errata considerazione degli effetti dell’altezza e dell’esposizione sulla psiche. Si tratta, certamente, di un’accennata generalizzazione, ma da quello che posso dire per personale esperienza, alla base di molte morti in quota vi è una proverbiale mancanza di conoscenza, del saper fare e di rispetto nei confronti del luogo in cui si è. Molto spesso si superano i propri limiti, ma ancor più è la sconfessione dei rischi, la stolta presunzione di essere in grado senza possedere la necessaria esperienza. Quando si è convinti che la cautela sia evitabile, che l’accortezza dei movimenti sia trascurabile, si è un passo più avanti verso l’oblio.

Molti ve ne sono, e molti ancora. Soprattutto da quanto, per evitare gli affollamenti del mare, i capi di bestiame ammaestrati della massa brulicante delle città si avventano in montagna alla ricerca di nuove sfide.

Questi, però, non parlano la lingua della montagna, tantomeno la comprendono. Questo si presta ad un duplice rischio: l’incolumità di un ambiente silvano a contatto con persone che non ne conoscono i meccanismi (assicuro che sui sentieri, nel 2021, spesso l’inquinamento è aumentato sensibilmente) e la sicurezza degli stessi che si avventurano dove non dovrebbero metter piede.

Cima Las Blancias, fra vallone Panieris e laghi di Vens.
NoSignal Magazine

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