Esiste un’alternativa all’Electoral College?
Prima di avventurarmi nello studio della politica dell’oltreoceano, una delle poche cose che sapevo del sistema con cui gli americani eleggono il presidente, è che non vince il candidato che prende più voti. Me lo ricordo perché è successo appena due elezioni fa, nel 2016. Ero a scuola: era arrivata la notizia che aveva vinto Donald Trump, allora solo un personaggio goliardico con un ciuffo biondo e troppo bronzer sul viso. Nessuno tra di noi però capiva come avesse fatto: la sua sfidante, Hillary Clinton, aveva ottenuto quasi 3 milioni di voti in più, eppure a vincere era stato lui.
Questa apparente stranezza è dovuta al metodo con cui sono organizzate le elezioni presidenziali negli Stati Uniti, il famigerato Electoral College. Si tratta di un sistema di elezione indiretta: ogni 4 anni in ognuno dei 50 stati si tengono 50 elezioni diverse. Ogni stato ‘vale’ o ‘pesa’ una certa quantità di ‘punti’ o ‘chili’, in base al numero di abitanti residenti: questi punti sono chiamati in termine tecnico «grandi elettori» (la metafora estremamente calzante dei punti per indicare i grandi elettori non è mia, ma di Francesco Costa). Saranno poi questi grandi elettori a votare per il presidente e il vice presidente in base al risultato del voto popolare.
Ed è qui che troviamo la regola del winner-take-all: se in un certo stato il candidato del partito democratico ottiene anche solo 1 voto popolare in più del candidato del partito repubblicano, lo stato va tutto al candidato democratico, che ne raccoglie tutti i punti. Non esiste una distribuzione proporzionale dei punti (e questo è il motivo per cui vediamo solamente due grandi partiti sfidarsi alle elezioni. Anche se un terzo partito più piccolo fosse votato da una parte della popolazione, non riuscirebbe mai a superare il risultato dei due più grandi. Risultato? Nessun punto). Avanti così per tutti e 50 gli stati: chi vince le elezioni? Non chi vince il maggior numero degli stati, ma chi, con strategie diverse, vince i punti di tutti gli stati che servono per arrivare a 270.
Tagliamo corto: è un metodo complicato, all’interno del quale nei decenni sono stati trovati migliaia di difetti, e che convive, elezione dopo elezione, con chi lo critica per essere obsoleto e lo vorrebbe vedere abolito.
La prima contestazione riguarda il modo in cui il valore dei punti di ogni stato non è distribuito in modo veramente proporzionale. Se fosse equo, ogni punto del collegio elettorale rappresenterebbe circa 623 mila persone. Non è così, e questo dipende dalla demografia dello stato: cinque stati (Alaska, Delaware, North Dakota, South Dakota, Vermont e Wyoming) hanno solo tre grandi elettori, nonostante abbiano una popolazione ridotta. Questo perché ogni stato ha diritto ad almeno tre grandi elettori (due per i senatori e uno per il rappresentante alla Camera), più un numero di voti pari al numero dei suoi distretti congressuali (che dipende dal censimento). L’effetto è che in Wyoming, il voto di ogni elettore pesa di più rispetto a stati come California, Texas o Florida, dove ogni punto rappresenta più di 700 mila persone.
Ma perché questo ‘peso extra’ dei piccoli stati? Una delle teorie più diffuse dice che i Padri Fondatori idearono questa modalità perché spinti a trovare un compromesso accettabile per tutti gli stati – e infatti la decisione è passata alla storia il Connecticut Compromise. Gli stati più popolosi premevano per un voto nazionale diretto, ma gli stati più piccoli e meno popolati si opponevano, temendo di essere irrilevanti in un sistema di elezione diretta. La regola di attribuire almeno tre grandi elettori a ciascuno stato mirava a proteggere le regioni meno popolate e a garantire loro rappresentanza. In questo modo, si sarebbe anche ridotto lo svantaggio degli stati del Sud, che erano meno abitati rispetto al Nord e dove erano residenti milioni di schiavi: questi, nel censimento, erano conteggiati come 3/5 di una persona, ma non potevano votare. Il sistema quindi favoriva questi stati, assicurando una parità formale tra stati che altrimenti sarebbero stati politicamente schiacciati da quelli più grandi più popolati.
La seconda e più generale contestazione è dovuta alla natura indiretta dell’elezione che non garantisce che il nuovo presidente sarà quello che è stato votato dalla maggioranza della popolazione. Oggi questa modalità stride con il valore che ha assunto il voto popolare nazionale nel contesto democratico: il fatto che un candidato che vince il voto popolare non vinca le elezioni è accettato con crescente fastidio. È successo 4 volte nella storia, due delle quali in tempi recentissimi: Hillary Clinton nel 2016 e Al Gore nel 2000, che ha perso al collegio elettorale nonostante la vittoria nel voto popolare nazionale di oltre 500.000 voti. Storicamente alla scelta di non affidare l’elezione direttamente alla popolazione c’era una sfiducia dei padri fondatori nei confronti dell’elettorato: temevano che le masse fossero influenzabili, instabili e manipolabili dai politici locali e quindi meno adatte a scegliere direttamente il leader del paese. Inoltre, anche questo aspetto rientra nel Connecticut Compromise: in molti spingevano affinchè fosse il Congresso ad eleggere il presidente e non volevano dare questo potere alla popolazione comune.
E oggi? La discussione è concreta e va avanti da decenni con le voci dei politici più progressisti e di organizzazioni di riforma elettorale. Più del 60% degli americani è favorevole all’abolizione di questo sistema, ma poiché le regole per eleggere il presidente sono scritte dentro un emendamento, il dodicesimo, qualsiasi cambiamento richiederebbe una modifica della Costituzione. E questo è molto difficile da attuare. Nei numerosi tentativi nel corso della storia, persino il vicepresidente Hubert Humphrey nel 1956 e il presidente Jimmy Carter nel 1977 si sono mossi per promuovere l’abolizione. Nel corso degli ultimi 235 anni, l’Electoral College è sopravvissuto a quasi 800 tentativi di modifica. La proposta più concreta, ad oggi, è un accordo interstatale chiamato National Popular Vote Interstate Compact (NPVIC). Si tratta di accordo sottoscritto da diversi stati degli Stati Uniti e dal Distretto di Columbia per aggirare il Collegio Elettorale e le modifiche Costituzionali e assicurando di eleggere il presidente sulla base del voto popolare nazionale. Tuttavia questo patto potrà entrare in vigore solo se gli stati partecipanti avranno accumulato collettivamente almeno 270 voti elettorali. Attualmente, se ne contano solo 209. Le alternative esistono, ma avranno mai una possibilità? ♦︎