Natsukashii
Nel 2013 Amélie Nothomb ha pubblicato un breve romanzo intitolato La nostalgie hereuse (La nostalgia felice, Voland, 2014). Non credo di rovinarvi il piacere della lettura riassumendone brevemente la trama. Definito da molti un reportage ‘alla Nothomb’ sul Giappone, è in realtà un diario intimo e spietato che l’autrice ha scritto dopo un viaggio di dieci giorni nel paese del Sol Levante, sedici anni dopo averci messo piede l’ultima volta, accompagnata da una troupe televisiva il cui compito è stato quello di tallonarla da mattino a sera per raccogliere materiale sulla sua infanzia e realizzarne un documentario. Per chi non lo sapesse, Amélie Nothomb, figlia di un diplomatico belga, è nata a Kōbe, una trentina di chilometri a ovest di Osaka, e qui ha trascorso parte della sua infanzia prima di trasferirsi in Cina, Stati Uniti, Bangladesh e infine Europa. Fino al giorno della partenza, il 27 marzo 2012, Nothomb considerava il suo idillio col Giappone semplicemente perfetto: infanzia, sradicamento, nostalgia, dopodiché il ritorno, all’età di vent’anni, nuove amicizie, una tresca divenuta in seguito una relazione appassionata, terreno fertile dove coltivare scoperte, poi il respingimento, l’abbandono, la fuga. Qualcuno, non ricordo chi, una volta mi disse che una storia può finire soltanto in tre modi: con l’amore, con la morte del protagonista o con la sua fuga. Narrativamente parlando la parabola giapponese di Amélie Nothomb è una storia fatta e finita, e questo lo sapeva anche lei, la quale, abituata a ragionare nei termini che il mestiere della scrittrice impone, si domandava se questo sequel sarebbe stato all’altezza dei primi due capitoli.
Arrivata in Giappone, l’Amélie-personaggio si fa portare nei luoghi in cui è cresciuta, ampiamente demoliti dal terremoto del 1995, luoghi assai diversi eppure dall’aria così familiare, visita la scuola che ha frequentato da bambina, ritrova la sua vecchia tata e persino Rinri, fidanzato dall’animo gentile con cui è stata insieme due anni e che lei ha lasciato prima della ‘fuga’. È allora che si spalanca il portale dei ricordi e affiora la nostalgia. Ma non quella nostalgia malinconica da rientro dalle ferie, e nemmeno la nostalgia che sperimentiamo quando cominciamo a vivere aggrappati morbosamente al passato. No, si tratta più che altro di una nostalgia felice, euforica persino. I giapponesi la chiamano Natsukashii e in italiano non esiste una traduzione precisa. Indica l’esatto momento in cui la nostra memoria rievoca un bel ricordo, un ricordo appunto felice, capace di riempire il nostro animo di dolcezza. Natsukashii è il profumo della carta di quel libro dalla costa rossa, la sigla di quel cartone animato, la vista di quella via o quel parco o quella casa, lo stillicidio dell’acqua dai balconi, perché quel giorno là aveva piovuto. Di più: un caro amico che conosce molto bene la cultura giapponese mi ha suggerito l’ipotesi secondo cui la validità di questo termine possa estendersi anche ai ricordi di epoche che non abbiamo vissuto, di vite che non sono le nostre, purché alla fine veniamo pervasi dallo stesso calore intimo che avvolge Amélie ogni volta che torna nel suo Giappone. Natsukashii.
Illustrazione di Matteo Galasso