Il 19 aprile scorso in India si è dato il via al processo elettorale che porterà alla nomina dei 543 seggi della Lok Sabha, la Camera bassa del Parlamento, e il favorito è nuovamente il Bharatya Janata Party (BJP), il partito nazionalista guidato dall’attuale Primo ministro Narendra Modi. In quello che è stato definito l’anno delle elezioni, dato l’elevato numero di Paesi i cui cittadini sono o sono stati chiamati alle urne per eleggere i loro rappresentanti politici, le elezioni nell’attuale nazione più popolosa al mondo non passano certo inosservate. Tantopiù che l’India, fondato sui principi della democrazia e della laicità, potrebbe veder messi a dura prova i suoi valori se Modi dovesse ottenere un terzo mandato consecutivo.
Nel frattempo, in attesa dei risultati che si avranno solo il prossimo 4 giugno, il mondo si domanda quale sarà l’indirizzo politico che Modi intenderà dare al suo Paese qualora venisse rieletto: se continuerà ad avanzare sulla via di forte indebolimento della democrazia, silenziando degli oppositori politici e perseguitando le minoranze religiose, e se proseguirà sul cammino di riforme profonde dell’economia e dell’industria indiana, le quali stanno sì facendo crescere il Paese, ma al prezzo di un forte incremento delle diseguaglianza.
Negli ultimi dieci anni si è sentito molto parlare di Narendra Modi, definito dalla Global Leader Approval Raiting Tracker il leader più carismatico e influente del momento, e ci siamo ormai abituati a vedere la sua elegante figura, o a sentire nominare il suo nome; ma poco sappiamo del passato di quest’uomo, capace di portare un paese povero come l’India a ricoprire il ruolo di quarta economia più sviluppata al mondo.
Modi, il modello del self made man
Nato nel 1950 a Vadnagar, un villaggio nei pressi di Bombay nello stato federato del Gujarat, Modi ha vissuto un’infanzia molto umile. Figlio di un venditore di tè e appartenente a una delle caste più basse della gerarchia indiana, la fede induista della sua famiglia lo ha plagiato sin dagli albori. Già a otto anni il futuro Primo ministro indiano militava nel RSS, il Rashtriya Swayamsevak Sangh, un’organizzazione paramilitare indiana volta alla promozione e alla diffusione della cultura Indù in tutta la nazione, diramatasi in svariati settori della società anche grazie ai suoi enti affiliati, tra cui, a livello politico, proprio il BJP di Modi.
L’ideologia promossa dal RSS è quella dell’Hindutva, ossia l’obiettivo di fare dell’India uno stato di religione induista, nel quale si parli una sola lingua, l’hindi, e dove il potere sia concentrato nelle mani della comunità Indù, che deve essere solida e omogenea. Questa filosofia, che il Modi bambino si è visto inculcare fin dai primi anni di vita, ha influenzato fortemente la sua ideologia e le sue scelte politiche, portando all’attuale situazione di forte repressione delle altre minoranze religiose cristiana e musulmana. Ma la narrazione di sé che l’attuale leader del BJP ha voluto ricamarsi addosso non riguarda tanto ideologia e cultura, quanto l’aspetto più concreto e materiale della sua adolescenza: l’immagine del self made man, nato da una famiglia povera eppure in grado di costruire il proprio successo personale, rimboccandosi le maniche e lavorando sodo per poter permettersi gli studi universitari e per scalare le gerarchie del RSS prima e del BJP dopo, fino a coronare, sessantatreenne, il sogno di diventare Primo Ministro.
Quello costruito da Modi è un personal branding, per così dire, che ha sicuramente contribuito a fargli ottenere il successo e la fiducia degli elettori, mostrandosi quale persona semplice, proveniente dal popolo comune e a questo ancora fortemente legato, ma capace di cambiare il suo destino, di abbattere le barriere erette attorno a lui e ottenere potere e successo. Una sorta di metafora della stessa nazione indiana che vuole coronare il sogno di trasformarsi da paese povero a grande potenza mondiale. Di recente, però, fonti vicine allo stesso presidente avrebbero smentito alcuni passaggi della sua narrazione, definendola falsa e romanzata. Come l’affermazione secondo cui a quindici anni Modi lavorasse insieme al padre come chai wallah, ossia ragazzo del tè, quando pare invece che all’epoca si rifiutasse di aiutare la propria famiglia per dedicarsi alla sua grande passione, il teatro.
