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Super Tuesday e Big Money

Il 5 marzo 2024 sarà un martedì. Fin qui, sembra non esserci niente di interessante. Eppure, ve lo assicuro, il 5 marzo non è un martedì qualsiasi: è il super martedì o, meglio, il Super Tuesday.

Ci troviamo ancora nella prima fase delle elezioni presidenziali, le primarie, dove si scelgono i candidati dei rispettivi partiti. Lo scorso mese hanno aperto le danze Iowa e New Hampshire, storicamente i primi stati in cui si vota, e piano piano le settimane avanzano, proiettate verso uno degli appuntamenti più importanti sul calendario elettorale. Il Super Tuesday è il giorno in cui il più alto numero di stati organizza le primarie: in questa tornata elettorale andranno al voto 15 stati e un territorio americano, le isole Samoa. Solitamente il Super Tuesday è significativo per inquadrare il destino dei potenziali candidati alla Casa Bianca: è il momento in cui si capisce con un certo grado di sicurezza chi rappresenterà il partito democratico e chi quello repubblicano.

Quest’anno, però, è diverso: il Super Tuesday sarà un po’ meno super. Nel primo numero di Oltreoceano lo abbiamo accennato senza tanti giri di parole: a meno che non entrino in gioco serie conseguenze legate a ‘quei’ fattori (l’età di Biden che si fa sentire sul serio e la situazione giudiziaria di Trump) saranno Biden e Trump i due candidati alle elezioni di novembre. A gennaio si sono timidamente ritirati sia l’imprenditore Vivek Ramaswamy che Ron DeSantis, governatore della Florida, appoggiando ufficialmente un mastodontico Trump. Nel partito democratico, gli avversari di Biden erano tanto deboli che è il presidente riuscito a vincere nello stato del New Hampshire pur non essendoci nella lista dei nomi da barrare sulla scheda elettorale.

Eppure, c’è chi non molla. Si chiama Nikki Haley, ha 52 anni ed è l’ex governatrice della Carolina del Sud, nonché ex ambasciatrice alle Nazioni Unite. Ad oggi la sua campagna elettorale per diventare la candidata del partito repubblicano sta continuando, imperterrita, nonostante abbia perso in tutti gli stati in cui si sono tenute le primarie. In Nevada, dove Trump e Haley si sono sfidati con due modalità diverse di primarie – una ‘primaria’ e un caucus: sì, lo so, è un casino – Haley ha perso prendendo meno voti della simbolica opzione «nessuno di questi candidati» inserita sulla scheda elettorale.

Che poi, sarebbe meglio dire: c’è chi non ha ancora mollato. Haley inevitabilmente lo farà: già all’inizio della sua inesorabile debacle, i giornali americani riflettevano sull’esistenza di una possibilità matematica per Haley di vincere. Ma con le vittorie che Trump sta accumulando, sembra ormai impossibile. La domanda sorge spontanea: non sarebbe meglio ritirarsi, prima del Super Tuesday, evitando così la probabilissima larga sconfitta? La risposta alla domanda sul perché, sorvolato l’afflato eroico che la fa andare avanti perché «il paese merita di meglio di questi due anziani» sta in un aspetto molto più pratico: non ha ancora finito le risorse finanziarie. Haley conta infatti su una squadra di ricchi anti-trumpisti che sono ancora disposti a sostenerla, economicamente parlando. Per provare a capire il caso dell’infinita campagna elettorale di Haley bisogna parlare di un argomento molto più grosso, che riguarda non solo queste elezioni, ma anche quelle passate, e sicuramente quelle del futuro: il ruolo dei soldi delle campagne elettorali.

