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Un viaggio intimo in cinque tappe nel Paese del Sol Levante, tra grattacieli, foreste di case basse e sperduti templi millenari. Quarto episodio

Osaka è la città che preferisco del Giappone. Sarà per la sua modernità un po’ retrò, dove ogni cosa ha uno schermo LCD e una plastica ingiallita che la contiene. Oppure saranno le migliaia di ristoranti affacciati sulla strada, con un asse di legno come bancone e delle cassette della frutta impilate come sedute. Ma non è solo questo. Osaka infonde in chi la visita per la prima volta un senso di alienazione misto a stupore, Osaka ti dà l’idea di essere una città in cui tutto è possibile: vedere un’auto volante tra i palazzi, farsi servire la colazione da un robot, perdere ore in un negozio di walkman e vecchi Game Boy.

Dalla stazione, i treni scompaiono come serpenti di metallo tra i grattacieli. Si sente in lontananza del pop giapponese, roba che da noi si ascoltava nei primi anni duemila. Mi guardo intorno e scopro dei ragazzi che cantano in mezzo alle persone; hanno accanto a loro un QR stampato attaccato alla cassa che si portano dietro, è il link del loro profilo Instagram. Proseguo, seguendo la massa che si distribuisce su strade pedonali sospese tra i palazzi. Alla prima scala che trovo, scendo sulla strada, quella vera, dove passano i bus e le macchine. Nell’aria si sente odore di cibo fritto: decido di seguirlo per qualche metro e arrivo davanti a un piccolo ristorante. Vendono takoyaki.

Osala, la pancia del tonno
Osala, la pancia del tonno

Chi è fan di One Piece ricorderà la Takoyaki Eight, la nave dove Hacchan, Kayme e Pappagu vendono queste polpette fritte tipiche. Non bisogna scordare che Osaka è una città di mare. Anche Tokyo lo è, ma non si sente; a Osaka, invece, l’oceano entra dentro la città con la sua aria salata e tutte le influenze che la sua presenza comporta. Il caos, prima di tutto. È disordinata, sporca; in alcune zone non sembra nemmeno di essere in Giappone. Poi c’è la natura artificiale di questa città, la luce. Ci sono schermi enormi che proiettano scritte, gatti giganteschi che si arrampicano sui grattacieli e copertine di manga. È la loro luce fredda a rendere pallidi i volti dei passanti, a colorare l’asfalto di grigio chiaro e a trasformare ogni specchio in un gioco di riflessi. Camminare per Osaka è come entrare dentro a un caleidoscopio.

Ho ritirato la mia porzione di takoyaki e sono andato a sedermi su una panchina vicino all’arrivo dei taxi. Mentre ho ancora in bocca la prima polpetta, alzo la testa e per poco il boccone non mi va di traverso. Tra le cime degli edifici noto una gigantesca ruota panoramica rossa. È costruita sul tetto di un centro commerciale e sembra un disco volante precipitato che si è incastrato tra i palazzi. Finisco in fretta di mangiare e vado in quella direzione. Passo sotto a un tunnel e attraverso almeno altri due centri commerciali prima di raggiungerla. Prendo un ascensore e salgo fino al decimo piano. Una segnaletica mi indica la biglietteria. Salire sulla ruota costa 1.700 yen, circa dieci euro. Pago e mi metto in fila. La ruota gira lentamente, si vede ogni cosa e ogni cosa ha una propria luce. Ci sono i grattacieli vicino a me, che ne hanno migliaia, di luci, e la loro ombra nella notte li fa sembrare transatlantici sospesi in verticale. Poi ci sono le luci fucsia e azzurre delle insegne che svettano sugli edifici più bassi. Nulla di ciò che riesco a vedere da qui è al buio, eppure è notte fonda. La cosa più simile al buio è una macchia che si allarga verso sud. In quel tratto le luci sono meno forti e sembrano parecchio distanti l’una dall’altra. Quella macchia di buio che risalta si chiama Kamagasaki. Fa parte del distretto di Nishinari-ku, uno dei ventiquattro distretti che formano la città di Osaka.