Da governatore del Gujarat a Primo Ministro: la scalata di Modi
Nel 1987 l’RSS decide di far entrare alcuni suoi esponenti nel partito nazionalista BJP, così da poter influenzare anche a livello politico la società indiana. Tra i prescelti figura Modi, che all’epoca era già riuscito a farsi notare all’interno del RSS e a ritagliarsi il suo spazio, mantenendo posizioni moderate e senza mai entrare in contrasto con i leader più estremisti dell’organizzazione. Caratteristica che ha mantenuto anche successivamente, come si può notare sia nelle scelte politiche fatte all’interno del paese, dove non ha mai ostacolato l’iniziativa violenta delle fasce estreme induiste contro le altre minoranze religiose, sia nelle relazioni con i rappresentanti delle altre potenze globali. In buoni rapporti con i presidenti americani Trump e Biden, che vedono nell’India un ottimo alleato nel contrastare la Cina e bilanciarne l’influenza nell’Asia, Modi non ha mai rotto del tutto i rapporti con il ‘Dragone’, come non ha mai criticato del tutto il presidente russo Putin, mantenendo una certa neutralità rispetto alla sua decisione di invadere l’Ucraina. Un doppiogiochismo che ha portato l’India a sospendere la vendita di armi al Cremlino ma non l’importazione di petrolio dalla Russia, contribuendo a rendere meno efficace l’embargo attuato dalle potenze occidentali.
Ma torniamo all’87. Si può affermare che iniziò così la militanza di Modi all’interno del partito politico con il quale avrebbe poi vinto le elezioni parlamentari nel 2014, scalzando il principale rivale, l’Indian National Congress, la fazione che aveva guidato il paese dall’anno della sua indipendenza per quasi un cinquantennio. Con l’avvento della sua carriera politica, Modi lasciò il Gujarat nel 1998, quando divenne segretario generale del BJP, per farvi ritorno pochi anni dopo come ministro capo, restando al potere dal 2002 al 2014. Sotto la guida di Modi il Gujarat conobbe un periodo di fiorente prosperità economica e raggiunse un incredibile grado di sviluppo. Per quanto non si possa sostenere che senza la leadership di Modi la regione non sarebbe giunta agli stessi risultati, il governatore fu comunque bravo a mettersi in luce, tanto che lo stesso Times, in un articolo del marzo 2012, affermava « Modi means business ».
I riflettori accesisi attorno a questo carismatico governatore non passarono certo inosservati all’interno del suo stesso partito, e il BJP decise che era Modi la figura giusta su cui puntare per sconfiggere l’egemonia dell’Indian National Congress alle successive elezioni nazionali. In un’India sempre più caratterizzata dalla corruzione delle caste dominanti e da difficoltà economiche che facevano stagnare lo sviluppo, il leader che aveva portato al successo il Gujarat, che si presentava come una persona semplice, di modesta estrazione sociale ma capace di raggiungere il successo, retto e forte nelle sue convinzioni politiche e religiose e allo stesso moderato nel suo programma, riuscì a conquistare il consenso della popolazione.
Nel 2014 Modi ottenne il primo mandato da Primo ministro dell’India, incarico che fu riconfermato nel 2019 con un grande trionfo elettorale che confermò l’apprezzamento dei cittadini nei suoi confronti, fino a giungere alle attuali elezioni, dove la probabilità di una sua seconda riconferma è assai elevata.
I lati oscuri della figura di Modi
Al di là del grande successo che la figura di Modi sta riscuotendo a livello nazionale e internazionale, le critiche alla sua politica, a certe sue scelte e certe sue idee, non mancano. A livello internazionale il successo della sua politica non può che essere riconosciuto, l’economia indiana è in crescita, il Paese si sta rendendo indipendente dalle forniture estere, è diventato più moderno e più allettante anche per potenziali investitori stranieri. In particolare, ha intrapreso una sorta di gara contro la Cina per stabilire quale sia tra le due la nuova potenza egemone a livello mondiale, riuscendo anche a infliggere alcuni smacchi all’avversario, come il recente allunaggio avvenuto lo scorso agosto. Ma ci si chiede quanto sia reale questo successo, e quanto dipenda, ancora una volta, da una distorsione della realtà che la narrazione del presidente indiano pare essere specializzata nel fare. Molti criticano, infatti, il metodo utilizzato da Modi e dai suoi funzionari per calcolare il valore del PIL indiano, che sarebbe stato distorto appositamente per risultare più elevato.
Indipendentemente dalla correttezza dei calcoli, però, va considerato che il PIL stesso non pare l’indicatore più adatto per esprimere il reale stato di benessere della popolazione indiana che, come detto, è caratterizzata da un forte squilibrio sociale che poco si addice a una democrazia, con la stragrande maggioranza dei cittadini che guadagna l’equivalente di circa 12 dollari al giorno. Inoltre, non va dimenticato che, se l’India si può effettivamente fregiare del titolo di quarta potenza al mondo, il gap in termini di sviluppo e ricchezza rispetto a chi la precede è ancora assai ampio.