I soldi c’entrano parecchio, con le campagne elettorali. I motivi sono tanti: le elezioni americane sono particolarmente lunghe, rispetto alla nostra sensibilità – iniziano più di un anno prima dell’election day di novembre, quindi quella di quest’anno è iniziata nella primavera 2023 – e la durata super estesa le rende inevitabilmente un progetto costoso. Ciò che le rende ancora più dispendiose è il fatto che, per costruirsi un elettorato solido, i candidati viaggiano stato per stato – o coprono più specificamente alcune zone d’America, a seconda delle strategie – e incontrano le persone dal vivo, ci parlano, passano del tempo nelle cittadine di provincia per conoscere il proprio potenziale elettorato e plasmarlo. L’organico di una campagna elettorale è composto anche da volontari, ma con la ultra-specializzazione delle campagne contemporanee e lo sfruttamento ottimale delle piattaforme dei social media, avere dei consulenti che gestiscono la campagna ‘digitale’ è fondamentale. Poi ci sono le pubblicità, dove confluisce la più grossa parte delle spese elettorali: una delle più grandi agenzie pubblicitarie del mondo, GroupM, suggerisce che le entrate totali derivanti dalla pubblicità politica potrebbero raggiungere un totale di 17,1 miliardi di dollari nella tornata elettorale del 2024, e si prospettano 20 miliardi per la prossima del 2028.

A questo punto, per mostrare come nel tempo le spese nelle campagne elettorali siano aumentate esponenzialmente, mi servirebbe un bel grafico a colonna: nella tornata del 1996, fra Bill Clinton Bob Dole, sono stati spesi complessivamente 87 milioni di dollari, in quella del 2004 (G.W. Bush – John Kerry) 513 milioni. Farcendo i conti per l’ultima elezione, quella del 2020, la spesa totale è arrivata a 14.4 miliardi di dollari. E quando si arriva a cifre a nove zeri, è lecito pensare che ci sia un corpus di leggi che regolamenti cifre di una portata tale. E in effetti è così, in un certo senso.

Negli Anni ’70 si è cominciato a inquadrare la posizione dei soldi nelle campagne elettorali, per gestire l’eventuale corruzione che si sarebbe potuta manifestare visti i precedenti del Watergate. I soldi che contribuiscono alle campagne cominciano a essere monitorati dalla neonata Federal Election Commission (FEC), e vengono imposti dei limiti: su quanti soldi i cittadini possono donare, e su quanti un candidato può spenderne. Nascono i political action committee, abbreviati in PACs, organizzazioni di raccolta fondi elettorale indipendenti da ogni partito: sono ‘gruppi’ usati da aziende, sindacati e individui che lavorano per un certo tema sociale o ideologia.

Ma presto qualcosa scricchiola: è il 1976, e un caso della Corte Suprema, Buckley v. Valeo, evidenzia che i limiti imposti dalla FEC violano il Primo Emendamento. Il ragionamento è questo: decidere che c’è un tetto su quanti soldi possano essere spesi in una campagna elettorale, limita i mezzi con cui si possono far circolare un certo messaggio politico e far conoscere un certo candidato – se si hanno meno soldi a disposizione, il messaggio politico arriverà meno lontano, più debolmente. Questo, per la Costituzione americana, significa limitare la libertà di espressione. Allo stesso modo, dire a John Doe che c’è un limite per quanto possa donare, in contesto elettorale, corrisponde alla violazione della freedom of speech. Condividere il supporto per un candidato o per una certa causa è un’attività lecita e legale, così come lo sarà per John Doe utilizzare il proprio denaro come mezzo per supportare quel candidato o quella causa. Limitare l’uso di quel mezzo corrisponde a impedire tutta l’operazione. Il fondamento logico di questo sillogismo sembrerebbe inattaccabile, ma la diretta conseguenza è chiara: chi ha il mezzo più potente avrà miglior risultati nel supportare un candidato o un’idea. In soldoni, chi dona più soldi ha un’influenza più grande nel risultato finale.