Osaka, la pancia del tonno. La città e le sue luci

Kamagasaki, noto con il soprannome di «favela giapponese», è un insieme di baracche che si sono accumulate col passare del tempo. Nel corso del secolo scorso divenne famoso per diverse rivolte proletarie contro la polizia, alcune anche molto violente. Oggi raccoglie lavoratori alla giornata, prostitute e alcolizzati, che vengono rigettati dalla metropoli e esiliati in questo sobborgo. Nel 2018 è uscito un film diretto dal regista Leo Sato, The Kamagasaki Cauldron War, una commedia drammatica che racconta la storia di questa periferia e implicitamente la storia delle periferie di tutto il mondo. Nel film, così come nella realtà, le persone che arrivano a Kamagasaki vengono inghiottite dalla malavita, che s’impossessa delle loro vite e li tiene appesi a un filo sottile. Così il crimine organizzato continua ad arricchirsi sfruttando una forza lavoro a bassissimo costo. Ma a Osaka la cosiddetta Yakuza non opera solo nei sobborghi.

C’è infatti un altro quartiere dietro le cui quinte agisce il crimine organizzato. Non si tratta di un sobborgo frequentato da tossici e poveri, tutt’altro, ci vanno i ricchi e i turisti. Se sposto lo sguardo lo vedo anche da qui in alto. Al contrario di Kamagasaki, è una macchia fitta di luci che salta subito all’occhio. Il suo nome è Tobita Shinchi e dopo Kabuki-cho a Tokyo è il quartiere a luci rosse più grande del Giappone. Dobbiamo immaginare vie strette con insegne, luci colorate e uomini in completo che sfilano davanti ai locali. Le prostitute stanno sedute su tatami, altre ti fermano per strada e ti invitano a bere una cosa con loro. Il tema della prostituzione in Giappone è abbastanza controverso. Il governo la condanna come reato ma allo stesso tempo, in qualche modo, la tollera.Sulla carta, infatti, i bordelli di Tobita Shinchi sono ristoranti e le prostitute regolarmente assunte come cameriere. Basta tuttavia fermarsi anche solo cinque minuti per capire che in questa zona la prostituzione viene praticata senza nessuna remora. Le ragazze ti fermano e ti fanno proposte esplicite mentre i papponi si confondono nella folla assieme ai clienti abituali.

Dall’alto Osaka sembra un luna park, con le sue giostre, le sue attrazioni, balene meccaniche e gigantesche insegne al neon che ti guardano. Ce n’è per tutti, sa farti ridere, farti innamorare, farti paura. È il Giappone condensato in 223 chilometri quadrati, decadente e oscura, i palazzi storici che sembrano nuovi – perché in realtà lo sono – e i quartieri con case basse e tralicci che se ne fregano della modernità, del caos e del consumismo. Forse perché chi vive in quelle case basse non vuole preoccuparsi del tempo, delle cose che cambiano e dei grandi centri commerciali che sorgono di continuo in ogni angolo. È il caso della città di Sakai, che fa parte di Osaka, eppure ne è completamente estranea. 

Osaka, la pancia del tonno. Stazione dei treni
Osaka, la pancia del tonno. Stazione dei treni

Per raggiungere Sakai prendo un treno e poi il metrò. Nell’aria, appena esco dalla stazione, sento puzza di ferro caldo. È un odore che conosco perché sono cresciuto in una città dove c’è un’acciaieria. Ricorda il sangue. Le strade non sono affollate, solo poche auto e qualche bicicletta. 

C’è molto sole oggi e i passanti si proteggono con cappelli e ombrelli. È curioso il rapporto dei giapponesi con il sole, vedere una persona abbronzata è rarissimo. Nonostante ce ne siano a centinaia, spiagge e luoghi marittimi vengono snobbati e frequentati prevalentemente da turisti. Per i giapponesi la pelle è un oggetto prezioso che va curato ed esposto poco, una macchina di lusso che per paura di rovinarla si tiene sempre in garage. Proprio per questo è difficile dare un’età ai giapponesi. Curando così tanto la pelle ti sembrano sempre tutti molto più giovani della loro reale età anagrafica. Indossano manicali, si proteggono con ombrelli, foulard e cappelli larghi, come se il sole fosse un nemico da cui proteggersi.