A livello nazionale le critiche nei confronti di Modi non sono mancate e, anzi, si sono manifestate in maniera esilarante, con grandi mobilitazioni di massa; ne sono esempi le manifestazioni degli agricoltori contro la privatizzazione dei terreni e le proteste, scoppiate a dicembre 2019, contro il Citizen Amendment Act, una legge che permette ai rifugiati non musulmani in India di ottenere più facilmente la cittadinanza. Una norma che viene vista come un grave affronto alla laicità su cui si fonda lo stato indiano, oltre che un’ulteriore prova dell’accanimento del governo verso la minoranza musulmana presente sul territorio, e che ha portato migliaia di cittadini, in particolare studenti, a mobilitarsi. Altri esempi clamorosi sono stati l’espulsione dalla Lok Sabha del capo dell’opposizione, Rahul Gandhi, nel marzo del 2023 e l’abbandono del parlamento da parte di tutti i membri dell’opposizione, nel luglio dello stesso anno, quando Modi si rifiutò di discutere delle violenze etniche scoppiate nel territorio del Malipur tra la minoranza cristiana dei Kuki e gli induisti Meitei; una replica dell’apparente indifferenza e inerzia del governo già vista nel corso dei Gujarat Riots, la macchia più evidente nel perfetto curriculum del presidente.
Se in occasione del discorso per la vittoria delle elezioni nel 2014 Modi aveva detto che il potere sarebbe appartenuto a tutti, nel corso dei suoi due mandati il presidente ha mostrato una sempre maggiore deriva verso l’autoritarismo e la repressione dell’opposizione e delle minoranze non induiste e si è dimostrato più che mai fedele ai principi della Hindutva nella realizzazione di un solido stato induista. Già nel 2002, a seguito di un incidente ferroviario occorso proprio nel Gujarat, che provocò la morte di 58 induisti e la cui colpa ricadde sulla minoranza musulmana (che fra l’altro rappresenta il 15% della popolazione indiana, circa 2 milioni di persone), Modi fu accusato, con l’intero suo partito, di non aver fatto nulla per placare le violenze esplose successivamente e anzi di aver fomentato la comunità indù all’odio verso i musulmani. I successivi tre giorni di scontri fra le due comunità religiose provocarono più di mille morti, di cui circa 800 musulmani, e passarono alla storia come i Gujarat Riots, macchiando indelebilmente la figura di Modi, soprattutto a livello internazionale.
Ma la repressione nei confronti delle comunità di fede diversa da quella induista sembra essersi inasprita nel corso del secondo mandato di Modi, così come la repressione dell’opposizione e la censura dei giornalisti avversi all’attuale governo. La stretta nazionalista del primo ministro sembra essersi fatta più stringente, come dimostrato dalla revoca dello statuto speciale alla regione del Jammu e Kashmire, al confine con il Pakistan e da questo rivendicata, divisa ora in due territori sotto diretto controllo del governo centrale e fortemente militarizzati, lo Jammu e Kashmire e il Ladakh.
Il tramonto della democrazia indiana?
Per sapere quale sarà il futuro dell’India si dovrà, comunque, ancora attendere visto l’enorme e difficile lavoro che la macchina elettorale deve mettere in atto per consentire a tutti gli aventi diritto, 970 milioni di cittadini su una popolazione totale di un miliardo e mezzo di individui, di esprimere la loro preferenza recandosi a un seggio che non deve distare più di 2 km dalla loro abitazione, come decretato da una legge in vigore dal 1947, anno in cui l’India ottenne l’indipendenza, e con schede elettorali elettroniche stampate in 12 lingue diverse, ossia la maggior parte degli idiomi parlati in un territorio che si inoltra dalle vette himalayane alle isole dell’Oceano Pacifico.
Sette fasi di votazione nelle quali si stabilisce, tramite voto proporzionale, il deputato che per ogni seggio ha ottenuto più voti e al termine delle quali, in base al partito i cui rappresentanti avranno ottenuto il maggior quantitativo di preferenze, si determinerà quale sarà la formazione che governerà il Parlamento.
A fare ancora sperare nella sopravvivenza dei valori fondanti e, quindi, della democrazia più popolosa al mondo, è il fatto che sinora, pur avendo sostenuto il suo presidente malgrado queste forti derive nazionaliste e autoritarie, la popolazione indiana è comunque sempre scesa in piazza per manifestare a gran voce il suo dissenso e dimostrare di non accettare a testa bassa tutto quello che le viene imposto dall’alto. ♦