A risolvere la questione, però, ci sono i soft money, soldi ‘aggiuntivi’ donati al partito o ad un gruppo – e non direttamente a un candidato, a cui è già stato donato il massimo che la legge consentiva – in teoria usati per attività di ‘costruzione’ del partito, come la registrazione degli elettori al voto e le campagne per invogliare la popolazione a votare. Da quanti virgolettati ho scritto, si capisce che presto i soft money son diventati una scappatoia non regolata per versare contributi esorbitanti in una certa direzione politica e influenzare, pubblicizzare un certo candidato. La questione viene a galla nel 2002 con la Bipartisan Campaign Reform Act (BCRA), che sembra impartire rigore e imporre trasparenza ai soft money, con l’obiettivo di ridurre la capacità dei suddetti di influenzare – senza un tetto massimo – il processo elettorale. Questo, in teoria. In pratica un’altra scappatoia (delle dimensioni di una sezione di un articolo del testo legge) ha permesso che continuasse indisturbata l’attività di donazione, contribuendo, come abbiamo accennato prima, alla spesa di mezzo miliardi di dollari delle elezioni del 2004. Poi nella campagna presidenziale del 2008, Citizen United, una società conservatrice no profit voleva mandare in onda un documentario su Hillary Clinton, e da lì a due anni le cose sono cambiate ancora.

Super Tuesday
Oltreoceano, la rubrica sulle elezioni americane. Secondo episodio: Super Tuesday e Big Money

Nel 2010 arriva la più importante e contestata decisione della Corte Suprema, nel caso-chiave Citizen United v. FEC (sempre la Federal Election Commission). La decisione legifera sulla partecipazione delle aziende e delle società nelle campagne elettorali, che, a partire da quel momento, si vedono riconosciuti gli stessi diritti di free speech dei finanziatori individuali, secondo il Primo Emendamento. Facciamo ordine per capire bene cosa significa: a partire dal 2010, le aziende hanno avuto la possibilità di contribuire alle donazioni per le campagne elettorali, con lo stesso diritto degli altri singoli cittadini.

Nascono i Super PACs, che, a differenza dei PACs tradizionalmente esistiti, possono ricevere illimitati contributi da individui, corporazioni, aziende e sindacati e spenderne altrettanti, come John Doe. Quello che non possono fare, in teoria, è coordinare le spese con i candidati che sostengono, e sostenerli direttamente con i fondi raccolti. Di nuovo, in teoria. Questo perché tendenzialmente i Super PACs trovano modi creativi per farlo. Dal 2010, i veri protagonisti del panorama delle finanze elettorali sono stati i Super PACs. che hanno reso realtà una nuova era di spesa elettorale, con una quantità di denaro in precedenza inimmaginabile che entra nel sistema politico. Si possono pescare esempi pressoché ovunque: il 24 gennaio 2024, sul New York Time, Future Forward, il Super PAC che sostiene più da vicino Joe Biden, ha annunciato che sta cominciando a racimolare 250 milioni di dollari per il piano pubblicitario da mettere in atto dopo la convention democratica di agosto.

La sentenza Citizens United v. FEC, ha scatenato, e scatena ancora oggi, una valanga di critiche e proposte di riforma da parte di numerose personalità politiche, che vedono in essa una grave minaccia alla democrazia. L’ex Presidente Barack Obama, ad una settimana dalla decisione, ha espresso immediatamente la sua preoccupazione, sottolineando: «Non penso che le elezioni americane debbano essere finanziate dagli interessi più potenti dell’America o, peggio, da entità straniere». E che avrebbe «aperto le porte a un diluvio di spese speciali non tracciate nelle nostre elezioni». La Senatrice Elizabeth Warren ha ripetutamente chiesto una riforma attraverso lo slogan «Getting Big Money Out of Politics», e ha promosso l’idea di emendare la Costituzione per ribaltare la decisione. Bernie Sanders, coerente con il suo messaggio di contrasto all’oligarchia economica, ha dichiarato: «Cinque anni fa, la Corte Suprema ha emesso quella che ritengo sia una delle sentenze più disastrose della sua storia, Citizens United contro FEC, che ha portato alla nascita dei super PAC e alla spesa illimitata, apparentemente indipendente». Robert Reich, ex Segretario al Lavoro, spesso parla, sul suo canale YouTube, delle conseguenze della decisione, enfatizzando come l’insidioso ciclo di denaro e potere minaccia i principi stessi della democrazia americana. ♦︎