Mentre giro per le vie di questo quartiere, mi trovo spesso a sbirciare dentro ai cortili, in cerca di una bottega di qualche artigiano che produca coltelli. Sakai è conosciuta in tutto in mondo per i coltelli da cucina, quelli che noi chiamiamo ‘da sushi’. Di tanto in tanto si sentono dei rumori, ma dall’esterno non vedo nulla. Alla fine trovo una vetrina dove sono esposte lame di ogni misura, da quelle più piccole per pulire le radici di daikon a quelle più grandi per sfilettare i tonni. La lavorazione del ferro è qualcosa che affonda le sue radici nella storia di questo paese. I coltelli da cucina sono considerati i diretti discendenti delle famose spade dei samurai, le katana, perché tradizionalmente vengono costruiti anche loro con l’acciaio al carbonio che dà un’affilatura più durevole nel tempo. Oggi, con la diffusione di altri tipi di acciaio spesso più economici, gli artigiani che lavorano l’acciaio al carbonio rappresentano una minoranza.

A Sakai, la produzione di coltelli cominciò nel XVI secolo, quando i portoghesi importarono il tabacco in Giappone. Le prime lame prodotte erano appunto quelle delle mannaie per tagliare le foglie di tabacco, e siccome i giapponesi utilizzavano pipe dal camino piccolissimo, i kiseru (simili a quelle per fumare l’oppio), serviva che le foglie fossero ridotte a filamenti sottilissimi. Così, i produttori di coltelli di Sakai dovettero specializzarsi nell’affilatura delle lame.

Osaka, la pancia del tonno. Nella bottega dei coltelli
Osaka, la pancia del tonno. Nella bottega dell’itame

Entrando nella bottega, un itamae seduto sul tatami scruta attentamente una fila di coltelli disposta davanti a lui. Gli itamae sono i maestri del sushi e del sashimi. Si riconoscono per una fascia che portano in testa e perché, come vuole la tradizione, sono tutti uomini. Ma chi gli sta mostrando il set di coltelli è una donna che, come mi vede entrare, si alza e mi viene incontro. Le chiedo se posso dare un’occhiata, lei sorride, parla bene l’inglese e mi dice di fare pure con calma. La bottega non è grandissima, è divisa in una parte di esposizione e una di laboratorio a vista con un vecchio bancone da lavoro in legno. Mentre mi aggiro scattando qualche foto, sento un rumore che mi fa voltare di scatto. È la donna, che ora sta in ginocchio sul tatami. Mi avvicino per vedere meglio. Sta incidendo dei caratteri sulle lame dei coltelli. Usa un martello e diversi timbri. Rimango a osservarla. Anche l’itamae la osserva con ammirazione. Aspetta che abbia finito. Lui è un ragazzo piuttosto giovane e sorseggia di tanto in tanto del tè da un bicchierino. Si accorge che lo sto fissando, mi sorride.

Continuo a gironzolare per la bottega e mi fermo davanti a un coltello. Il manico, in legno di magnolia, sarà lungo almeno cinquanta centimetri e la lama, leggermente ricurva, finisce con il tanto. Esco dal negozio e ritorno per strada. Mi è venuta fame e voglio cercare un posto dove mangiare. Giro per le vie che mi sembrano tutte uguali e trovo un posto che dall’esterno ha l’aspetto di un ristorante, così mi avvicino alla porta e un’anziana signora mi viene incontro facendo il segno della X con le mani. Comincia a parlarmi in giapponese e io, per farle capire cosa stia cercando, faccio il segno del cibo con le mani. La donna sorride e indica una direzione, verso il mare. La ringrazio inchinandomi e proseguo per alcuni chilometri. Il caldo è insopportabile e sono madido di sudore.

Osaka, la pancia del tonno. Anziana signora
Osaka, la pancia del tonno. Anziana signora

Arrivo al porto e, con mia grande delusione, non vedo nessun ristorante. Sono stanco, mi siedo sul pontile. Dopo un po’, un peschereccio entra nella marina e attracca a qualche metro da me. Un gruppo di persone si accalca lì vicino e decido di unirmi a loro. Dal battello alcuni uomini sbarcano un tonno. Un arpione lo passa da parte a parte, ma pare stia ancora respirando. Ogni tanto ha qualche spasmo. La folla segue i due uomini e io mi accodo. Stendono il tonno su un banco di metallo. Soltanto dopo mi renderò conto di essere entrato in un piccolo mercato del pesce locale. L’attenzione della gente è riservata al tonno, come fosse la carcassa di un enorme mostro marino. Ha lasciato per terra una striscia di sangue scuro e melmoso. Riesco ad avvicinarmi e lo guardo negli occhi, due grandi cerchi bianchi all’interno dei quali nuotano due cerchi neri più piccoli. Il suo manto grigio brilla sotto le luci al neon. Dalle branchie, che si muovono ancora, fuoriescono spruzzi di sangue misto ad acqua salata. La gente aspetta, non so cosa di preciso, ma qualcosa sta per accadere.

Il pesce emette i suoi ultimi respiri, sbatte con poca forza la pinna posteriore e cerca l’acqua, ma al suo posto trova un freddo bancone di metallo. Alzo la testa e vedo uno schermo nero che scende dal soffitto, ci sono delle cifre rosse che lampeggiano. Quello non è solo un banco, ma una bilancia. Un tizio toglie l’arpione e le cifre smettono di lampeggiare.

Per i giapponesi il tonno è il pesce più importante. Utilizzano ogni sua parte, dalle pinne alle interiora. Viene mangiato cotto, scottato, crudo o esiccato, per fare il dado che viene utilizzato nei brodi. Il tonno è un simbolo e la sua carne viene consumata come fosse una sostanza stupefacente, in maniera compulsiva. Ci sono perfino ristoranti di sushi dove si mangia esclusivamente tonno. Mangiano così tanto tonno che non si accontentano di quelli del Pacifico: importano i tonni rossi siciliani, il tonno a pinne gialle del Tirreno e quello pinna blu dell’Atlantico. Un tonno pinna blu all’inizio del 2023 è stato battuto a un’asta qui in Giappone per il valore di 257 mila dollari. Ma non è il record assoluto, perché ci sono tonni che valgono milioni di dollari. Nei ristoranti di sushi locali, il prezzo varia in base al tipo di carne. Più è grasso, più costa. E la parte più grassa è la pancia, in giapponese si chiama otoro.

Osaka, la pancia del tonno. Mercato del pesce
Osaka, la pancia del tonno. Mercato del pesce

È arrivato un uomo che si posiziona davanti al tonno. Estrae da sotto la bilancia lo stesso coltello che avevo osservato nella bottega, quello che assomigliava a una katana. Con un colpo netto gli mozza la testa. Produce un suono sordo e profondo, simile a quello di un tamburo. Deve essere già stato venduto a qualcuno, perché l’uomo inizia a sfilettarlo, stando attento a non lasciare indietro neanche un filamento di carne. Sembra di assistere a una funzione religiosa, con tutti in silenzio a osservare la scena. Il sangue ha completamente macchiato il metallo della bilancia. Quando arriva alla pancia, la carne è più chiara e la lama scorre come in un panetto di burro.

Se il Giappone fosse un tonno, Osaka sarebbe la sua pancia. Per una questione geografica, dato che si trova esattamente a metà dell’isola. E poi perché Osaka rappresenta la parte più in vista del Giappone, la più grassa, consumista. Ma Osaka è anche intestino, viscere. Ed è interessante notare come queste due metà, che sono agli antipodi, possano coesistere. I grandi quartieri con grattacieli moderni e negozi di lusso sopravvivono grazie a zone come Kamagasaki, e alla sua manodopera a basso costo. Una luminosa e chiara, l’altra oscura e celata. Ci sono poi le parti di carne vicino alla pancia, quelle che nei sushi bar vengono vendute ai turisti come medium fatty tuna, che hanno un costo più accessibile e sono comunque gustose, come la città di Sakai, accanto alla pancia grassa, meno visibile, più tranquilla e lontana dalle budella. Il sapore del tonno e il suo colore rosso brillante che risalta sul riso bianco raccontano tutto del Giappone: un paese più terrestre che marittimo, dove l’unico sole che tocca veramente la pelle bianca delle persone è quello rosso dell’alba.

Quando la lama ha terminato il suo lavoro, del tonno non rimane traccia, solo pezzi di carne squadrati che vengono pesati e venduti. Resta il sangue, con il suo pungente odore, simile a quello dell’acciaio incandescente, lo stesso che si percepisce passeggiando per le vie di Sakai.

Mentre torno in metro verso la stazione, quell’odore persiste, come se mi fosse rimasto impregnato nei vestiti. Tra qualche giorno lascerò Osaka per recarmi – è un ritorno – verso l’ultima tappa del mio viaggio: Tokyo, la testa, gli occhi e i denti del tonno.


Testi e fotografie di Umberto Ferrero